Queretaro: la Waterloo della Danish Dynamite
Giugno 16, 2022Quando il tedesco Sepp Piontek fu nominato tecnico della Danimarca nel 1979, quello che si trovò di fronte fu una vera e propria Armata Brancaleone. Altro che nazionale di calcio! Solo un anno prima la Danimarca aveva abbandonato il dilettantismo dando l’opportunità ai giocatori di godere dello status di professionisti, e molti di loro già giocavano nei principali campionati nordeuropei. Tuttavia, il gruppo tendeva a prendersi poco sul serio, e il carattere scanzonato dei danesi si rifletteva anche nelle cattive abitudini e nell’indisciplina dei membri della nazionale.
Sette anni dopo, però, la musica era cambiata totalmente. A Piontek servì più tempo del previsto per inculcare serietà e spirito di sacrificio al gruppo, ma l’attesa era valsa la pena. La Danimarca aveva raggiunto la semifinale dell’Europeo del 1984, e nel Mondiale del 1986 si era candidata al ruolo di mina vagante, soprattutto dopo aver stracciato 6-1 l’Uruguay di Enzo Francescoli e battuto 2-0 in scioltezza la Germania Ovest nella fase a gironi.
Una soddisfazione extra per Piontek, che da calciatore aveva vestito sei volte la maglia della nazionale tedesca occidentale a metà degli anni Sessanta, anche se Helmut Schön alla fine lo aveva escluso dai convocati al Mondiale del 1966.
E pensare che quello del 1986 era anche il primo torneo mondiale a cui la Danimarca partecipava. Fino al 1958 i danesi non si erano nemmeno inscritti alle qualificazioni, e l’unica apparizione degna di nota sulla scena internazionale (Olimpiadi di inizio secolo escluse) era stato il quarto posto all’Europeo del 1964. Ad essere onesti, in quel caso il cammino della Danimarca era stato facilitato da un calendario estremamente accessibile. Primi due turni con Malta e Albania come avversarie, poi un quarto di finale contro un Lussemburgo che si era rivelato un osso durissimo, visto che la Danimarca ebbe la meglio solo dopo una terza gara di spareggio.
In Spagna, come previsto, i danesi fecero però le mere comparse, squagliandosi davanti al primo avversario serio, l’Unione Sovietica, prima della sconfitta con l’Ungheria nella finale per il terzo posto.
Gli anni Settanta: i prodromi della Danish Dynamite
Negli anni Settanta, comunque, il vento era cambiato. Non solo vennero aperte le porte al professionismo, ma emersero numerosi giocatori di qualità che proseguirono poi la propria formazione in rinomati club europei. Gli attaccanti Henning Jensen e Allan Simonsen, per esempio, furono protagonisti in Bundesliga con la maglia del Borussia Mönchengladbach prima di andarsene in Spagna, uno al Real Madrid e l’altro al Barcelona. Simonsen vinse addirittura l’edizione 1977 Pallone d’Oro davanti a Kevin Keegan e Michael Platini.
Altri preferirono andarsene invece in Olanda e Belgio. Søren Lerby e Frank Arnesen finirono all’Ajax – raggiunti qualche anno più tardi da Jesper Olsen e Jan Mølby –Ivan Nielsen al Feyenoord, John Eriksen al Roda, Morten Olsen al Cercle Bruges, Preben Elkjær al Lokeren, Kenneth Brylle all’Anderlecht. Dei 20 giocatori che successivamente parteciparono all’Europeo del 1984, solo 6 militavano nel campionato danese, fra questi il portiere Ole Qvist, di mestiere poliziotto, che malgrado le offerte per andare all’estero rimase fedele al proprio lavoro.
Nel 1980 era ancora troppo presto per raccogliere i frutti dai semi piantati da Piontek, ma già un anno dopo si potettero ammirare miglioramenti, quando la Danimarca batté 3-1 i futuri campioni del mondo dell’Italia nelle qualificazioni al Mondiale di Spagna, anche se i danesi finirono terzi nel girone dietro agli Azzurri e alla Jugoslavia.
Tuttavia, l’indisciplina e la mancanza di professionalità erano sempre all’ordine del giorno. Klaus Berggreen – che giocò in Italia con Pisa, Torino e Roma – rinunciò a una chiamata della nazionale perché aveva già prenotato una vacanza, e per questo Piontek decise di non convocarlo per ben tre anni, mentre il centravanti Elkjær era noto nell’ambiente per essere un fumatore e bevitore incallito.
