Mahar vs Steiner: la partita della morte nel campo di prigionia

Mahar vs Steiner: la partita della morte nel campo di prigionia

Luglio 8, 2020 0 Di Luca Sisto

La partita della morte è stata letta e scritta in tutte le salse. Con tutta probabilità non è mai esistita. Questa è la nostra versione.

Parte I: Steiner

Eins-Zwei Eins-Zwei Eins-Zwei
Quel figlio di p* di Steiner non smetteva di puntarci il fucile addosso, con l’aria di chi avrebbe sparato solo per un disturbante godimento personale.
“Muovete quel culo secco, ucraini di m*!”
Le giornate scorrevano tutte uguali, per chi riusciva ad arrivare abbastanza vivo da vedere il tramonto, attraverso le case abbandonate, al di là del campo da lavoro più infausto dell’Oblast di Kiev.
Per me, lo sguardo assassino di Steiner appiccicato sulla pelle non era una novità. Gli era giunta voce dei miei trascorsi al ministero degli interni. Sapeva che avevo un nome al di fuori e al di dentro del filo spinato che circondava il campo. Ed è per questo che voleva cancellarlo.
Loro erano venuti a comandare in casa nostra. E, del resto, chi non voleva farlo, da secoli.
Il granaio d’Europa. Tutti Sovietici col culo degli altri, vero Stalin?
Eppure, per dio! In quel momento sognavo solo il fucile tra le braccia: marciando al di là del fiume con l’Armata Rossa, sarei arrivato a piedi fino a Berlino solo per cagare in testa a quei b* nazisti.
“Mahar, sto male. Morirò. Non credo che stasera condivideremo il nostro pane, compagno”, fece Ivan. Erano giorni che non si reggeva in piedi. Nel campo aveva perso 30 kg e ormai non ne erano rimaste che ossa.
Nel fornaio l’aria era irrespirabile, c’erano almeno 50 gradi e dovevamo portare cappelli e uniformi da lavoro.
“Tu! Muoviti! O al posto del pane ci cuociamo te nel forno!”
Steiner oggi sembra più sadico del solito. Sa bene che tra noi ci sono i prigionieri più fortunati, quelli che domenica potranno annusare l’aria senza catene.
È che…si avvicina la partita. E gli ufficiali nazisti pensano bene di umiliarci nel campo da calcio, come fanno nei campi di concentramento, tutti i giorni.
Ma Ivan tossiva sempre peggio. Quella sera non condividemmo il pane, cadde a terra come una mosca stecchita. Povero Ivan, ce l’aveva scritta in faccia la morte, scavata fra quegli occhi piccoli e ravvicinati tipici dei minatori ucraini di un tempo.
E Steiner si incazzò ancora di più, perché perse il gusto dell’omicidio.
“Mahar, tu sei il prossimo. Bystro! Bystro”
Sbrigati un paio di palle, Steiner. Ci vediamo in campo domenica, quando finalmente a mani nude e con le scarpe ai piedi, non avrai più il tuo fucile, e sarai costretto a guardarmi negli occhi.

