
José Leandro Andrade, la Maravilla Negra fra magia e realtà
Aprile 18, 2021La storia di José Leandro Andrade, la Maravilla Negra, un autentico mito uruguayano. Generato da un sedicente stregone brasiliano, visse nella magia e morì nella povertà, ma da campione del mondo e bicampione olimpico, con le medaglie in una scatola accanto al suo corpo esanime.
Prologo: alla ricerca di José Leandro Andrade
Nel 1956, l’ex attaccante tedesco, allenatore e giornalista sportivo Fritz Hack, durante uno studio personale sui personaggi che avevano fatto la storia del calcio, parte alla volta di Montevideo. L’obiettivo era quello di ritrovare i luoghi e gli uomini che aleggiavano negli scritti di cui si stava occupando.
Giunto nella capitale uruguayana, incontra diversi addetti ai lavori fra i protagonisti del Maracanazo. Chiede informazioni sugli eroi del calcio della Celeste agli albori della nazionale. Aveva sentito parlare della leggenda di uno di questi, conosciuto a Parigi come la “Merveille Noire”, in Uruguay e ovunque nel mondo come la “Maravilla Negra”.
Informato del fatto che fosse ancora in vita ma in precarie condizioni, decide quindi di incontrarlo, pur conscio che la cosa non sarebbe stata del tutto d’aiuto per i suoi studi. Dopo 6 giorni di ricerca, lo trova in una casupola fatiscente, senza acqua corrente né luce, steso sul letto stretto di una stanza in cui si poteva a mala pena entrare senza sbattere la testa sul soffitto, che cade a pezzi. Estremamente debole, accudito senza troppe smancerie dall’ultima delle sue donne, logorato da anni di sifilide, tisico e quasi completamente cieco.
Per capire come si era arrivati a quel punto e perché Hack fosse così interessato all’uomo, dobbiamo fare un passo indietro e trasferirci per un attimo da Montevideo a Salto.
Le origini del mito nella magia nera
Salto è una cittadina di confine di grande importanza storica, in Uruguay. Segna un prima e un dopo, nei rapporti fra l’Uruguay indipendente e l’Argentina. Uno dei quartieri della città, non a caso, si chiama Garibaldi. Proprio lui, l’“eroe dei due mondi”, aveva combattuto per difendere gli interessi uruguayani, alla guida della legione italiana e alle dipendenze del governo colorado di Montevideo.
A Salto inoltre, nel 1987, a tre settimane di distanza l’uno dall’altro, nasceranno due campioni come Suarez e Cavani.
La città è a nord-ovest dell’Uruguay e molti schiavi neri, provenienti dalle piantagioni brasiliane del Rio Grande do Sul, vi avevano trovato rifugio.
Il 22 novembre 1901, un uomo estremamente anziano, oltre i 90 anni d’età (ci teniamo larghi ma non troppo, le fonti sono discordanti, fra i 91 e i 98 anni), si reca all’anagrafe municipale per registrare la nascita di suo figlio. Sì, il suo quarto figlio, nato dall’unione con una donna argentina. L’uomo afferma di essere di origine africana, trapiantato in Brasile nel corso della tratta degli schiavi, all’inizio del secolo precedente. All’incredulo impiegato municipale, riferisce inoltre di essere uno “stregone”, in possesso di poteri magici (e qui torna non solo l’esotismo, ma anche l’erotismo romanzesco di un uomo tanto anziano capace ancora di generare prole).
Gloria y tormento
Jorge Chagas, autore nel 2003 di Gloria y Tormento: la novela di José Leandro Andrade, ne è però certo. Il suo è un romanzo che mischia (mezcla) mito, magia e realtà, ma per quanto non fosse possibile stabilire l’età esatta del padre di Andrade, il range di cui abbiamo scritto appare realistico. L’uomo fa appena in tempo a fornire al figlio un “unguento magico”, che avrebbe consentito al giovane Andrade di sviluppare “grazia e meraviglia”, cospargendone le piante dei piedi.
Andrade cresce in povertà con madre, fratelli e sorelle, come è ovvio che sia. Ma avvolto da una passione per la vita del tutto magica, inarrestabile.
