L’uomo nella foto di copertina è Navid Afkari. Col calcio non c’entra nulla, ma la sua storia vale la pena di essere raccontata, per quanto ne sappiamo sino ad ora, perchè grida giustizia da ogni angolo.
Il suo nome, prima di questo settembre, era conosciuto probabilmente solo dagli appassionati più competenti di wrestling a livello mondiale, anche perché parliamo di un campione nazionale iraniano non più in attività dal 2015.
Notizia di pochi giorni fa (ci siamo presi del tempo per capirne di più), le alte autorità della Repubblica Islamica dell’Iran hanno eseguito per lui la pena capitale, e per i suoi fratelli è stata comminata una pena rispettivamente di 54 (!) e 27 anni di reclusione, in relazione a diversi capi di accusa.
I fratelli Afkari hanno partecipato, insieme a decine di migliaia di persone, nel 2018, ad una marcia pacifica di protesta contro le politiche repressive del governo iraniano in tempi di grave crisi economica. Una crisi che, come abbiamo visto quest’anno, è peggiorata a causa del conflitto neanche troppo silente con gli USA, delle sanzioni internazionali e del covid-19.
Si ritiene che, durante quelle proteste, un agente dei servizi segreti iraniani, Hasan Torkman, sia stato assassinato.
Alcuni testimoni, poi contraddettisi, hanno in un primo momento indicato Navid come esecutore materiale dell’omicidio.
Navid è stato quindi condannato a due sentenze di pena capitale, per omicidio e crimini contro dio e contro la sacralità del regime iraniano.
Dichiaratosi sempre innocente, è stato forzato attraverso minacce e torture a confessare, con la promessa, falsa, di liberare i suoi fratelli.
La comunità internazionale si è mossa a sostegno di Navid Afkari. Dal CIO alle associazioni mondiali di atleti, da Donald Trump ad Amnesty International, tutti hanno fatto sentire la propria voce.
La famiglia di Hasan Torkman aveva in un primo momento accordato di ricevere un risarcimento in denaro per la morte dell’uomo, secondo la legge islamica del “qisas”.
Non potendo la famiglia Afkari pagare, si era poi fatto ricorso alla conferma della pena capitale.
In un secondo momento, la famiglia Torkman si era detta disponibile a un chiarimento, forse spinta a comprendere l’innocenza di Navid Afkari, e dal fatto di non voler macchiare il nome della famiglia.
Ma queste sono solo ipotesi, poiché è mancato di fatto il tempo per ricucire lo strappo.
Afkari è stato apparentemente giustiziato il 12 settembre, alla presenza dei genitori e di ufficiali di alto rango, secondo i quali il 27enne wrestler è stato impiccato.
Sono emerse in questo caso diverse incongruenze. Il corpo di Navid presentava numerosi segni di violenza, con colpi anche mortali al volto, compatibili più con una tortura “finita male” che con un’impiccagione in piena regola.
Navid è stato ucciso nel mese del Muharram, durante il quale la stessa sharia proibisce di commettere omicidi, anche in caso di pena capitale.
L’esecuzione è avvenuta senza avvertire i familiari con almeno uno/due giorni d’anticipo: essi hanno per legge la possibilità di fare visita al condannato prima della morte.
L’esecuzione di Navid Afkari si profila pertanto come un omicidio politico, volto a trovare un capro espiatorio, un nome da offrire agli alti ranghi per evitare che altri manifestino contro il regime.
Le ricadute a livello di sanzioni internazionali, visto il clamore mediatico, potrebbero essere altrettanto critiche per l’Iran.
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