
Tu che puoi diventare Jeeg
Febbraio 8, 2022“…Corri e va per la terra
Vola e va tra le stelle
Tu che puoi diventare Jeeg
Jeeg va, cuore e acciaio,
Jeeg va, cuore e acciaio,
Cuore di un ragazzo che
Senza paura sempre lotterà…
…Tu sei Jeeg!!!”
In quei giorni di giugno del 1981, mio fratello aveva 5 anni. I cartoni importati dal Giappone cominciavano a far presa sui bambini, anche quelli più cresciuti. E così scorrevano le giornate, secondo un susseguirsi di sigle rock e di “papà mi compri” questo o quel modellino di robot. In quale scala e di quale materiale fosse il suddetto, avrebbe probabilmente adeguato il prezzo da pagare relativamente alle tasche di ognuno. Figli di proletari, operai della piccola e media borghesia, ma anche più “in alto” nella pressoché immobile scala sociale. Jeeg Robot e i suoi “fratelli” mettevano d’accordo un po’ tutti sin dalla sigla iniziale. Una roba che ti faceva sentire subito IL Supereore, in grado di salvare l’umanità.
Lo stesso pensava mio fratello, certo non era l’unico. E mio padre l’avrebbe accontentato col modello di robot possibilmente più simpatico su piazza. I marchingegni dotati di un qualcosa che somigliasse a un cuore umano pulsante a sostegno di chi pure li aveva creati, non erano una novità nella storia. Li aveva immaginati, con tutte le controindicazioni del caso, Isaac Asimov in “Io Robot”, capolavoro della letteratura di fantascienza. Un must read ancora oggi nel XXI secolo.
I robot altro non erano che proiezioni umane, seppur meno difettati degli esseri viventi a cui avrebbero dovuto parare il culo, e che cercavano in ogni modo di tenerli a freno per i propri interessi. Fino a che non ne ebbero abbastanza gli uni degli altri. L’antologia di racconti di Asimov esce nel 1950 per Mondadori. Con la Bompiani abbiamo nel 1963 l’edizione definitiva in italiano, a pochi anni dallo sbarco sulla Luna, che avrebbe cambiato per sempre l’idea dell’uomo sulla Terra, allargandone i confini al di fuori dello spazio vitale conosciuto e che perdura tutt’oggi.
Furono i cartoni degli anni Settanta/Ottanta però a ridare nuovo lustro a un mondo che non vedeva l’ora di uscire dalla dicotomia impressionante della Guerra Fredda. Chiunque poteva immaginare il cattivo di turno e decidere di interpretare i buoni. Il campionato di serie A 1980-81 si era da poco concluso con la vittoria della Juventus, al photofinish su Roma e Napoli. I bianconeri avrebbero bissato nella stagione successiva, a ridosso dei Mondali di Spagna ’82. Avevamo già subito i danni incalcolabili in vite umane e devastazioni del terremoto dell’Irpinia, quasi a ridosso della metà del campionato. Avevamo già accolto i primi stranieri dalla riapertura delle frontiere. Ed eravamo rimasti incollati alla TV solo in maggio per capire, dalla maledetta moviola, la validità o meno del gol de Turone.
Era una serie A che risentiva degli effetti degli scandali del Totonero. Il Milan, retrocesso d’ufficio in B, aveva conservato per quanto possibile il blocco degli scudettati della Stella e si apprestava a giocare le ultime partite in cadetteria, prima di un fin troppo repentino nuovo ritorno in B, stavolta sul campo. Preludio per contrappasso a tutto quanto avrebbe vinto, con Berlusconi, dalla seconda metà del decennio in avanti.
Già, Silvio Berlusconi. Nella settimana in cui i rossoneri si apprestavano ad affrontare il Monza (domenica 14 giugno) per tornare in serie A, il futuro Cavaliere, attraverso l’ex emittente privata lombarda Canale 5, divenuta nazionale in pompa magna e controllata dal suo gruppo, la Fininvest, organizzava con alcuni club (ex vincitori della Coppa Intercontinentale) e vari prestiti di giocatori, fra cui Cruijff con la maglia del Milan, il primo Mundialito per club. Chissà se, a suo tempo, Berlusconi aveva già in programma di acquistare il Milan e di impegnarsi nel calcio. Lo stesso sport in cui, curiosamente, oggi è ancora presidente di un club, in B: proprio il Monza.