Parte II: La partita della morte

Quella domenica mattina fummo prelevati dalle nostre camere e scortati ad un campo alla periferia di Kiev.
Allo stadio l’atmosfera era già calda e la struttura andava via via riempiendosi. Circa 10000 persone poterono assistere alla partita. Per la maggior parte si trattava di ufficiali e militari nazisti dei territori occupati dell’Oblast. Ma molti erano ucraini anti-comunisti che collaboravano col nuovo regime, assoldati attraverso Stepan Bandera e la sua banda, sempre più numerosa.
Steiner avrebbe giocato in difesa, ma tutti sapevano che il suo compito era quello di marcarmi stretto e senza troppi complimenti. I tedeschi fecero arrivare tutti coloro che erano in grado di giocare un pallone con i piedi. Le selezioni nell’Oblast durarono un paio di settimane e furono capaci di mettere su una squadra competitiva per quel livello.
Ovviamente, non sarebbe stato sufficiente. Nel campo oltre a me, c’erano altri tre ragazzi del Ministero degli Interni in orbita Dinamo. La START, così ci chiamavano. Eravamo accusati di spionaggio e così, ebrei o meno, quando i nazisti arrivarono a Kiev ci misero dentro.
Mykhola ed io avevamo scelto, poi, altre persone di cui ci fidavamo per mettere insieme almeno 11 elementi. Perlopiù si trattava di ragazzi in grado di reggersi in piedi e abbozzare una corsa con un pallone. E non è che fossero così facili da trovare in un campo di prigionia. Ma lì nell’Oblast c’era una buona tradizione calcistica e tutti seguivano la Dinamo e si fidavano di me.
Non mangiavamo da due giorni. Ci era stata portata solo dell’acqua da razionare. Hanno anche provato ad isolarmi per espressa richiesta di Steiner, ma non c’erano posti liberi in tutto il dormitorio del campo.
Quella settimana erano già morte altre cinque persone oltre al caro Ivan. Le guardie ce le avevano promesse. Si parlava di torture e punizioni severe nel caso in cui avessimo vinto la partita. Ma non ce ne importava. Per 60 minuti (erano previsti due tempi da 30) ci saremmo sentiti vivi come mai prima di allora.
Verso le 12:00 ci chiamarono a raccolta, facendoci spogliare nello stretto corridoio che porta all’ingresso delle squadre. I tedeschi nel loro spogliatoio. Si sentivano urla e canti. Si stavano dando la carica. Distintamente e, per quanto io potessi comprendere il tedesco dopo 6 mesi nel campo, udii la voce di Steiner che ripeteva “qualcuno morirà oggi e saranno dei pallidi slavi comunisti”. Quel bastardo era in fissa ma, per quanto fosse un pazzo criminale, aveva fama di aver giocato, prima che scoppiasse la guerra, nelle selezioni giovanili della Baviera. Non lo temevo affatto, ma con un arbitraggio permissivo avrebbe potuto far danni.
Finalmente alle 13:00 cominciammo ad entrare sul terreno di gioco, subissati dai fischi, che si trasformarono presto in applausi della folla in delirio per l’ingresso della selezione tedesca.
Il nostro portiere era il figlio del panettiere da cui mia madre era solita rifornirsi nel nostro quartiere. Andriy non era neppure malaccio anche se non avevo avuto occasione di testarlo, se non tirandogli di nascosto qualche tozzo di pane bruciacchiato.
Ci schierammo con una difesa a sistema, ma con la variante all’italiana. Meglio non correre troppi rischi e correre meno possibile. Davanti avrebbero agito Dimitrii e Radovan, i due attaccanti della Dinamo. Il mio ruolo era di ala sinistra, ma fondamentalmente con licenza di spaziare a tutto campo.
Dopo l’inno nazionale del Reich e il saluto nazista, al quale rifiutammo all’unanimità di partecipare, l’arbitro, un ufficiale delle SS di statura imponente, il Sig. Schultz, diede palla ai tedeschi e impose lo schieramento in campo senza troppi convenevoli tra noi capitani. Sapeva bene che Ulrich, il più appassionato di calcio fra i nostri avversari, non avrebbe permesso a Steiner di rovinargli la partita prima ancora che fosse iniziata e lo aiutò ad evitare contatti fra di noi.
Schultz lanciò un’occhiata ai tedeschi per il calcio d’inizio, poi un’altra che mi colpì profondamente, dritto negli occhi. Non me l’aspettavo: era un avvertimento? Per cosa?
Al fischio di Schultz i tedeschi passarono palla all’indietro cominciando un lungo giro palla di riscaldamento.
“Dimitrii, Radovan, serrate la linea col centrocampo! Non attaccateli!” Urlava Mykhola, che nel frattempo si era sistemato al centro della difesa.
