Vietnam, calcio e la storica partita che riunificò il Paese a Saigon
Giugno 30, 2022Il pezzo che segue, è un estratto dell’articolo dell’autore uscito su Sottoporta Review n.2, col titolo “La diplomazia del football che ha unito il Vietnam”, acquistabile a questo link.
Prologo: cos’è per me il Vietnam
C’è stato un tempo in cui, da bambino, mi capitava spesso di frugare attorno agli scaffali della libreria di casa, mai impolverata come si conveniva alle famiglie piccolo borghesi meridionali. Un giorno mi trovai a sfogliare un atlante. Era di certo vetusto, un classico De Agostini. Me ne innamorai perdutamente, perché le sue cartine politiche riecheggiavano un mondo non più esistente, che tentavo di ripercorrere da cima a fondo. Una vera ossessione mi assalì, in quel testo, per il Vietnam, costituito da due entità separate. Il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud.
Solo in seguito scoprii che quel Paese era stato diviso da decenni di guerre sanguinose. Dapprima per le vicissitudini coloniali dell’Indocina. Successivamente per le dinamiche della Guerra Fredda e le lotte di potere nel Sud Est Asiatico. Una guerra che vedeva contrapposti due blocchi, due fazioni, e che si combatteva per “il cuore e le menti degli uomini”.
Sugli americani in Vietnam resta valida una battuta dell’immenso Massimo Troisi: “gli Stati Uniti fanno le guerre solo per tirarci fuori dei film”. Nella risata amara, a denti stretti, che sovente l’attore e regista napoletano sapeva regalare, si cela il destino di un intero popolo, quello vietnamita, con una cultura e una storia molto ben distinte e riconoscibili nel mondo. Gli Stati Uniti, che in questo senso fecero molto peggio della Francia, non hanno mai capito il Vietnam finché non se ne sono andati.
Volgendo lo sguardo all’indietro, mentre l’ultimo elicottero decollava da Saigon, a qualcuno saranno venuti in mente gli anni spesi a combattere una guerra assurda (esistono guerre non assurde?) e i morti, di tutte le parti in causa, abbandonati sul campo di battaglia. E allora sì, una volta a casa, alla vista delle incontenibili proteste di piazza, che ormai cedevano il posto all’oblio e alla lotta per la sopravvivenza e l’integrazione dei reduci, hanno compreso. E hanno fatto ciò che da sempre gli riesce più agevole: sublimare in immagini cinematografiche il proprio dolore.
Non solo cinema: Vietnam e calcio sono un binomio indissolubile
Se Apocalypse Now ha rappresentato il film più crudo sull’assurdità dei conflitti in Vietnam, “The Deer Hunter” di Michael Cimino, conosciuto in Italia col titolo de “Il Cacciatore”, racconta non solo le atrocità della guerra, ma soprattutto ciò che essa comporta per chi è a casa e per chi vi fa ritorno. Una discesa agli inferi che in questo caso si sublima nel finale della pellicola, quando Mike, il personaggio interpretato dal solito magistrale Robert De Niro, torna in una Saigon della quale sono rimaste solo macerie alla ricerca del suo amico Nick, alias Christopher Walken. Un attore meraviglioso quest’ultimo, a lungo sottovalutato da Hollywood.
Il retrobottega di un locale di Saigon è la porta che conduce nell’inferno di una roulette russa clandestina, della quale Nick, memore dell’esperienza da prigioniero nella giungla vietnamita condivisa con Mike, è ormai assoluto protagonista. Mike tenterà invano di convincere l’amico, folle e in preda alle droghe, a desistere, fino all’inevitabile epilogo.
I francesi, nella prima metà del ‘900, avevano lasciato al Vietnam rimarchevoli spunti culinari e una discreta passione per il calcio. La cucina vietnamita è oggi una delle più rinomate al mondo, a metà strada fra l’elitarismo giapponese e la ricca fantasia cinese, ma anche il calcio ha svolto la sua parte. Ed è proprio dietro il back door di un elegante ristorante franco-vietnamita di una Saigon ancora in fiamme, nel 1976, che si consumava la trattativa per far disputare, all’interno del neo-rinominato stadio della riunificazione, Thống Nhất, una partita dell’amicizia fra un club del nord e uno del sud, in rappresentanza di due entità un tempo distanti.
