Pro Vercelli: pallone e conflitti nel campionato 1920-21

Pro Vercelli: pallone e conflitti nel campionato 1920-21

Novembre 29, 2020 0 Di Luca Sisto

Nel 1996 Rosalino Cellamare, in arte Ron, insieme a Tosca vince Sanremo con la canzone “Vorrei incontrarti fra cent’anni”.

Chissà cosa avrebbero pensato le casacche bianche della Pro Vercelli degli anni venti del secolo scorso, se avessero saputo che, cento anni più tardi, i derby piemontesi con i grigi dell’Alessandria e con il Novara si sarebbero giocati in Serie C. Certo, la Pro Vercelli al momento è una società solida, ma il “Quadrilatero” del pallone piemontese, se ancora esiste, non conta più Pro Vercelli, Alessandria, Novara e Casale (addirittura in D), come cento anni fa.

 

Il contesto storico della Prima Categoria italiana

Il campionato italiano di massima serie del 1920-21, è il secondo dalla fine della Grande Guerra. L’Internazionale era campione uscente, ma la Pro Vercelli (nella foto della finalissima tratta dal Corriere dello Sport), al gran completo, si presentava come la squadra più in forma del decennio precedente al conflitto bellico. Avendo collezionato 5 campionati (che “scudetti” non si chiamano ancora, come raccontavamo qui), i vercellesi stavano cominciando la scalata al numero di vittorie del Genoa, che aveva messo in bacheca sei dei primi sette campionati italiani (con l’eccezione del Milan versione 1901). La Juventus nel 1905 e ancora due volte il Milan, precedevano l’inizio della cavalcata trionfale di Vercelli nel calcio che conta.

All’epoca, Vercelli non era neppure capoluogo di provincia, ma faceva parte della provincia di Novara. Sarà quindi l’unico club espressione di una città non capoluogo ad ottenere tale trionfo (prima della vittoria  eccezionale della Novese, di Novi Ligure, nel campionato 1922, quello dello scisma dalla FIGC, ma ne parleremo più tardi). Dal 1908 al 1913 la Pro Vercelli vince 5 campionati su 6 (ad eccezione del successo dell’Internazionale nel 1910), consentendo anche alla neonata Nazionale Italiana di Calcio, di attingere a piene mani dalle casacche bianche: nel 1913 infatti, la partita amichevole giocata allo stadio Piazza d’Armi di Torino, il primo maggio, fra Italia e Belgio (vinta dai nostri 1-0), conterà tra le fila dei padroni di casa ben 9 giocatori su 11 della Pro Vercelli, 8 dei quali addirittura nativi di Vercelli. Questo perchè il modo di intendere il calcio in città era diverso dagli altri grandi club, più votati per esigenze di fondazione ad ospitare storicamente anche nomi e soggetti anglofoni. Penso, ad esempio, al portiere vincitore di 6 campionati col Genoa, il medico inglese James Spensley, assoluto pioniere e leggenda del calcio italiano sin dai primi vagiti.

Famiglie di calciatori come i Milano e i Rampini, faranno parte sia del primo quinquennio di vittorie (Giuseppe Milano o Milano I, Felice Milano o Milano II che perì durante la Grande Guerra, Carlo Rampini o Rampini I) sia del biennio successivo alla guerra (Aldo Milano o Milano III, di cui parleremo diffusamente, Remigio Milano o Milano IV e l’eroico Alessandro Rampini o Rampini II).

Nel 1914 il dominio si interrompe, ma è ancora una squadra piemontese ad ottenere la vittoria finale: a Casale Monferrato si festeggia il primo storico trionfo dei nerostellati del Casale. Con la vittoria del Genoa del leggendario De Vecchi nel 1915, il campionato subisce l’interruzione della Grande Guerra e riprenderà, con tutte le difficoltà del caso, solo nel 1920, col secondo successo dell’Internazionale a dieci anni di distanza dal primo.

 

Il Campionato 1920-21

Quella di cent’anni fa non è una Prima Categoria facile da decifrare a inizio stagione. Anzitutto, non essendo il calcio italiano giunto nè al professionismo nè al campionato a girone unico (inaugurato nel 1929-30), la formula prevede ancora un torneo spaccato in due (per esigenze organizzative e logistiche sì, ma anche per tradizione) fra Italia Settentrionale e Italia Centro-Meridionale. Ma non è tutto, perchè al nord ci sono 5 raggruppamenti regionali (a loro volta divisi in sotto-gironi), mentre al centro-sud ce ne sono tre, laddove solo la Campania conta due sotto-gironi.

