La punizione divina che rese felice un popolo

La punizione divina che rese felice un popolo

Gennaio 11, 2022 0 Di Alfonso Esposito

La punizione di Maradona contro la Juventus. Quella punizione. Alfonso Esposito torna su questi schermi dopo il racconto del Napoli di Krol, per regalarci la poesia di una domenica indimenticabile.

 

Non era solo quello. Un tiro da fermo a due, per giunta in area di rigore.

O meglio, tale poteva sembrare solo a chi non era come noi, affluiti in massa al San Paolo per una partita che attendevamo da una vita. Erano poco più di dodici anni che non battevamo quelli lì, con la maglia a strisce bianconere e la stella gialla sul petto. Loro il nord, noi il sud, con tanto di retorica popolare e campanilistica sull’atavica contrapposizione tra ex sabaudi e nostalgici borbonici.

Quella non era una gara come le altre, così come quella non era solo una punizione nell’area avversaria. Era l’ottobre del 1973 quando Jarbas Cané e Sergio ‘El Gringo’ Clerici, a passo di samba, avevano castigato la Juventus, funesto presagio per la Vecchia Signora, che infatti quel torneo lo avrebbe perso a vantaggio della banda di ragazzi terribili che era la Lazio di Tommaso Maestrelli.

Da allora non li avremmo battuti più.

E così, di anno in anno, di delusione in delusione, si era arrivati al 3 novembre dell’85, secondo anno dell’epopea maradoniana. Ci speravamo sempre, per carità, ora avevamo tra le nostre fila il più forte di tutti ed era lecito confidare in una sua magia. Meglio, in un suo miracolo. Certo, quella sbarcata a Fuorigrotta non era più la squadra che aveva fatto incetta di vittorie col Trap, quella, per intenderci, della cantilena “Zoff-Gentile-Cabrini”, la stessa, per capirsi ancora, che ci avrebbe accompagnato nelle trionfali notti mundial in terra di Spagna.

Ma la Juve era sempre la Juve, dopo otto turni prima in classifica ed a punteggio pieno, con Tacconi che due stagioni prima aveva rilevato tra i pali “Superdino”, Favero a far coppia col “Bellantonio” Cabrini come terzini di fascia, i soliti Brio e Scirea nel cuore della retroguardia, mentre Bonini e l’ex laziale Manfredonia (nel frattempo convertitosi da rampante stopper in solido mediano) in mezzo al campo coprivano le spalle al più temibile di tutti, “Le Roi” Michel Platini, il loro n. 10, quello con l’antipatica erre moscia e le punizioni mortifere in grado di terrorizzare tutti i portieri avversari.

In avanti si disimpegnava un ragazzone sgraziato ma forte di testa, Aldo Serena – chiamato nientedimeno che a raccogliere l’eredità di Pablito Rossi – con Mauro e Michael Laudrup ad innescarlo dalle fasce sulla trequarti. Per l’occasione mancava Manfredonia e il Trap aveva pensato bene di cautelarsi, sostituendolo con uno stopper aggiunto, Stefano Pioli, uno che veniva dal Parma e non si faceva certamente pregare se doveva far assaggiare i tacchetti all’attaccante a lui assegnato in custodia.

Noi venivamo da una stagione folle, che avrebbe fatto la gioia di Freud e Jung messi insieme, con un girone d’andata disastroso, da zona retrocessione, appena 9 punti in tredici gare, ed una rinascita spettacolare, favorita dalla “pace di Vietri” tra Bagni e Lui e sancita dal rocambolesco successo casalingo con l’Udinese (4-3), l’Epifania dell’85, in un San Paolo trasformato in un’enorme pozzanghera e Lui che, per il freddo, giocava con le mani avvolte nelle maniche della maglia.

Proprio quella riscossa aveva convinto l’ambiente che c’erano le potenzialità per far bene. Ferlaino si era deciso ad assecondare le richieste di rafforzamento avanzate, a nome di tutti, dal Pibe de Oro, ingaggiando come successore di Castellini Claudio Garella, fresco campione d’Italia col Verona di Osvaldo Bagnoli, piazzandogli davanti come libero Alessandro Renica, ex Sampdoria, ed affidando le chiavi della cabina di regia al trentenne Eraldo Pecci, già scudettato dieci anni prima col Torino di Gigi Radice.

