Perchè siamo ancora indietro col razzismo in Italia

Perchè siamo ancora indietro col razzismo in Italia

Luglio 1, 2020 0 Di Luca Sisto

Il 28 novembre 2005, il difensore ivoriano del Messina, Marc Zoro, prende il pallone con le mani e fa per uscire dal campo.
Vittima di insulti provenienti dalla curva interista, Zoro non ne può più e decide di lanciare un segnale.
Immediatamente si precipitano verso di lui il nigeriano Oba Oba Martins e l’Imperatore Adriano.
Il caso rientra, ma è evidente che la normativa in Italia non sia d’appoggio ad una presa di posizione così forte da parte dei giocatori.
In Italia non siamo abituati a considerare il razzismo un problema. Resta una questione “altro da noi”. Balotelli? Il problema è suo. Koulibaly? Un professionista non dovrebbe reagire così. Eto’o? Lecito lanciare una buccia di banana a uno che esulta mimando un gorilla.
E potrei andare avanti all’infinito.
Da ragazzo che frequenta lo stadio fin dal ’93, ricordo negli anni bui del Napoli una partita di Coppa Italia al San Paolo, contro il Bari.
Nei pugliesi in attacco giocava un certo Chukwu, cognome che in Nigeria ha legami con il divino. Chukwu ha giocato anche in nazionale, ma probabilmente è l’unico a ricordarsene, a parte me. Ero in Curva e ricordo una sensazione di fastidio quando, appena provava ad involarsi palla al piede, veniva fischiato con dei “buu”.
Ripensando a quella sensazione, pur in una città tendenzialmente anti-razzista, ho dedotto che i buu non fossero a causa del valore, scarso, del calciatore, ma avevano luogo solo in virtù del colore della pelle.
Erano quindi cori razzisti? Sì, certo.
Si può dire che, in virtù di una sparuta minoranza, la curva napoletana, la città, l’Italia intera, siano razzisti? No.
Se la giurisprudenza sportiva in Italia, ha tentato di mettere un freno a episodi correlati a razzismo e discriminazione territoriale negli stadi e fra gli addetti ai lavori, va comunque fatto notare che il razzismo è un qualcosa con cui ancora non abbiamo davvero fatto i conti.
Innanzitutto, a differenza di Paesi come Stati Uniti, Francia, Spagna, Olanda, Portogallo, Belgio, Inghilterra, Germania, l’Italia non ha mai davvero riconosciuto il suo passato coloniale, a causa dell’attuale scarsa influenza politica in quei territori: in Libia, la Turchia e la Francia hanno preso il nostro posto. Nel Corno d’Africa, abbiamo da tempo perso la nostra leadership ex coloniale, a vantaggio di Paesi come Cina, Stati Uniti e Arabia Saudita. Ci siamo chiamati fuori da quei territori politicamente e soprattutto militarmente, confinando il nostro intervento alla fallimentare gestione delle problematiche relative ai traffici di esseri umani, di rifiuti e di armi. Abbiamo insomma fatto poco, e quel poco l’abbiamo fatto male.
Siamo maggiormente preoccupati della cronica diatriba nord/sud, che neppure il coronavirus è riuscito a risparmiarci, al di là della retorica unitarista del lockdown, con il Paese spezzato in due dal numero di morti e contagi.
Ma non è tutto. Se ci rifacciamo solo al calcio, le rivalità non si esauriscono ai derby e alle dinamiche nord/sud. Possibilmente, le rivalità fra quartieri portano alla luce il vero problema del Paese: il classismo.
Solo se guardiamo all’Italia come entità storicamente divisa fra Comuni, Signorie, Ducati, Regni, Stato Pontificio e quant’altro. Solo se guardiamo alla logica dominato/dominatore, implicita nel razzismo ma presente in tutto il retaggio culturale storico italiano (Milano e Venezia con gli austriaci, ad esempio), possiamo comprendere fenomeni di basso respiro come l’arretratezza culturale ed infrastrutturale degli stadi moderni.
Siamo qui a giudicare episodi di razzismo, violenza e morte in USA, Francia e altri Paesi. Siamo qui a preoccuparci di quanti barconi raggiungeranno le coste italiane.
E chiudiamo gli occhi sulla violenza che si consuma sotto i nostri occhi. Il razzismo in Italia esiste solo come parte di un problema molto più grande. Dall’ampia forbice delle classi sociali, alla violenza stragista dello Stato, dei reazionari e rivoluzionari degli anni di piombo.
La ghettizzazione in Italia non è un fenomeno riconducibile alla razza, se non in porzioni estremamente ridotte dell’urbanistica delle grandi città. La gentrificazione delle classi sociali agiate è un problema comune. Ma solo quando faremo i conti col nostro terribile quanto trascurabile passato coloniale, potremmo arrivare ai livelli di dibattito (e di contrasto sociale e razziale) che oggi vediamo in Paesi come USA e Francia.
di Luca Sisto