Il lavoro tattico di Piontek
Ovviamente, Piontek lavorò anche a livello tattico. Lo stile danese era stato influenzato molto da quello olandese, visto che diversi elementi avevano indossato, chi prima chi dopo, proprio la maglia dell’Ajax, qualcuno dividendo persino lo spogliatoio con Johan Cruyff dopo il suo rientro ad Amsterdam. La capacità di giocare la palla e la qualità del gioco ricordavano parecchio l’Olanda del decennio precedente, sebbene Piontek avesse sviluppato uno stile e un modulo propri, adatti a esaltare le caratteristiche dei giocatori a disposizione.
Nel 3-5-2 con cui la Danimarca si presentò in Messico, gli esterni di centrocampo – generalmente Arnesen e Jesper Olsen – erano in pratica due ali con propensione ad attaccare. Il libero Morten Olsen aveva la licenza di uscire palla al piede e appoggiare Lerby nella costruzione della manovra, non disdegnando nemmeno proiezioni offensive da un’area all’altra.
Anche il modulo era puramente teorico, vista la capacità di molti elementi di giocare in più di una posizione. Pressing, linea difensiva alta, gestione della palla, vocazione al gioco d’attacco e intercambio delle posizioni erano tutti marchi di fabbrica olandesi, anche se dal centrocampo in su i danesi risultavano essere molto più individualisti. Berggreen era un ex attaccante riconvertito centrocampista, mentre Arnesen, Michael Laudrup e Jesper Olsen, tutti ben dotati tecnicamente, sapevano sia dribblare che gettarsi negli spazi.
Quello che si identificava di più nel soprannome “Danish Dynamite” – la Dinamite Danese – era comunque l’esplosivo centravanti Elkjær, un carro armato che quando partiva risultava difficilissimo da buttar giù. Se ne accorsero ben presto i difensori della Serie A, visto che nel 1984 lui e il tedesco bionico Hans-Peter Briegel arrivarono a rinforzare il Verona di Osvaldo Bagnoli, trasformando una squadra arrivata ottava in una corazzata in grado di vincere uno storico Scudetto.
Numericamente parlando, Elkjær non segnò molto – mai in doppia cifra nelle quattro stagioni in Italia, con otto reti nella stagione dello Scudetto – ma a giovare dei suoi movimenti fu tutta la squadra, principalmente il compagno di reparto Giuseppe Galderisi. Elkjær segnò il giusto, ciò nonostante, il danese apparve nei momenti decisivi. Alla quinta giornata segnò – senza una scarpa, persa durante un coast-to-coast dei suoi – il raddoppio nella vittoria contro la Juventus. Alla giornata 21 decise la delicata sfida con la Roma, mentre il 12 maggio 1984 a Bergamo fu un suo gol a dare agli scaligeri la matematica certezza dello Scudetto.
Nella semifinale dell’Europeo del 1984, fu proprio Elkjær a sbagliare il rigore decisivo che condannò la Danimarca contro la Spagna. Ma l’attaccante si rifece nelle qualificazioni al Mondiale mettendo i danesi sul binario giusto per il Messico. Per lui 8 reti complessive, incluso una doppietta nel 4-2 all’Unione Sovietica di Valery Lobanosvki, l’altra qualificata di un gruppo comprendente Svizzera, Norvegia e Irlanda. A brillare assieme a Elkjær fu anche un altro “italiano”, ovvero Michael Laudrup, che dopo due stagioni alla Lazio era passato alla Juventus come sostituto di Zbigniew Boniek nell’attacco bianconero.
La Danish Dynamite alla prova del mondiale messicano
La Danimarca arrivò in Messico con il ruolo di mina vagante, inserita in quello che era stato considerato il “Gruppo della Morte”, vista la presenza di Scozia, Germania Ovest e Uruguay a completare il lotto. Ciò nonostante, dopo un girone vinto a man basse a punteggio pieno, tutto il mondo iniziò a prendere sul serio gli uomini di Piontek, tanto da convertire la Danish Dynamite in un modello di riferimento. Fra gli uomini più in forma, poi, un Laudrup tirato a lucido che aveva segnato proprio contro gli uruguaiani un gol al termine di un assolo personale. Rete considerata di gran lunga la più bella del torneo, almeno fino alla discesa fra gli umani del Barrilete Cosmico e del suo Gol del Siglo contro l’Inghilterra.