Ma il vero colpaccio di quell’estate dell’85 era stato l’ingaggio, dalla Lazio appena retrocessa in B, del quasi ventinovenne Bruno Giordano, “romano de Trastevere” ed erede designato in biancoceleste di “Long John” Chinaglia, ma con una carriera fin troppo povera di gratificazioni (sia col club capitolino che in Nazionale) per uno del suo talento. In ogni caso, con la verticale Garella-Renica-Pecci-Giordano l’asse portante del nuovo Napoli era nuovo di zecca.

Cambiava totalmente anche il ‘manico’, grazie ad un inedito valzer delle panchine sulla direttrice Napoli-Como, con Rino Marchesi che si accasava in riva al Lario ed Ottavio Bianchi pronto a guidare la compagine vesuviana.

La partita

Napoli-Juve, appunto. Si gioca il 3 di novembre, subito dopo la tradizionale commemorazione dei defunti, e per questo un po’ tutti toccavamo ferro (ed altro…). L’auspicio non era dei migliori, in più si presentava la classica domenica novembrina, umida e piovosa. Insomma, uno scenario alquanto mesto, che non lasciava del tutto tranquilli i tifosi del ciuccio. Quella zebra lì scalciava maledettamente quando la s’incontrava, nessuno aveva dimenticato, per quanto risalente nel tempo, la gragnuola di gol piovuti addosso al Napoli di Vinicio in quel 2-6 di una domenica di mezzo dicembre del ’74, quando gli avanti bianconeri si erano spassati nel tirassegno al San Paolo contro la difesa azzurra schierata coraggiosamente a zona da “ ’O Lione”. Per di più, complice un tiro mancino del calendario, il turno precedente avevamo incassato una sconfitta per 2-1 proprio a Torino, sponda granata, e non volevamo affatto concedere il bis contro gli odiati cugini bianconeri dei granata.

Senza dimenticare che a noi, che intrepidamente (o, forse, incoscientemente) avevamo deciso di sfidare le statistiche sfavorevoli ed il maltempo, toccava la solita attesa di ore a cielo aperto, quella che ti squagliava o ti infradiciava, secondo che a perpendicolo sui gradoni dello stadio ci fosse un sole cocente o una coltre spessa di nuvole grigie. Uniche (ma non magre…) consolazioni, la frittata di pasta ed il panino salsicce e friarielli, immancabili (nonché scaramantici) componenti del rito domenicale che si celebrava allo stadio.

Bianchi aveva optato per la formazione tipo o quasi, con Garellik a presidiare la rete di casa, Renica battitore libero, Bruscolotti e Ferrario in marcatura su Laudrup e Serena e Carannante a rimpiazzare il malconcio Filardi come fluidificante a sinistra. Questa la retroguardia, mentre in mediana, al fosforo di Pecci, si aggiungevano i muscoli e la corsa di Bagni e Celestini, col primo deputato ad arginare gli estri di Platini ed il secondo chiamato a raddoppiare in suo aiuto. Il puntero argentino Daniel Bertoni doveva spalleggiare in attacco Giordano, con Lui che aveva un solo compito, inventare calcio come sempre, ovunque si trovasse. Pronti, via. Subito Daniel Bertoni, su punizione dalla sinistra, prova ad impensierire Tacconi, è il Napoli che mena le danze.

Sul prato verde di Fuorigrotta va in scena un tango argentino che Lui, al solito, ritma col suo sinistro sinfonico. La Juve non graffia, “questi attendono il momento giusto” penso e come me lo sospettano anche tutti gli altri, ammassati in curva un po’ perché siamo in tanti, anche troppi, e un po’ per la pioggia, nella vana illusione di fronteggiare in questo modo le intemperie. Ci prova anche Pecci da fuori. Niente, lo 0-0 non si schioda e il sole non squarcia le nubi.

Una fiammata al 40’, ma non certo perché cambi il risultato, Bagni e Brio alzano entrambi il gomito, e non in senso figurato, così Redini di Pisa li spedisce anzitempo sotto la doccia poco prima dell’intervallo. “Questa non ci voleva”, lo stadio smoccola all’unisono. Il danno peggiore è per noi, perché un guerriero come Bagni era l’ideale per mettere morso e briglie ad un cavallo di razza come Platini. Si riprende con le due sfidanti menomate, ma tutt’altro che remissive, il Napoli seguita a fare la partita, la Vecchia Signora non abbassa la guardia. Lui ci prova due volte, la prima di testa, poi addirittura di destro, ma Tacconi sventa, mentre Platini seguita a latitare. Sarà l’aria di casa, sarà perché – per dirla con Gabriele D’Annunzio – in egual misura piove sia sui giusti (noi) che sugli ingiusti (loro), tra Napoli e Juve non sembrano proprio esserci sei punti di differenza.