Poi partì un lungo lancio in avanti per gli attaccanti tedeschi e l’arbitro Schultz riprese il suo spettacolino personale, intimando a Mykhola di tenere giù le mani o avrebbe fischiato fallo. Ancora non avevo toccato palla, ma Steiner mi seguiva a uomo, per adesso senza affondare colpi, visto che gironzolavo per tutto il campo in attesa di ricevere un passaggio addomesticabile.
Ulf, l’ala destra tedesca, altro ufficiale delle SS, scattò improvvisamente sulla fascia intorno al decimo minuto di gioco. Il nostro terzino lo perse completamente e dovetti ripiegare con un fallo. Ammonito. Ma come? “È il primo!” Faccio segno a Schultz. “Zitto o ti caccio!”.
Dalla punizione si creò una mischia in area e, finalmente, riuscimmo a rilanciare sulla sinistra dove toccai il primo pallone.
Steiner mi aspettava pazientemente nella sua metà campo ma ci misi poco a fronteggiarlo. Tacchetti sullo stinco, diretto, ma Schultz sembrava guardare da un’altra parte. Lo immaginavo.
Al ’25 i tedeschi aumentavano la pressione e passarono in vantaggio: lancio di Steiner ancora su Ulf, cross basso al centro e gol in spaccata di Ulrich, che aveva anticipato Mykhola da attaccante puro. Bel gol.
Il primo tempo finì con il pallone in nostro possesso e i tedeschi che falciavano senza pietà tutto quanto gli si muovesse davanti.
Eravamo morti, ma c’era ancora un tempo da giocare. Decidemmo di spostare Mykhola in posizione di metodista staccandolo dai centrali e avanzammo Petre, la mezzala tecnica, un ragazzo di origine romena che lavorava a Kiev come carpentiere da diversi anni, all’ala destra.
I tedeschi si rintanarono nella loro area. Alla metà del secondo tempo ricevetti palla sulla sinistra, finalmente saltando netto Steiner mentre i ragazzi tenevano impegnati gli altri difensori, e tirai con tutta la forza rimasta nei piedi. Parabola impeccabile, 1-1!
Avreste dovuto vedere la faccia di Steiner.
I tedeschi sospinti dalla folla non ci stanno. Su un calcio d’angolo Schultz vide qualcosa in area e fischiò fallo a Mykhola. Gliel’aveva promesso e lo fece. Il rigore sui piedi di Steiner, fu 2-1. Ci hanno tagliato le gambe.
“Ragazzi non mollate!” Ma i miei compagni non ne avevano più. E con Steiner ci eravamo scambiati calci e gomitate, tanto che la mia gamba destra non poggiava più a terra.
A 3 minuti dalla fine Schultz cominciava a guardarsi l’orologio da taschino con un certo nervosismo, come se non vedesse l’ora di fischiare la fine per affaccendarsi in tutt’altro. Di nuovo incrociai il suo sguardo, in cui sembravano bruciare le fiamme dell’inferno. Perché?
Nella distrazione generale, Petre scattava sulla fascia imbeccato da Radovan, la metteva al centro per Dimitrii mentre sugli spalti era già partito il canto in onore del Fuhrer. Steiner intervenne con la mano, nettamente, deviando la palla in angolo. Invece del rigore quel farabutto di Schultz assegnò l’angolo. Nella colluttazione che seguì le nostre proteste, Steiner tira fuori un coltellino dai calzettoni e me lo pianta nel costato.
Il sangue non faticò ad uscire, ma la partita era quasi finita e nell’adrenalina quasi non me ne accorsi. Petre si decise infine a battere l’angolo. “È l’ultima azione”, gridò Schultz ai capitani. Mykhola sbucò in mezzo all’area facendosi largo con i gomiti e di testa realizzò il gol del 2-2. Eravamo lì lì per festeggiare, tra gli ululati di disapprovazione del pubblico. Ma Steiner si avvicinò a Schultz il quale, con ampi cenni, fece capire di aver invalidato il gol, in quanto Petre aveva perso troppo tempo e il fischio dell’arbitro era in realtà fischio finale.
“Figlio di una gran p*!” Pensai. Ma non ebbi il tempo di protestare che fui colto da un’improvvisa sensazione di svenimento, seguito allo scorrere copioso del sangue dalla ferita.
Schultz sembrò inopinatamente preoccuparsene. Sapeva forse delle intenzioni di Steiner?
Chiamò a gran voce i barellieri mentre gli ufficiali delle SS entravano in campo, nel trambusto generale, per evitare che ci fossero ulteriori scontri fra le due squadre. Uno spettacolo pubblico al quale le alte cariche naziste avrebbero rinunciato volentieri, per non dover dare inutili spiegazioni al quartier generale. Chi aveva concesso tanta libertà a dei prigionieri di guerra? E per cosa? Steiner le promise a tutti. “Sarete tutti morti in meno di 24 ore, vi ammazzo con le mie mani”.
Schultz prese da parte Mykhola e gli ordinò di recarsi con i barellieri nell’infermeria. Mykhola annuì.
Non so dire come, ma presto mi ritrovai in una stanza, circondato da uffficiali nazisti, da un medico imbacuccato per bene, e dall’arbitro Schultz. Cosa ci faceva lì?