A San Benedetto del Tronto, il 7 giugno la Samb vestita a festa per il ritorno in serie B, si cambiò d’abito, in fretta e senza preavviso, nel rogo del Ballarin. Un vestito a lutto che l’Italia non si sarebbe più tolta quella settimana. In una campagna laziale, il 10 giugno, Jeeg Robot e l’Uomo Ragno erano i supereroi sulla bocca di tutti. Così come, già dal novembre precedente, si sentiva l’urgenza nel Belpaese di creare una macchina dei soccorsi più organizzata. La struttura permanente della Protezione Civile prendeva forma, ma troppo tardi per quei dannati giorni.
Il Presidente Pertini in primo piano l’avevamo già visto, e più volte, anche per buoni motivi, l’avremmo rivisto. E la “diretta della RAI” a reti unificate cominciava a riaffacciarsi impietosamente nelle case degli italiani. Jeeg Robot e l’Uomo Ragno erano i personaggi deputati a salvare l’umanità, più da se stessa che dai cattivi di turno. Quando le trivelle cominciarono a scavare, il bambino di 5 anni in fondo al pozzo si spaventò: “è Jeeg Robot che sta venendo a salvarti”, gli dissero, convinti che ce l’avrebbe fatta.
Walter Alfredo Novellino era uno dei superstiti di quel grande Milan della Stella, la cui causa aveva sposato anche in B. Con lui c’erano i vari Ruben Buriani, capitan Aldo Maldera, Franco Baresi. Alberico Evani era stato promosso in prima squadra, mentre Mauro Tassotti era stato acquistato dalla Lazio. Troppo, davvero troppo per la B.
Mentre l’Italia si risvegliava più sola, un colpo d’astuzia del numero 8 rossonero lo trasformò nel salvatore della patria milanista, stese il Monza e riportò il club di Via Turati in A. Qualche anno dopo, da allenatore specialista in salvezze e promozioni, Novellino si sarebbe scandalizzato per il gol di un brasiliano che non parlava la nostra lingua. “Non capisce bene l’italiano”, disse, a chi accusava i lagunari di essere d’accordo con i pugliesi per il pari. L’attaccante fece gol e il Venezia vinse, ma nessuno sembrava felice. Il citofono di Eugenio Fascetti, a Bari, suonò più volte a causa dei giornalisti impazziti, ma la combine non fu mai provata. Ah, i cari vecchi giornalisti. Sempre a sentire puzza di marcio. Come si suol dire però, questa è un’altra storia.
“Ammesso che ce ne fossero le condizioni, se quel giorno fosse avvenuto un colpo di Stato, la gente avrebbe risposto: “Va bene, però lasciami vedere che succede a Vermicino”.
Emilio Fede a “La Storia Siamo Noi” (2011)
Quei giorni io non li ho vissuti. Ne ho letto e li ho rivisti nei filmati presenti sul web, me li hanno raccontati come si tramandano i lutti della vita di generazione in generazione. Sarei nato poco più di 4 anni dopo. Ho vissuto però questi giorni. Quelli di un altro bambino di 5 anni in fondo al pozzo, stavolta in Marocco. E ho visto come i media – che dai propri errori forse volevano ripulirsi la coscienza, in un mondo così interconnesso che Nordafrica e campagne laziali sembravano darsi la mano a più di 40 anni di distanza – hanno morbosamente seguito, ancora una volta, la vicenda senza lieto fine.
Oggi volano rapidi i tweet, le storie su Instagram. Gli stati su Facebook sono già roba da vecchi. Ma li ho visti, ho assistito all’ennesima pornografia del dolore. Quella sdoganata in quei giorni di giugno e portata a definitivo e permanente compimento dalle televisioni del futuro presidente del Milan.
L’Italia cambiò. Eppure, dopo 41 anni, è ancora la stessa, è rimasta a Vermicino.
Immagine di copertina: Pinterest
Me li ricordo benissimo quei drammatici giorni di Giugno del 1981. La tragedia dello stadio “Fratelli Ballarin” è una ferita che, a distanza di oltre quaranta anni, a San Benedetto (e non solo a San Benedetto) non si è ancora chiusa.