Come sta l’Africa a 20 anni da Sydney 2000

Come sta l’Africa a 20 anni da Sydney 2000

Settembre 30, 2020 0 Di Luca Sisto

Esattamente 20 anni fa a Sydney, il Camerun diventava campione Olimpico, superando nella finale per l’oro la Spagna ai rigori.

Spagna che era in vantaggio di due gol (Xavi e Gabri) ma fu raggiunta prima da un autogol e poi dalla rete del pari di Samuel Eto’o, all’epoca in procinto di passare dal Real Madrid, che non aveva creduto in lui e che costruiva l’era dei primi Galacticos, al Mallorca.

Quel Camerun era infarcito di leggende. Mboma, Lauren, Geremi, Eto’o, Kameni, Wome.

Ma anche la Spagna non scherzava. C’erano i già citati Xavi e Gabri, Aranzubia in porta, Marchena e Albelda che avrebbero fatto la storia del Valencia, e tanti altri.

Era la seconda volta di fila che una squadra africana conquistava la medaglia d’oro nel calcio: ad Atlanta ’96 la Nigeria aveva sconfitto 3-2 l’Argentina, in un’altra sfida fra campioni e futuri campioni.

Sembrava l’inizio di una nuova alba per il calcio africano in campo internazionale. Non sarebbe stato così, per quanto individualmente abbiamo conosciuto negli anni numerosi fuoriclasse.

Lo sviluppo delle infrastrutture sportive, le academy e i camp organizzati dalle leggende africane, hanno aperto il continente ad altri sport.

Oggi vediamo camerunensi protagonisti nel basket (Embiid e Siakam), nigeriani campioni nello UFC (Adesanya e Usman), e come sempre grandi risultati nell’atletica da parte di maghrebini, kenioti ed etiopi, nonché il Sudafrica nel rugby.

Il grosso limite resta l’ingerenza e la corruttibilità delle federazioni sportive, che costringono gli atleti ad emigrare spesso verso Francia, USA e Australia per trovare bandiere più lucrative da servire.

L’Africa è immensa, ma non è affatto un luogo minore in cui fare sport. C’è bisogno di più investimenti, di più attenzione alle problematiche delle persone comuni, di creare maggiori opportunità.

Invece, lo sfruttamento e il post-colonialismo continuano ad essere terreno di scontro e a favorire teatri di guerra sempre più frequenti e incontrollati.