Josè Leandro Andrade, da artista di strada a calciatore: l’ingresso nella Celeste
Trasferitosi con la famiglia nel Barrio Sur di Montevideo per cercare fortuna, si unisce al circo locale come ballerino, apprende i rudimenti del tango ed è un fenomeno dell’habanera, un ballo simile alla milonga. Come artista di strada, suona il violino e danza, non solo per intrattenere la comunità nera, ma anche per la borghesia cittadina. Probabilmente, vende anche il suo corpo per vivere. Un corpo che si sviluppa fino a che i capelli ricci neri non vanno ad adornare il metro e ottanta, per 79 kg di peso-forma, di una delle più famose attrazioni del carnevale di Montevideo, sua grande passione per tutta la vita. Insieme al futbol.
Formatosi calcisticamente nel Cementario Central, dopo un intermezzo al Peñarol nel 1918, con cui non scatta l’idillio, trova la sua dimensione al Bella Vista, il club del futuro Caudillo della Celeste, José Nasazzi. Con lo stesso Andrade e Hector Scarone, forse, il più importante calciatore uguruayano della decade successiva. José Leandro giunge in nazionale nel 1923, rientrando nelle selezioni per il Sudamericano di quell’anno. Non ne sarebbe uscito, fino alla finale dei Mondiali di casa del 1930.
Andrade si segnala per essere un calciatore elegante, capace di distinguersi in fase difensiva sia nella posizione di mediano che di terzino destro. La sua specialità è la “tijera”, una specie di spaccata a forbice per bloccare le azioni degli avversari. Ma i suoi piedi da ballerino gli consentono di eccellere in maniera fluida e dinamica anche nel trasformare le azioni d’attacco in palla gol. Si racconta che, dopo interminabili pause a giocherellare con la palla fra i piedi, fosse capace di partire all’attacco, d’improvviso, caricandosi la squadra sulle spalle.
Hector Scarone ha riferito che, in partita come in allenamento, fosse proprio Andrade, schioccando le dita o la lingua, a dettare i tempi di gioco, a ritmo di habanera.
Uno stile di gioco che la retorica anti-storica ha cercato di cancellare
Il mondo ancora non ne era ancora consapevole, e la storia tenderà a dimenticarlo (come afferma Aldo Mazzucchelli nel libro “Del Ferrocarril al Tango”), ma quel futbol degli uruguayani è fatto di calciatori di classe e temperamento. Bollare a posteriori le vittorie della Celeste come frutto di un gioco sporco e del carattere della “garra charrua”, è un’operazione che maschera e penalizza la vera essenza del calcio da loro giocato. Uno stile di gioco che esaltava il dribbling, i passaggi corti e la partecipazione corale alla manovra d’attacco. E di cui Andrade, pur non essendo probabilmente il più forte, era il vero propulsore.

Una simpatica foto di José Leandro Andrade, ritratto in un bar ad Amsterdam, durante il soggiorno per le Olimpiadi del 1928 (Wikipedia)
L’Uruguay vince la Copa America di casa del 1923 e Nasazzi viene eletto miglior giocatore del torneo. La Celeste trionferà ancora nel 1924 e nel 1926, ma prima, a Parigi, gli uruguayani andranno in rappresentanza del Sudamerica per le Olimpiadi. Saranno questi i primi Giochi in cui, il calcio, viene visto come manifestazione globale. Più tardi la FIFA avrebbe riconosciuto Parigi 1924 e Amsterdam 1928 alla pari della “Coppa del Mondo”, ed è per questo che l’Uruguay, unitamente alle vittorie del 1930 e del 1950, porta con orgoglio 4 stelle sul petto della camiseta celeste.
Parigi 1924
La Federazione uruguayana di calcio, prima di partire per Parigi, è divisa al suo interno. La Celeste non ottiene neppure il sostegno del governo al viaggio. Nel frattempo, i campioni del Peñarol, Piendibene e Gradin (quest’ultimo, con Delgado, il primo calciatore di colore a giocare per l’Uruguay), non prenderanno parte alla spedizione.