 

Parte III: la resa dei conti

Schultz e Mykhola avevano scortato i barellieri in infermeria. Non era stato facile. I ragazzi ucraini con la tattica della confusione tenevano a freno Steiner e i suoi, mentre una dozzina di soldati tedeschi aveva seguito i barellieri, col sospetto che Mykhola e Mahar potessero scappare.
Al suo risveglio, Mahar era circondato.
“Dobbiamo suturare subito la ferita”. Fece il medico rivolgendosi a Schultz, che in qualità di ufficiale delle SS di rango maggiore cercava di calmare gli animi dei soldati, in attesa dell’ordine di finire Mahar.
“La ferita ha raggiunto organi interni?” Chiese Schultz al dottore. “L’oggetto che l’ha colpito non era suff…” “Perfetto! Stia zitto e operi!” Ammonì Schultz. “E voi per favore uscite”, rivolgendosi ai soldati. “Sig. Schultz, Signore, in verità il prigioniero va abbattuto. Perché affannarsi tanto. In queste condizioni non sarebbe utile a ness…”
Ma il tedesco non ebbe a concludere il suo intervento, che si udirono all’esterno colpi di uzi.
Uscirono immediatamente tutti i tedeschi, tranne il soldato e Schultz, che si guardarono negli occhi con sfuardo di sfida. Schultz si girò verso di me, come a dire “adesso!”
Mykhola colpì il tedesco in testa da dietro con una mazza d’acciaio. Il medico ci guardò atterrito, Schultz gli intimò di stare zitto. Il dottore tentò di fuggire, ma Mykhola lo bloccò e Schultz lo strangolò prima che potesse anche solo urlare.
“Ma che cazzo sta succedendo Schultz?” Dissi.
“Mahar, sono il Tenente Olaf Schultz. Lavoro sotto copertura per il Ministero degli Interni Sovietico. Rispondo al vice-Ministro Oleh Zaprudnik, che tu conosci.” Il Colonnello Zaprudnik era il mio capo a Minsk, durante gli inverni di esercitazione in Bielorussia.
Ma in quel momento non ci capivo più un cazzo.
Dopo un lungo respiro di pausa, come se non ci fosse più tempo da perdere, Schultz riprese la parola “Mahar, Mykhola, statemi a sentire: molti come me stanno lavorando con i sovietici per liberare quanto più prigionieri possibile. Leningrado resisterà, ma non per molto. Dobbiamo provvedere agli approvvigionamenti per la città. Facciamo parte dell’operazione Iskra, che vi spiegherò dopo”.
“Schultz – intervenne Mykhola – come usciamo da qui? È pieno di ufficiali nazisti fuori. E poi Mahar non è in condizioni”.
Schultz tirò fuori un coltello da caccia, a quel punto Mykhola era completamente paralizzato, d’altronde aveva appena contribuito ad un omicidio di un civile e al ferimento, forse mortale, di un militare tedesco. Se qualcuno avesse aperto la porta, saremmo morti prima ancora di rendercene conto. “Mykhola, accendi una fiamma nella sala accanto l’infermeria, dietro quella porta a sinistra. Prendi questo coltello e riportamelo incandescente. Mahar, stringi questa corda fra i denti. Farà male”.
Oh Cristo.
Mykhola tornò dopo 3 minuti, fuori era l’inferno, ma adesso dovevamo occuparci di evitarmi infezioni mortali. Schultz piantò il coltello rovente all’altezza della ferita. Svennì di nuovo.
“Mykhola, scambia i tuoi vestiti col medico, porta il soldato nell’altra stanza”. Mykhola eseguì mentre Schultz copriva Mahar con un telo mortuario.