Nel raggruppamento piemontese, girone B, c’è subito lo scontro fra Pro Vercelli e Alessandria, che riescono a spuntarla, rispettivamente al secondo e al primo posto, davanti proprio al Casale e ad altri club minori.

La rivalità, dopo il primo round in favore degli alessandrini, si rinnoverà poi alle fasi interregionali di spareggio. L’Alessandria supera il Modena 4-0 nella “finalissima” del suo raggruppamento (le due squadre erano giunte a pari punti), mentre la Pro Vercelli ha la meglio di una lunghezza sull’Unione Sportiva Torinese, in un gruppo che vedeva anche la delusione Internazionale e il Bentegodi Verona.

Il 10 luglio, nella calura dello spareggio di Torino, la Pro Vercelli supera l’Alessandria 4-0, con i grigi che si ritirano intorno al sessantesimo e la federazione che è costretta ad omologare il risultato su indicazione dell’arbitro.

Il Bologna, che ha battuto il Genoa, il 17 luglio è l’ultimo ostacolo della Pro Vercelli prima della finalissima con la vincente del centro-sud (la quale, tradizionalmente considerata molto più debole, mai aveva vinto e mai vincerà un campionato con tale formula). Le casacche bianche sconfiggono il Bologna 2-1all’imbrunire sul neutro di Livorno con un gol al 128′ minuto di Rampini II, una sorta di extra time a oltranza (ovvero fino ad avvenuta segnatura) dei supplementari, e si mettono una grossa fetta di vittoria in tasca.

Il gol del vercellese era avvenuto nel momento di maggiore difficoltà dei bianchi, su un’azione di contropiede dettata da un lancio di Rosetta (sì, quel Rosetta) per lo stesso Rampini, a detta dei tifosi viziato da fuorigioco. L’arbitro Vagge fischiò prima che il pallone entrasse in rete scatenando la reazione dei bolognesi, convinti dell’offside, con i tifosi che invasero il campo. Le cronache del tempo parlano anche di successivi scontri fra tifosi a colpi di rivoltella. Un episodio questo da condannare certamente, ma che stava diventando piuttosto comune nel contesto storico italiano, in una fortissima contrapposizione fra fascisti, socialisti e liberali che, inserita nel calderone post Grande Guerra, avrebbe portato in breve tempo al potere Mussolini.

Quattro anni più tardi, ritroveremo un clima simile nella lunga serie di spareggi fra Genoa e Bologna, il cosiddetto “Scudetto delle Pistole”, di cui abbiamo parlato qui.

Nel frattempo, nella più importante rivalità calcistica dell’Italia centrale di quegli anni, il Pisa batte il Livorno 1-0 sul neutro di Bologna e contenderà il campionato alla Pro Vercelli.

La finalissima del campionato si gioca il 24 luglio, sotto un sole tremendo, sul neutro di Torino, fra le proteste dei toscani, che ritengono la sede troppo vicina a quella della Pro Vercelli. I bianchi sono infatti sostenuti dalla stragrande maggioranza del pubblico che assiepa spalti e bordo campo e, stando alle cronache, godono anche di qualche favore arbitrale. Nei primi minuti il pisano Gnerucci viene letteralmente abbattuto da Rampini II sotto gli occhi del direttore di gara Olivari, che non lo espelle nonostante le vibranti proteste dei toscani. Non essendo previste sostituzioni, il Pisa resta in dieci.

Ceria al ’39 porta in vantaggio la Pro Vercelli dopo un lungo assedio che aveva trovato sempre pronto il portiere pisano Gianni, lodato come migliore in campo. Un rigore di Sbrana a inizio secondo tempo riporta incredibilmente il risultato in parità. A quel punto il Pisa cerca di difendersi con i denti, ma è il solito ineffabile Rampini II a segnare il gol vittoria scattando sempre sul filo del fuorigioco; oppure oltre, come protesteranno i pisani aggredendo verbalmente (o qualcosa in più) l’arbitro Olivari, che espelle Viale riducendo il Pisa in nove uomini. A quel punto i toscani si arrendono sino al fischio finale, promettendo però di fare ricorso in federazione per il discutibile arbitraggio e per la scelta di Torino. Il ricorso viene rigettato, la Pro Vercelli è “Campione d’Italia” per la sesta volta.