I bianconeri, che all’inizio erano sembrati solo sornioni ed infidi, in realtà risentono dell’assenza di Manfredonia e dell’inaridimento della vena di Platini, prosciugato dalla mediana azzurra, non sviluppano gioco e men che meno tirano in porta. Potrebbe ancora essere la volta buona. La conferma poco prima della mezz’ora: a centrocampo Platini tenta invano un’apertura, riconquistiamo subito il possesso del pallone che, non a caso, rotola sui piedi del nostro capitano, al quale basta alzare appena appena la testa per sventagliare lungo, molto lungo, e preciso, per non dire millimetrico, sui piedi di Bertoni in area, un tocco di esterno sinistro tagliato, in tutto e per tutto simile per eleganza ed efficacia a quello che, due giornate prima, aveva tramortito il Verona campione d’Italia uscente e il povero Giuliani, prima d’infilarsi beffardo nel sette.

“Tanto gli faccio gol comunque”

Su quello spiovente (è proprio il caso di dirlo, vista la giornata), Scirea contrasta pericolosamente Daniel e Redini fischia una punizione a due in area, evento più unico che raro da che (ed è proprio tanto) amo e seguo il calcio. Solite operazioni preliminari prima dell’esecuzione, solo che, stavolta, la barriera – composta da Mauro, Platini, Laudrup, Serena e Cabrini – staziona ad una distanza notevolmente inferiore a quella regolamentare, saranno nemmeno cinque metri (secondo me a malapena quattro) e Pecci, che si è portato sul punto di battuta insieme a Lui, chiede all’arbitro che arretri ancora, ma allo stesso tempo lo vediamo tutti che parlotta insistentemente e a più riprese col suo capitano.

L’arcano lo svelerà in seguito proprio Eraldone, confessando che Lui gli aveva fatto subito capire di voler tirare in porta e che invano lo stesso Pecci avrebbe tentato di dissuaderlo, giudicandola una pazzia. Niente da fare, Lui ha deciso, sibila a fil di labbra “Tanto gli segno comunque” e se lo ripete nel cuore mentre fissa la barriera, fissa Tacconi, progetta nella sua mente quella traiettoria che a chiunque sarebbe sembrata impossibile da realizzare, perfino da immaginare. Non a Lui.

Pecci con la suola destra gli tocca il pallone, in modo che arrivi, leggermente largo, a tiro del sinistro magico che, nonostante due juventini lesti ad avventarsi sul battitore, disegna una parabola morbida ed armoniosa come la volta della Cappella Sistina. La sfera non solo beffa i due avversari protesi invano in avanti e supera la barriera (primo prodigio), ma prende quota (secondo prodigio) e va ad infilarsi nel sette alla sinistra dell’estremo bianconero, tuffatosi inutilmente e rovinato, poi, miseramente sul palo.

È il minuto 72, nella smorfia napoletana questo numero simboleggia la meraviglia e non poteva risultare più indovinato. Ancora oggi chi sa di calcio – ricordo tanti grandi campioni, anche non azzurri, interpellati in proposito – ha candidamente ammesso non solo di non sapere come abbia fatto quel pallone a finire lì ma, soprattutto, di non riuscire neppure a capire come sia stato possibile che, con una barriera più che ravvicinata, la stessa sfera abbia potuto decollare e sormontarla. Un mistero gioioso per noi napoletani, che non credevamo ai nostri occhi.

Lui era lì, radioso e trionfante sulla pista d’atletica rosso cupo che deviava sotto la nostra curva, le braccia alzate verso il cielo mentre raccattapalle e fotografi lo circondavano, un paio scivolavano allegramente per terra a causa del fondo viscido. Ricordo di aver visto volare di tutto intorno a me, ombrelli, radioline, mentre perfino Enrico Ameri (che, al contrario di Sandro Ciotti, risultava antipatico a molti, me compreso, perché sospettato di essere filojuventino) nella sua rituale radiocronaca per Tutto il calcio minuto per minuto esplodeva, urlando “Rete! Rete!” e pronunciando quel nome che, ancora oggi, rechiamo indelebilmente scolpito nel cuore e che, per questo, custodiamo gelosamente per noi, evitando perfino di pronunciarlo invano. Come quello di un dio, perché per noi tale era.

