Guardiola, la bellezza eterna e la lezione di Lisbona (e di Colonia)

Guardiola, la bellezza eterna e la lezione di Lisbona (e di Colonia)

Agosto 24, 2020 0 Di Valerio Vitale

Guardiola, la bellezza del gioco e la Champions. Ossessioni di un allenatore che da troppo tempo non vince la Coppa Campioni. Ma i titoli contano davvero più del calcio espresso dall’allenatore catalano? Fanno bene al City a pazientare?

“Preferisco una sconfitta consapevole della bellezza dei fiori, piuttosto che una vittoria in mezzo ai deserti”.

Lo diceva Fernando Pessoa, scrittore e poeta portoghese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, nato e morto proprio in quella Lisbona che ieri è stata palcoscenico di una delle finali di Champions più belle degli ultimi anni. Lo affermava Pessoa, lo ha pensato e, ci auspichiamo, lo pensi ancora Pep Guardiola, il grande sconfitto di questi giorni (almeno secondo i tuttologi del web), colui il quale ha sempre ricercato la grande bellezza, facendosi scivolare addosso le sconfitte rumorose, le parole taglienti, affilate come lame, di quelli che sembrano gli unici possessori della verità, di taluni che hanno al massimo giocato nei campetti di periferia ma pensano di saperne di più di uno dei migliori allenatori della storia del calcio mondiale.

Per carità, la critica è lecita, anzi doverosa, ed anche normale quando ti chiami Pep, guadagni 20 milioni di euro all’anno ed hai fatto spendere alla tua dirigenza centinaia e centinaia di milioni di euro per arrivare alla Coppa dalle Grandi Orecchie. Ma modi, forma e contenuti non sono ancora diventati fuori moda ed andrebbero tuttora perseguiti quando ci si appresta a parlare di qualcuno e del suo lavoro.

Il City è stato eliminato da un Lione in versione difesa e contropiede, differenza di budget e di salari enorme, tutto vero, ma in campo non scendono i milioni, bensì 11 persone da una parte ed altrettante dall’altra ed in una gara secca può accadere di tutto, e se poi Sterling sbaglia a porta vuota…chissà Guardiola quali colpe possa avere. La strategia adottata dal pur bravo Rudi Garcia può essere fruttifera nella gara secca, appunto, ma alla fine è come una bugia: ha le gambe corte ed è presto smascherata. Il Bayern Monaco di Flick, invece, che le partite le vuole dominare, con uno schieramento offensivo, lo ha subito spazzato via in modo netto.

La verità è che Lisbona oltre ad averci regalato lo straordinario Pessoa ed i suoi aforismi, ci ha raccontato qualcos’altro: che Guardiola non è morto, che c’è chi ancora, deo gratias, preferisce una sconfitta consapevole della bellezza dei fiori, piuttosto che una vittoria in mezzo ai deserti. In un calcio moderno ricco di tablet, droni, gps, dove l’atletismo pare contare più delle idee, dove correre sembra più importante che schierare giocatori dai piedi buoni, portato ad un estremo e assurdo livello scientifico, il Bayern di Flick ed il Siviglia di Lopetegui ci offrono l’altra faccia della medaglia, ricordandoci che la qualità conta di più della quantità, che non aver paura di giocare la palla è più importante.

E’ stato un piacere vedere giocare queste due squadre. Ambedue con terzini dalle qualità più di attaccanti esterni che di difensori (Davies e Kimmich al Bayern, Navas e Reguillon al Siviglia). Ricerca della qualità a centrocampo con Thiago Alcantara da una parte, Banega dall’altra. Fantasia, tecnica e velocità in avanti, con Coman, Gnabry, Ocampos e Suso, si proprio quel Suso definito inadeguato da un calcio italiano che invece in controtendenza la qualità sembra proprio non volerla premiare, per poi ottenere i risultati che tutti abbiamo visto in campo europeo. Pressing alto ed aggressivo, linea difensiva altissima, senza paura, con la voglia di avere sempre il pallone per fare male piuttosto che aspettare per punire.

Il pur bravo Conte invece, schiavo della quantità, è uscito sconfitto nonostante un grande cammino proprio perché in finale non ha inseguito l’insegnamento di Flick e Guardiola. Vedere Eriksen in panchina, preferendogli Gagliardini, è stato un sussulto al cuore per i due allenatori sopracitati e non solo, e l’Inter è mancata proprio lì: nella capacità di giocare la palla, di creare gioco a difesa schierata. Ed allora giocare di rimessa può essere utile, ma fine ad un certo punto, perché quando poi trovi squadre così può finire tutto, si sgretola il castello che sembrava di cemento armato ma è invece di sabbia.

Il PSG anch’esso ha proposto qualità ed un calcio offensivo, perciò ha centrato la finale, ma non fino in fondo: i cambi finali di Tuchel, ruolo per ruolo, senza inserire un attaccante in più, senza schierare quell’Icardi che in panchina non si mangiava le mani solo perché aveva la bocca coperta dalla mascherina, restano un mistero grande quasi quanto i segreti di Fatima. Ma anche i francesi hanno proposto calcio ed hanno sfiorato la coppa, uscendo sconfitti per la maestosità di Neuer e la poca freddezza dei suoi gioielli.

La bellezza, che nella vita è fugace, ma nel calcio invece pare essere eterna, speriamo possa essere ancora ricercata da tanti. Soprattutto in Italia, come fa De Zerbi, con l’auspicio che qualcun altro possa emularlo. Magari a partire dai settori giovanili, dando spazio alla fantasia e all’estro dei ragazzini in erba, non fischiando fallo quando un giocatore fa più di 2 tocchi per scimmiottare i grandi maestri come Flick e Guardiola del calcio mondiale in modo improprio. Ma questa è un’altra storia…