L’uomo che non c’era: la storia di Moacir Barbosa e il Maracanazo 1950
Luglio 7, 2020 0 Di Luca SistoMoacir Barbosa e il Maracanazo del 1950: giudicato dal suo popolo e dalla storia come la causa della sconfitta contro l’Uruguay, Barbosa è una vittima del calcio, una sorte immeritata per un portiere che era stato grande protagonista di quel Mondiale, nonché eroe del Vasco da Gama con il quale aveva vinto diversi trofei.
Nel Vecchio Testamento della Bibbia, precisamente nel libro del Levitico, viene descritto un rituale ebraico arcaico, secondo il quale i sacerdoti erano soliti, una volta l’anno, gettare una capra dalla collina: con questo sacrificio, simbolicamente, si trasferivano all’animale i peccati del popolo d’Israele, liberandoli da essi. Il rituale traeva origine dalla volontà di pacificare il demone Azazel, un angelo che aveva convinto Dio a lasciarlo andar via dal regno celeste per mostrare agli uomini la retta via, finendo però per peggiorarne ulteriormente i costumi. In particolare, Azazel favoriva la corruzione degli uomini da parte delle donne, minando il patriarcato fondativo dell’ebraismo.
Nel 1950, il ’79 minuto della gara tra Brasile e Uruguay davanti ai 200mila del Maracanà, vide materializzarsi l’incubo di ogni brasiliano: sull’1-1, favorevole al Brasile (vantaggio verdeoro di Friaça, pari di Schiaffino), l’Uruguay conquista un pallone a centrocampo e fa partire la transizione offensiva, Ghiggia scatta sulla fascia, al centro c’è Miguez. Moacir Barbosa, portiere paulista campione di tutto con i carioca del Vasco da Gama, anticipa le intenzioni di Ghiggia spostando il baricentro del corpo verso l’area di rigore, ma l’uruguayo calcia sul primo palo, cogliendo controtempo l’estremo difensore brasiliano. È la catastrofe.
L’Uruguay vince il suo secondo mondiale, il Brasile resta a secco. Il trionfo dello spavaldo Obdulio “El Jefe Negro” Varela (famosa la sua frase di incitamento ai compagni “los de afuera son de palo”, riferendosi al calore del Maracanà), di Ghiggia e Schiaffino, fa da contraltare alla disperazione suicida del popolo brasiliano.
Bisognava trovare quindi un capro espiatorio. Chi meglio del portiere Barbosa? Il numero 1 è solo, inconsolabile. Sarà quella la sua fine personale, fra tragicomici aneddoti e una maledizione che non lo abbandonerà mai, laddove la superstizione diviene la più becera forma di espressione del religioso popolo brasiliano.
Barbosa, vedendo avvicinarsi lentamente la fine della sua esistenza terrena, commentò: “la massima pena comminabile in Brasile è di 30 anni. A me ne hanno dati 50”.
E raccontò “vent’anni fa una donna in un supermercato mi riconobbe e disse al figlio: lo vedi quello? È l’uomo che ha fatto piangere il Brasile”.
Nel ritiro di preparazione a Usa ’94, si dice che Barbosa volesse far visita alla Seleçao. Mario Zagallo però gli vietò di avvicinarsi, data la sua estrema superstizione.
Barbosa mancò il 7 aprile del 2000, vent’anni fa. Sua figlia Tereza, durante i mondiali di Brasile 2014, entrò in contatto con Dani Alves, il quale era sempre rimasto colpito dalla vicenda del padre, e le promise che l’avrebbe invitata ad assistere all’eventuale finale del Brasile. Ma non si fece più vivo.
Tereza guardò da casa il Brasile prendere 7 gol dalla Germania nella semifinale del Mineirão e sentenziò: “ora mio padre non è più solo, ma – aggiunse – non prendetevela con questi ragazzi, il calcio è fatto di vittorie e sconfitte”.
Moacir, durante la sua vita, aveva cercato invano rifugio prima nella psichiatria, poi, disperato, nella stregoneria, ancora molto influente fra le popolazioni con forte discendenza indigena e africana. Si racconta che nessuno fosse stato in grado di togliergli il malocchio, neppure lo stregone del suo quartiere alla periferia di Sao Paulo.
“Solo la morte ti libererà dai tuoi peccati, ma non potrà redimere il Brasile, perché la maledizione non è tua, solo, ma del popolo tutto”, gli fu detto.
E così è stato, anche quando lui, ormai, non c’era più.
Moacir Barbosa, Mineirazo 1950 e la tragedia di un popolo, saranno parole per sempre accomunate dalla retorica della storia, che nell’elaborazione del lutto talvolta si dimentica dei suoi figli più sfortunati.
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