La punizione di Maradona alla Juve: un evento divino

Altro che Davide mentre abbatte con una sassata il possente e sproporzionato Golia, solo un dio poteva compiere quel miracolo, che nemmeno un padre della Fisica come Galileo Galilei, con tutta la sua scienza, saprebbe spiegare. Per questo ripeto che quello non era un semplice calcio di punizione, ma un evento divino che smentiva le leggi naturali e spezzava una perdurante maledizione che, per anni, aveva imprigionato ed angustiato un popolo intero, quello dei tifosi partenopei.

Ci voleva solo un dio per abbattere il potere (o strapotere) calcistico bianconero e liberare da quel giogo opprimente chi amava ed ama ancora quella maglia, meravigliosamente azzurra come il cielo ed il mare. Il confronto diretto tra i due n. 10 lo stava vincendo con pieno merito il nostro capitano e, a veder bene, non poteva che essere così. La stessa azione precedente quella del vantaggio azzurro lo provava senza tema di smentite, dall’apertura mancata di Platini a quella decisiva di Lui, il felice presagio era chiaro a chi sapeva interpretare gli avvenimenti oltre le mere apparenze. Inutilmente il Trap si sgolava e richiamava i bianconeri con i suoi proverbiali fischi alla pecorara, a noi ne sarebbe bastato uno solo, quello finale di Redini, per impazzire di gioia.

Sia chiaro, lo stupore di tutti noi che eravamo presenti quella domenica non era figlio della poca fede. Anzi. Ai colpi di genio del nostro condottiero eravamo felicemente abituati, a partire da quello più recente e prossimo, già rammentato, del gol dalla trequarti nella cinquina rifilata ai malcapitati discendenti neoscudettati di Giulietta, fino a risalire alla stessa doppietta su rigore messa a segno proprio nel match della risurrezione azzurra, quel 4-3 contro l’Udinese al quale ho fatto cenno all’inizio di questo amarcord, perché quei due penalties tirati da chiunque altro sarebbero affogati nella melma, mentre i suoi erano scivolati leggeri in fondo al sacco, ovviamente spiazzando il portiere.

Per non dimenticare le inimitabili gemme, sempre a casa nostra, nel febbraio dell’85 contro la Lazio (4-0), con quella giravolta, spalle alla porta e in posizione decentrata, da fuori area, infilatasi all’incrocio dei pali (mentre Orsi s’ingarbugliava nella stessa rete che avrebbe dovuto difendere) e quel gol direttamente dal corner, che, a mio avviso, regala ai contemporanei ed ai posteri l’immagine più pura e bella di quel campione che Lui era, immortalato a festeggiare il punto appena realizzato saltellando sul posto, con lo sguardo festoso come quello di un bambino, un pibe, appunto, che impazzisce di gioia per quello che, in fondo e nonostante il tentativo di farne a tutti i costi un lucroso business, resta nient’altro che un gioco.

Ed allora, eravamo stupiti non perché non credessimo nelle sue capacità, ma semplicemente perché non ci sembrava vero che quella che era un’eterna Cenerentola, il nostro Napoli, stesse finalmente trasformandosi in una splendida regina, ammirata da tutti, volenti o nolenti. E tutto questo accadeva sotto i nostri occhi. Quel campionato, nonostante tutto, non lo avremmo vinto, se lo sarebbero aggiudicati proprio loro, i bianconeri sconfitti a casa nostra e fermati per 1-1 tra le mura loro amiche. Saremmo arrivati solo terzi, a sei lunghezze di distacco, eppure fu proprio quella domenica uggiosa che per noi principiava una lunga alba.

Dopo aver lasciato lo stadio ero praticamente fradicio d’acqua, peraltro avevo anche abbandonato sugli spalti la “pellecchia” (traduco per chi, purtroppo per lui, non ha familiarità con la splendida lingua napoletana: sottile ed occasionale soprabito destinato a riparare dalla pioggia o che, almeno, a questo sarebbe dovuto servire), ma stavo bene. E quella parola proibita, che per anni ci era rimasta strozzata in gola, mi ritornava in mente. Lo sentivo, nonostante la pioggia ed il freddo, quel piccolo diadema di stoffa tricolore poteva illuminare ed impreziosire anche la nostra storia. Per uno dei tanti paradossi di cui vive il calcio, solo uno come Lui, con quel suo nome impronunciabile, poteva rendere pronunciabile, finalmente, quella parola per noi stregata. E spezzare il sortilegio.

Testo di: Alfonso Esposito. A questo link trovate il suo libro “Il Mito che Insegna”, edito da Urbone Publishing, per la quale ha pubblicato anche “Alla Riscoperta dell’Est”.

Immagine di copertina: Maradona, Platini Laudrup durante Napoli-Juventus 1-0, tratta da wikipedia, di pubblico dominio.