“Abbiamo dimostrato contro l’Uruguay che si possono vincere gare con un gioco attrattivo e non distruttivo”, dichiarò allora Piontek, che si sbilanciò con i paragoni. “Altre squadre vogliono imitare il nostro gioco. Se non vinciamo il Mondiale, spero di arrivare il più lontano possibile e ci accontenteremo di venir visti come esempio per altre nazionali, come successo con l’Olanda nel 1974 e nel 1978, quando furono vicecampioni”.
In Messico i giocatori danesi furono seguiti da circa 5000 tifosi, un buon numero anche se niente a che vedere con le migliaia di Roligans che avevano invaso la Francia due anni prima. Fra loro anche un giovanissimo Peter Schmeichel. I Roligans erano la risposta positiva alla violenza causata dagli ultrà nel resto dell’Europa, e il termine fu coniato fondendo la parola danese Rolig – che significa appunto calma – e Hooligans. Insomma, la favola danese aveva tutti gli ingredienti per il lieto fine, ma come due anni prima apparve il cattivo della storia, anche se stavolta travestito da Peter Pan: Emilio Butragueño.
La Spagna del Buitre e il disastro danese di Queretaro
Storicamente, a parte il quadriennio d’oro 2008-2012, la Spagna è sempre stata una nazionale incompiuta nei tornei internazionali, eternamente condannata all’eliminazione. Spesso per un colpo di mala suerte o qualche agente esterno, vedi l’errore clamoroso di Cardeñosa nel 1978, la papera di Arconada nel 1984, e successivamente il codazo di Tassotti e i tanti errori dal dischetto, fatali nel 1996, nel 2000 e nel 2002.
Dopo il disastroso mondiale casalingo, nel 1982 la squadra era stata affidata al leggendario Miguel Muñoz– fu il primo nella storia a vincere la Coppa dei Campioni come giocatore e come allenatore – che aveva riportato entusiasmo intorno alla Selección ricostruendo un gruppo e portandolo fino alla finale dell’Europeo. Risultato sorprendente perché la Spagna aveva costantemente camminato sul filo dell’eliminazione. Era successo nelle qualificazioni (dice niente Spagna-Malta 12-1?), nel girone (gol del difensore Maceda nei secondi finali contro la Germania Ovest) e nella semifinale contro la Danimarca, dove le tante parate di Arconada e il gol del solito Maceda avevano permesso di resistere agli attacchi danesi prima dei calci di rigore.
La vigilia della gara fu quasi surreale. Per un errore organizzativo le due squadre si trovarono nello stesso hotel, con Piontek che storse subito la bocca nel vedere il nutrito e chiassoso gruppo di giornalisti che la Selección si era portato appresso. I giocatori spagnoli, invece, guardarono con molta invidia i colleghi danesi, che se la stavano spassando in ritiro, accompagnati da famiglie o fidanzate. Per Míchel fu uno shock incredibile quando una mattina si imbatté in Elkjaer, con il centravanti danese seduto ai bordi della piscina, in una mano un bicchiere di cognac e nell’altra l’ennesima sigaretta.
Quella della Danimarca con la Germania Ovest fu una vittoria che, col senno di poi, portò con sé un alto prezzo da pagare. Lothar Matthaus aveva teso una trappola ad Arnesen, il quale aveva ingenuamente reagito al fallo del centrocampista tedesco rimediando una sacrosanta espulsione. I danesi erano poi già qualificati e avrebbero addirittura potuto perdere. Fossero finiti secondi nel girone avrebbero affrontato negli ottavi il Marocco anziché la Spagna. Ma ovviamente Piontek voleva dimostrare ai propri compaesani i progressi della sua squadra, e calcoli del genere non passarono minimamente nella testa dei giocatori danesi.
Il 18 giugno 1986, allo stadio Corregidora di Querétaro la Danimarca iniziò la gara prendendo il pallino del gioco, mentre gli spagnoli risposero con pressing e foga agonistica. La gara sembrava a senso unico. I danesi passarono in vantaggio con un rigore di Jesper Olsen mentre la reazione iberica fu facilmente arginata, con l’impacciato Julio Salinas che finì per ben sei volte in fuorigioco.