Andrade, in piedi al centro, in una foto dell’Uruguay che andrà alle Olimpiadi di Parigi 1924 (Wikimedia Commons)
I 22 calciatori che partono per l’Europa, a bordo del Desiderada, sono relegati fra terza classe e stiva, per un viaggio ai limiti dell’impraticabile. Fanno tappa in Spagna, per giocare alcune amichevoli, al piccolo trotto, allo scopo di guadagnare i fondi necessari a trovare alloggio a Parigi.
Nessuno sa cosa aspettarsi dai sudamericani, così la Jugoslavia, che sarà il primo avversario della rassegna a 5 cerchi, manda delle spie ad osservare l’allenamento della Celeste.
Gli uruguayani, però, fiutano l’affare e danno luogo a uno spettacolino in cui sbagliano passaggi, inciampano sul pallone e non azzeccano la porta neppure per sbaglio.
Al primo turno, quindi, tutti si aspettano che l’Uruguay andrà subito a casa. Nulla di più lontano dal vero: le cronache parigine si accorgeranno presto della presenza di Andrade e compagni. La Jugoslavia viene spazzata via per 7-0, e comincia la lotta personale fra lo staff dirigenziale e i giocatori, che protestano per gli alloggi poco consoni al motivo per cui erano giunti fin lì.
La sede del ritiro viene quindi spostata in una villa nei sobborghi di Parigi, ad Argenteuil, dove una sera sì e l’altra pure i sudamericani fanno festa.
La notte parigina appartiene a José
Casualmente, a fare da reporter neppure troppo interessata ad una di queste serate, ci sarà la famosissima scrittrice Colette, l’autrice di Gigi. Una donna dai, e dalle, mille amanti, il cui fascino e la cui cultura superano ogni immaginazione.
Colette vede Andrade ballare e se ne invaghisce perdutamente. Come scriverà la Grand Dame della letteratura francese:
“Questi uruguayani conoscono i segreti di una donna, e del mondo, attraverso il tango”
Andrade non si fermerà lì. Perduto nel buio della notte bohemien, vagherà di bicchiere in bicchiere, posseduto dall’alta classe parigina. Il suo compagno di squadra, Angel Romano, ha il compito di andare a recuperarlo prima delle partite. Lo ritrova, in una casa al centro di Parigi, quando bussando alla porta accorrono ad aprire diverse donne: “Monsieur Andradé?”. “Si, cercavo proprio lui”.
L’Uruguay, nonostante tutto, conquisterà l’oro olimpico piuttosto agevolmente, tornando a casa con accoglienza ben diversa rispetto a quanto lo scetticismo iniziale non lasciasse intendere. Andrade, però, rimase più a lungo nella capitale francese, ormai “adottato” dalle dame parigine.
Le cronache del tempo raccontano di un incontro a ritmo di tango, non si sa con quale finale, fra le due neo-ribattezzate “Black Pearls” della città. Da una parte, la Maravilla Negra Andrade, dall’altra, la regina dei locali notturni francesi, Josephine Baker. Una donna la cui vita merita libri e film a parte e che Ernest Hemingway, solo uno dei suoi famosi affair, non esitò a descrivere come “la donna più bella che un essere umano avesse mai visto”. Basti segnalare, per quanto qui ce ne incoglie, che avrebbe fatto da agente per il controspionaggio francese durante l’occupazione nazista, e che finì i suoi giorni di gloria a Montecarlo, dall’amica Grace Kelly.
Il declino dell’uomo non inficia il calciatore
Andrade fa quindi ritorno a Montevideo come un uomo completamente nuovo. Vestito in maniera elegante, impeccabile, con un cappello di classe, lasciando lungo il suo cammino una scia intensa di profumi, ricordo gentile delle calde notti parigine.
Andrade viene invitato ad una cena dalla “classe dirigente” della comunità nera, dietro alla quale si celava il direttorio della rivista “Nuestra raza”. Rifiuta l’invito, per motivi imprecisati, che lo scrittore Jorge Chagas, nella sua opera, afferma di conoscere. Per una promessa fatta ai suoi interlocutori, Chagas decide però di non rivelare nulla a riguardo.
