Cavani Matador e il giorno in cui non voleva sentir ragioni

Cavani Matador e il giorno in cui non voleva sentir ragioni

Febbraio 14, 2022 0 Di Luca Sisto

Dicembre, giorno 19, anno 2010. Edinson Cavani, il Matador, è un attaccante del Napoli. Il sottoscritto due giorni prima ha conseguito la laurea magistrale in Relazioni Internazionali, al fianco della donna che sarebbe diventata mia moglie. Era una domenica di quelle che i sudamericani azzurri attendevano con ansia: quella del rompete le righe, del ritorno a casa per le vacanze natalizie. Chi per andare in spiaggia, come el Pocho Lavezzi, che nel dubbio se n’era andato in Argentina già da una settimana, come suo solito. Chi per andare a pescare, come il Matador. Al San Paolo è di scena il Lecce. La mattina avevo giocato a calcio e mi era salita, postumi dello stress da seduta di laurea e del gelo che attanagliava la penisola, una febbre piuttosto alta.

Era la prima stagione, dopo tanti anni in cui ero in possesso dell’abbonamento in curva B, che non avevo rinnovato la tessera. L’idea era quella di lasciare la città per un po’ subito dopo la laurea. Quel “per un po’” sarebbero stati 5 anni, ma al tempo non potevo saperlo. Tornai a casa, non andai al botteghino a comprare il biglietto, volevo riposare.

La partita sembrava a senso unico. La porta di Rosati, che un giorno avrebbe difeso, si fa per dire, anche i pali azzurri, sembrava stregata. Il Napoli ci provava in tutti i modi, in una stagione in cui la speranza di tornare in Champions League, o Coppa Campioni, dopo 30 anni da quella maledetta notte di Mosca, sembrava finalmente realtà.

Il muro del Lecce non ne voleva sapere di cedere. A ridosso del 90′, tra veglia e sonno, ero steso sul letto, mio padre entrò nella stanza per controllare come stessi. Uno spunto dei pugliesi, l’unico della partita che io ricordi (per la verità ce n’era stato un altro di Piatti, respinto dal portiere), fece sì che l’attaccante Corvia si ritrovasse solo davanti a De Sanctis. Nei secondi che intercorrevano fra il morbido tocco sotto di Corvia e il viaggio della palla verso la linea di porta, la beffa sembrava materializzarsi nel brusio del San Paolo, mentre il mio cuore diventava di ghiaccio per difendersi dalla rabbia che, di lì a poco, avrei provato. O almeno, che sarei stato convinto di provare.

Non era d’accordo Gianluca Grava. Non era proprio d’accordo. In scivolata, mentre Corvia e mezzo Lecce urlava “è gol”, la tolse dalla porta. Una fettina di pallone non aveva, in effetti, varcato la linea.

Strinsi il braccio di mio padre, che di calcio voleva saperne poco, per intimargli di togliersi dallo schermo. Cavani aveva preso palla. Il Matador aveva deciso che no, quella domenica avrebbe dovuto avere un altro epilogo. Non voleva arrendersi all’evidenza del dolore che accomunava, puntualmente, nei momenti topici, generazioni di tifosi del Napoli.

Prese palla, saltò in slalom un paio di avversari con quel suo controllo a inseguire che, con tasso tecnico persino inferiore e tecnica di tiro meno efficace, ritrovo spesso in quella furia che è oggi Osimhen. A quel punto caricò un destro da quasi 30 metri che sapeva tanto di “o la va o la spacca”. Ma era convinto di fare gol, ve lo posso assicurare. Lo dicevano i suoi occhi, quelli di un mezzo indio di Salto, terra di calciatori di tutte le etnie da secoli, come José Leandro Andrade negli anni ’20 e ’30, o come il partner in crime del Matador nella Celeste, quel Suarez di cui si parla sempre male per motivi vari ed eventuali, ma è stato un fuoriclasse.

Il tiro di Cavani fu un bolide contro il quale Rosati, proteso in tuffo lungo tutto il suo metro e novanta abbondante, con le braccia distese, nulla poté.

Sono passati oltre 11 anni da quel giorno. Il Napoli è andato in Champions League diverse volte, ha vissuto alti e bassi, ma è spesso stato protagonista grazie al ciclo creato da De Laurentiis, gli va riconosciuto, e credo che quella domenica abbia avuto parecchio a che fare con l’unico vero scopo del presidente: finire in Champions League per un mero discorso economico e di continuità progettuale, senza mai fare il passo più lungo della gamba. D’altronde, dobbiamo accontentarci, noi che abbiamo sempre navigato nella merda. No?

A proposito di persone che non si accontentano. Cavani, dopo il PSG, è andato al Manchester United, club nel quale milita ancora attualmente, nonostante un parco attaccanti piuttosto affollato, che in agosto si è arricchito del ritorno di CR7. Durante la partita di Champions League contro il Villarreal, ho visto Cavani correre come una furia in pressing su un avversario, costringendolo a perdere il possesso, mentre l’attaccante portoghese osservava la scena con malcelato distacco. Ecco, anche oggi che compie 35 anni, il giorno di San Valentino, Cavani è il giocatore di cui qualunque allenatore dovrebbe essere innamorato. Per me Edi gioca sempre, finché vuole, finché campa.

Una volta l’ho visto entrare dalla porta di un hotel. Si avvicinò a me e si presentò, come se nessuno sapeva chi fosse all’interno di quella grande sala. Gli sorrisi, dissi solo poche parole: “grazie per quel gol al Lecce”. Grazie, perché sento ancora il braccio di mio padre, strattonato dalle mie mani. Mi è rimasto dentro, anche se oggi non posso più abbracciarlo.

 

Immagine di copertina: getty images via fanpage.it