I vercellesi vollero dedicare la vittoria, durante i festeggiamenti, al compianto Aldo Milano, conosciuto come Milano III, centrocampista offensivo che aveva iniziato la stagione con 3 gol in appena 7 presenze. Ma cos’era accaduto al ragazzo? Per capire il complicato contesto in cui si svolsero i fatti, dobbiamo fare un passo indietro e aprire gli archivi storici de La Stampa, della cui digitalizzazione e fruibilità (oggi interrotta) abbiamo spesso fatto tesoro.

Il caso Milano III e la cosiddetta “guerra delle lapidi” nel Piemonte anti-fascista.

Il terzo dei fratelli Milano, dinastia di calciatori vercellesi, era Aldo, un ragioniere impegnato attivamente in politica, seppur “non tesserato con alcun partito”. Di idee vicine al PNF, convinto da alcuni amici camerati a compiere insieme gesta di forte rilevanza simbolica, Aldo Milano si trovò, la notte dell’8 gennaio 1921, suo malgrado, sotto il fuoco di una guardia di Albano Vercellese.

Secondo “La Stampa”, la notizia, che fra le tante di violenza politica che circolavano in quel periodo arrivò in discussione alla Camera del Regno d’Italia solo un mese dopo, il 3 febbraio, scatenò gli animi degli onorevoli.

L’on. Rossini, liberale, riporta i fatti così come riferiti dal pro-sindaco di Albano Vercellese. A quel tempo, nel biellese anti-fascista e in gran parte del Piemonte, era in atto la cosiddetta “guerra delle lapidi”. Era estremamente frequente l’iniziativa di politicizzare le epigrafi sulle lapidi in ricordo dei caduti, sicchè per quella di Albano Vercellese, il pro-sindaco di estrazione socialista scelse di far aggiungere il riferimento alla causa del Capitalismo” a quella di “ai morti che dettero ignari la giovinezza”. La lapide quindi recitava “Ai morti che dettero ignari la giovinezza alla causa del capitalismo”.

Ciò mandò su tutte le furie il Milano, che aveva perso il fratello Felice (come detto, uno dei protagonisti della prima fase di vittorie della Pro Vercelli) nella Grande Guerra, e gli altri camerati, che decisero per una spedizione in grande stile che rovinasse la lapide.

Dal momento che il pro-sindaco aveva posto una guardia a difesa della stessa, conscio che i fascisti avrebbero tentato di deturparla, la guardia stessa sparò dei colpi di fucile in direzione dei giovani vercellesi. Come risultato, Aldo Milano morì ai piedi della lapide. Le sue ultime parole furono per la guardia che ne controllò le condizioni di salute: “ti perdono, vigliacco”.

Durante il dibattito, prende la parola l’on. Calò, che più avanti sosterrà Mussolini [il Calò era un pedagogo di professione, pur non essendo appartenente al PNF, e anzi fu in seguito picchiato dagli squadristi per il suo appoggio alle iniziative di Gaetano Salvemini, uno dei più importanti politici antifascisti meridionali, a cui è intitolata la piazza del mio quartiere di Bagnoli], difendendo l’azione dei camerati e accusando l’on. Rossini di menzogna. Il Calò rferisce i fatti così come da lui acquisiti attraverso le proteste degli abitanti del luogo, stanchi delle violenze fra ambedue le compagini politiche: a suo dire, i camerati avevano intenzione di cancellare solo la dicitura “alla causa del capitalismo” e non di infrangere la lapide. Gli uomini infatti erano reduci della Grande Guerra e si erano sentiti offesi, si presume, dall’irrispettosa aggiunta alla lapide da parte del pro-sindaco. Secondo le cronache dell’estrema destra dell’epoca e di quella revisionista moderna, Aldo Milano non era tesserato fascista, ma le sue spoglie vennero in seguito traslate, in qualità di martire fascista, nella cripta del chiostro di Sant’Andrea a Vercelli.

Aldo Milano, in divisa nella foto di wikipedia

Nel dibattito alla camera, come si legge dalle righe a disposizione, interviene il Giolitti, cercando di placare gli animi. Giolitti, da navigato statista, sceglie la politica (per così dire, anticipando tragicamente i tempi) dell’appeasement, rimembrando la sua reticenza ad intervenire con la forza sin dal 1892 contro i fasci da combattimento siciliani. Difatti, ricorda, il governo dell’epoca si sciolse con le dimissioni dello stesso Giolitti, e fu il successivo guidato da Crispi a reprimere nel sangue quei moti.