Con l’1-0 in tasca, la Danimarca peccò però di presunzione. Con un guizzo dei suoi, Butragueño si avventò come un avvoltoio su un imprudente retropassaggio di Jesper Olsen destinato al portiere Lars Høgh, e con un tocco morbido spedì la sfera nella porta sguarnita. Inizialmente, il gol del Buitre non scosse troppo i danesi, che nella ripresa continuarono a macinare gioco, con Elkjær che per ben due volte bruciò l’intera difesa spagnola in velocità, presentandosi solo davanti ad Andoni Zubizarreta, ma il centravanti del Verona fallì il prodotto finale.
Poi, improvvisamente, il vento cambiò. La Danimarca iniziò a calare l’intensità della propria manovra, mentre Miguel Muñoz si giocò la carta Eloy Olaya, un piccoletto veloce e scattante che andò a prendere il posto del legnoso Julio Salinas. Con Eloy e Butragueño a buttarsi negli spazi, la difesa danese iniziò ad andare in crisi. Il Buitre segnò di testa il 2-1, procurandosi poi il rigore del 3-1, trasformato da Andoni Goikoetxea. La Spagna infilò il coltello nella ferita: Butragueño segnò il 4-1 in contropiede, prima di completare il suo poker da leggenda realizzando il 5-1 su rigore al minuto 88.
“Spero di non incontrarlo più su un campo da calcio”, dichiarò allora l’esperto difensore Morten Olsen riferendosi a Butragueño. I due si erano già incontrati nel dicembre del 1984, quando una tripletta del Buitre permise al Real Madrid di qualificarsi in Coppa UEFA a discapito dell’Anderlecht, battuto al Bernabeu 6-1, una delle tante “remontadas” da parte dei blancos.
La Danish Dynamite non finì in Messico, ma si trasformò
Chi invece tornò a incontrare Butragueño fu il portiere Høgh, protagonista della vittoria del suo OB Odense nel ritorno degli ottavi di Coppa UEFA nel 1994. All’andata i blancos si erano imposti per 3-2 in Danimarca e la qualificazione sembrava ormai una formalità. Ma al Bernabeu Høgh sfoderò una prestazione maiuscola, blindando la porta dagli attacchi madridisti. Il resto lo fecero Ulrik Pedersen e Morten Bisgaard, che nel quarto d’ora finale confezionarono un clamoroso 2-0. Fu anche l’ultima gara europea di Butragueño, il quale decise a fine stagione di emigrare in Messico, dove chiuse la propria carriera con la maglia dell’Atletico Celaya.
La Danish Dynamite, malgrado le cocenti eliminazioni, passò comunque allo storia, lasciando un buon baule di ricordi da consegnare ai posteri, soprattutto ai nostalgici del calcio che fu. Tuttavia, il Mondiale del 1986 rappresentò lo zenith di quella generazione, e, dopo un deludente Europeo e la mancata qualificazione al Mondiale del 1990, Piontek e la Danimarca separarono le loro strade, con la dinamite diventata oramai polvere bagnata.
Il tecnico tedesco trovò subito un nuovo impiego alla guida della Turchia, dove rimase tre anni, con Fatih Terim, al tempo tecnico della nazionale U21, a fargli da tirocinante. A livello di risultati il curriculum di Piontek dalle parti di Istanbul non fu un granché – la Turchia pareggiò addirittura con San Marino– ma la sua esperienza servì a riorganizzare il calcio turco, e i frutti furono raccolti dai suoi successori con le presenze agli Europei del 1996 e del 2000, e soprattutto con il terzo posto al Mondiale del 2002.
In Danimarca, la partenza di Piontek coincise con un periodo di grossa instabilità tecnica. Il suo sostituto, Richard Møller Nielsen, in precedenza suo collaboratore e allenatore dell’Under-21, fu scelto solamente per mancanza di alternative, e il tecnico fece fatica ad accaparrarsi le simpatie dei veterani, su tutti i fratelli Laudrup. Tuttavia, la Danimarca è terra non solo di calciatori, ma anche di scrittori e poeti, su tutti Hans Christian Andersen, autore di fiabe per antonomasia. E le fiabe, si sa, spesso hanno il lieto fine. E l’avventura danese all’Europeo del 1992 sembrò proprio uscita dalla penna di Andersen. Ma questa è un’altra storia…
Testo di Juri Gobbini, autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo e del libro “La Quinta del Buitre”.
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