Aprirono la porta e si trovarono di fronte l’orrore. Molti soldati tedeschi erano a terra feriti, mentre Steiner e il suo manipolo di criminali avevano ormai legato spalle al muro tutti coloro che avevano partecipato alla partita. L’esecuzione, davanti agli occhi degli alti ufficiali e fra le urla della folla accorsa a bordo campo, fu brutale e senza appello.
Steiner fece appena in tempo a voltarsi. Con la coda dell’occhio intravide Schultz e Mykhola che trasportavano il corpo di Mahar gettandolo nel bagagliaio della vettura del Tenente e tentavano di sfrecciare via, mentre Steiner insospettito cominciò a sparare verso di loro.
I proiettili ferirono Schultz al collo, mentre Mykhola e Mahar furono solo sfiorati.
Il Colonnello Ulrich ordinò di far sparire i corpi degli ucraini, mentre i soldati ebbero il loro bel da fare nel disperdere la folla.
Steiner insieme ad altre tre vetture si lanciò all’inseguimento dei fuggitivi, ma ormai era tardi.
Schultz guidò l’auto fino ad un posto di blocco fittizio, tenuto da suoi complici che collaboravano con i Sovietici. Abbandonarono la vettura ai margini dell’Oblast di Kiev e furono scortati verso un luogo sicuro, mentre gli altri soldati fingevano controlli per bloccare Steiner e i suoi.
Steiner protestò a lungo, ma non c’era verso. A quel punto scese dall’auto insieme agli altri soldati. Ne nacque una sparatoria nella quale morirono quasi tutti i tedeschi. Steiner fu ferito gravemente ma si salvò, trasportato nel vicino ospedale da campo dagli ufficiali superstiti.
La resa dei conti era solo rimandata.
Schultz non sopravvisse a lungo. Morì per le conseguenze delle ferite subite durante la fuga.
Quando mi risvegliai, ero in un casolare abbandonato con i membri della resistenza sovietica ucraina. Fra loro, c’era lo stesso Colonnello Zaprudnik.
“Mahar, compagno, sei vivo”. “Mykhola! Amico mio dove siamo?”
“Mahar i nostri compagni sono tutti morti. Qui però siamo al sicuro. C’è il Colonnello, ricordi?” “Mahar, bentornato tra i vivi. Durante la prigionia hai avuto modo di conoscere i nazisti. Il loro modo di muoversi e di parlare. Ci tornerà utile. Ci uniremo agli ultimi afflati di resistenza sovietica nella Donbass, e da lì partiremo alla volta di Leningrado”.
Il 12 gennaio 1943 i sovietici diedero inizio all’operazione Iskra, con l’obiettivo di liberare la città di Leningrado (oggi San Pietroburgo) dall’assedio cominciato con l’operazione Barbarossa l’8 settembre 1941.
L’operazione Iskra fu decisiva per risollevare le sorti degli assediati. La resistenza dei sovietici non fu mai definitivamente spezzata. Il 27 gennaio 1943 viene considerato dagli storici la data in cui ebbe termine l’assedio di Leningrado, nonché l’inizio della fine per il Reich di Hitler.
Durante l’assedio, le vittime civili e militari sovietiche si contarono nell’ordine dei 2 milioni. Oltre 537.000 invece, fra i tedeschi, sufficienti però al fallimento dell’impresa di conquista del fronte orientale.
La controffensiva sovietica spinse l’Armata Rossa alle porte di Berlino.
Steiner fu processato e condannato a morte, a Norimberga, anche grazie alle testimonianze di tutti coloro che aveva seviziato nel campo di prigionia di Kiev.
Fra di loro, c’ero anch’io, Mahar Bondarenko.
E questa, è la storia mia e di tutti gli eroi ucraini che hanno contribuito alla resa del Reich.