Andrade è ormai un simbolo dell’Uruguay intero. Probabilmente, avvicinare il suo nome ad un discorso razziale avrebbe procurato solo ulteriori grattacapi ad un uomo già mal considerato da chiunque lo avvicinasse. Un carattere arrogante, presuntuoso, completamente diverso dall’uomo squadra che si vedeva in campo.
Dopo le Olimpiadi di Parigi passa al Nacional, e con il suo nuovo club parte per una tournée in Europa che tocca diversi Paesi. La Maravilla Negra è l’attrazione principale della squadra, come spesso gli capiterà in carriera, ma a Bruxelles, un giorno, si sente male e finisce in ospedale. Gli viene diagnosticata la sifilide, probabile indesiderato regalo delle notti brave trascorse a Parigi.
Amsterdam e Montevideo
L’Uruguay vincerà ancora con Andrade in campo, nonostante il suo declino fisico e cognitivo.

l’Uruguay alle Olimpiadi del 1928 (Wikimedia Commons)
Ad Amsterdam, ai giochi olimpici del 1928, la Celeste conquista un altro oro. La finale vinta contro i rivali storici dell’Argentina è l’antipasto di quanto si vedrà ai Mondiali di casa del 1930, i primi col nome e col marchio di Jules Rimet. Ma nella semifinale di Amsterdam contro l’Italia, vinta 3-2, Andrade si procura un infortunio all’occhio, probabilmente subendo un colpo nel tentativo di salvare un gol, finendo contro il palo.
La vista, già danneggiata dalla sifilide, peggiora progressivamente.

l’Uruguay ai Mondiali del 1930 (Wikimedia Commons)
Fine dell’incantesimo
Il canto del cigno di Andrade in nazionale si registra in Uruguay. La finale mondiale vinta 4-2 contro l’Argentina è la sua ultima gara con la Celeste. Giocherà tutte le partite della manifestazione, ma non è più lui, nonostante alcuni interventi difensivi decisivi proprio per fermare gli attacchi dell’Albiceleste.
Gli ultimi anni da calciatore di Andrade raccontano di un lento declino. La chiusura ancora al Bella Vista, non prima di una dimenticabile parentesi in Argentina.
Dopo la carriera calcistica, mentre la maggior parte dei suoi compagni nella Celeste cercava di reinventarsi all’interno dell’ambiente, la Maravilla Negra sconta forse un carattere burbero e da prima donna, per allontanarsene definitivamente. Finirà tutto come era cominciato, nella povertà più assoluta.
Andrade trova impiego come spazzino e portinaio, prima che la sifilide e la cecità prendano il sopravvento. Non bastano i 6 mesi di sussidio garantiti dal governo uruguayano per gli inabili al lavoro.
Epilogo
Una volta ritrovato l’uomo che stava cercando, il giornalista Fritz Hack tenta disperatamente di porgli delle domande. La prima superstar del calcio uruguayano e mondiale farfuglia parole incomprensibili, mentre tossisce e si guarda attorno, come a tentare di ristabilire un contatto con la realtà.
Hack torna a casa, in Germania, avendo modo di riportare la notizia che José Leandro Andrade stava effettivamente per passare ad altra dimensione.
Nell’Uruguay del 1950 giocava il nipote del campione uruguayano, Victor Rodriguez, figlio della sorella, che decise di assumere il cognome di Andrade in omaggio all’illustre zio. Chissà in quanti esseri umani, i geni magici degli Andrade continuavano a riprodursi, al di qua e al di là dell’Oceano.
La Meraviglia Nera avrebbe terminato i suoi giorni terreni, nell’ospizio di Piñeyro del Campo, a neppure un anno dall’incontro con Hack, il 5 ottobre 1957.
Accanto al letto di morte, i suoi effetti personali. Una scatola, con dentro le medaglie conquistate nella sua carriera di calciatore, che come a spezzare l’incantesimo che lo aveva generato, ne avrebbe assorbito l’anima.
Immagine di copertina: disegno originale di Valerio Vitale su bandiera uruguayana e foto storica di Andrade tratta da Wikipedia.
Per approfondire sui Mondiali del 1930, leggi anche: Mondiali Uruguay 1930: un sogno per pochi fra storia e leggende