Giolitti è convinto che in un momento storico di estrema ed incontrollata violenza, lo Stato debba farsi portatore di un messaggio di pace. Pagherà il prezzo della storia, un po’ come sarebbe accaduto più tardi a Francia e Gran Bretagna nei confronti di Hitler, per il suo mancato decisionismo.

Va da sè che, in un tale contesto, la Pro Vercelli si trovò nella posizione di giocare quei restanti sei mesi di campionato “alla morte”. Non abbiamo alcuna prova (a differenza di come accadrà più avanti con lo “Scudetto delle Pistole”) di connivenze tra la federazione ed eventuali favoritismi arbitrali di stampo fascista e non è assolutamente nostra intenzione formulare tali ipotesi. Non è questo il senso del discorso. Piuttosto, è nostro dovere rimarcare una questione fondamentale per comprendere gli eventi di quegli anni: quando si parla di colpi di rivoltella e ingerenze dei tifosi (veri e propri ultras politicizzati ante-litteram) a bordo campo e all’esterno dello stesso, non si può prescindere dal contesto storico dell’epoca: il calcio era diventato espressione di un gioco più grande, in cui in campo c’erano a confronto non solo 22 giocatori in casacca sportiva, ma anche idee politiche a quel tempo in voga e dal peso sempre più predominante e conflittuale.

 

L’avvento del professionismo e la fine del dominio vercellese

La Pro Vercelli firmerà il suo settimo e ultimo sigillo nella stagione 1921-22, superando il Genoa negli spareggi della Lega Nord e la Fortitudo nella finalissima. Ma quel torneo verrà ricordato per l’assegnazione di due titoli. Il campionato di calcio italiano (CCI) era espressione delle 24 squadre considerate storiche, mentre il campionato FIGC, dopo lo scisma conseguente al rifiuto del “Progetto Pozzo” da parte delle neopromosse e delle piccole squadre, che avrebbe previsto per loro la necessità di rigiocare in seconda categoria, fu vinto dalla Novese. Il club di Novi Ligure ottenne quindi uno “scudetto” (lo ripetiamo, si sarebbe chiamato così solo due anni più tardi sull’esempio del D’Annunzio) da neopromossa e non essendo espressione di una città capoluogo di provincia, come la Pro Vercelli del 1908. Nella stagione successiva, grazie al cosiddetto Lodo Colombo, la Prima Categoria tornò ad essere un unico campionato a 36 squadre divise in 3 raggruppamenti regionali, ma con 4 retrocessioni per zona, in modo da ridurre progressivamente il numero di partecipanti (fino ad arrivare alle 18 squadre del primo campionato a girone unico, 1929-30).

L’avvento di Edoardo Agnelli alla presidenza della Juventus nel 1923 (fino alla tragica morte avvenuta nel 1935 per le conseguenze di un incidente aereo) gettò le basi per modificare per sempre la concezione del calcio italiano come sport. La Juventus acquistò Rosetta e lo ricompensò con uno stipendio mensile. Quel Rosetta che, con il portiere Combi e l’ex nerostellato Caligaris, formerà il trio storico della Juve del quinquennio e la base di partenza dell’Italia di Pozzo, almeno fino ai mondiali del 1934, quando i due terzini vennero accantonati [solo Rosetta riuscì a trovare un gettone di presenza nel 7-1 contro gli Stati Uniti, mentre Caligaris, seppur convocato, non vide il campo per quella che sarebbe stata la sua 60esima presenza in nazionale. Alla sua morte, per aneurisma durante una partita amichevole tra vecchie glorie juventine, Vittorio Pozzo dedicò diverse righe di elogio e commozione sulle pagine de La Stampa].

Un giovanissimo Silvio Piola in maglia Pro Vercelli (foto magicapro.it)

Per la Pro Vercelli ormai, non erano rimaste neppure le briciole. Il quinto scudetto consecutivo di quella Juve, nel 1934-35, coincise con la retrocessione della Pro Vercelli in serie B. Quella stagione fu anche la prima giocata lontano da Vercelli per l’ultimo grande prodotto del vivaio delle bianche casacche: l’immenso Silvio Piola, il più grande cannoniere della storia del calcio italiano. Cresciuto nella Pro Vercelli (di cui è il massimo goleador con 51 reti, così come per Lazio con 143 e Novara con 86), Piola su pressione dei gerarchi fascisti era passato alla Lazio dove sarebbe stato trattato da professionista. La sua partenza privò i vercellesi del faro offensivo necessario per reggere una massima serie ormai appannaggio dei ricchi club del calcio nostrano.

Da allora, le casacche bianche ancora attendono uno storico ritorno in serie A.