Võ Văn Kiệt era uno dei leader della rivoluzione comunista, veterano di guerra sia durante il conflitto indocinese contro i francesi, sia nella guerra di liberazione contro la coalizione americana. Al tempo, Võ non poteva sapere che, dieci anni più tardi, avrebbe dato la spinta decisiva alle politiche di rinnovamento economico passate alla storia del partito comunista col nome di Đổi Mới. E non poteva neppure sapere che avrebbe guidato la transizione verso un Vietnam socialista e democratico, dopo la fine della Guerra Fredda, in qualità di Primo Ministro dal 1991 al 1997. Ciò che aveva in mente, in quel lontano 1976, era la via diplomatica più breve per ingraziarsi Saigon, che i rivoluzionari avevano ribattezzato in onore del grande condottiero Hồ Chí Minh.
La partita della riunificazione
La partita della riunificazione, o dell’amicizia, per citare le parole dell’esperto di questioni sportive vietnamite Scott Sommerville, fu molto più di una semplice sfida sportiva. Quello che ne venne fuori, fu un qualcosa di non lontano da un trattato di antropologia culturale e di scienze politiche. Anzitutto, una volta a Saigon, Võ impose la scelta della squadra in rappresentanza del nord. Si trattava, ricalcando un po’ la classica idea state-led sovietica, del club facente capo al Dipartimento Generale delle Ferrovie, il quale fu preferito alla squadra dell’Esercito. Affatto una decisione casuale, dal momento che era in progetto la costruzione della ferrovia per collegare la parte settentrionale a quella meridionale della neonata Repubblica Socialista del Vietnam.
D’altronde, il Tổng Cục Đường Sắt (questo il nome vietnamita del club) aveva una discreta esperienza internazionale, avendo fatto le veci del Nord Vietnam nelle varie tournée calcistiche in giro per gli Stati amici. In Cina, nello specifico, furono capaci di mettere in difficoltà la formazione dell’esercito sciorinando un 4-3-3 ultraoffensivo, con riferimenti tattici nientemeno che al totaalvoetbal dell’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff.
A questo punto Võ chiese consiglio a Lê Bửu, il Direttore Generale del Dipartimento per lo Sport, per selezionare la squadra in rappresentanza del Sud. La scelta ricadde sulla squadra dei portuali, il Saigon Port FC (Cảng Sài Gòn), considerato il miglior club del Paese, nonché quello con il maggiore supporto di tifosi ed appassionati. Politicamente, pertanto, il più appetibile. Dal punto di vista calcistico, i ragazzi di Saigon si ispiravano al modulo in voga del grande Brasile, un 4-2-4 che dava spazio alle cavalcate delle ali sulle fasce. Inutile dire che tecnicamente il livello non fosse altrettanto adeguato.
Sviscerate le motivazioni politiche della gara, passiamo alle questioni antropologiche. La partita rappresentava l’incontro fra due popoli che non sapevano di essere uno solo. Quantomeno, non ne avevano coscienza. La convinzione generale, ed il risultato finale l’avrebbe ricalcata solo in parte, era che il Nord, vittorioso in guerra, avrebbe ottenuto un agevole successo anche in campo. Le motivazioni calcistiche furono però completamente snobbate. Alla base c’era infatti l’idea che il popolo nordvietnamita fosse “diverso” da quello sudvietnamita.
La nuova propaganda presentava gli uomini venuti dalla capitale del Paese unito, Hanoi, come più alti, grossi e prestanti. Ciò incuteva timore in quelli di Saigon. Molti non avevano mai visto un vietnamita del nord senza uniforme militare o da guerrigliero. Come nella roulette russa, i due capitani, incontratisi per la prima volta nelle giornate precedenti alla sfida, si guardarono negli occhi e scoprirono di far parte della stessa gente, di condividere il medesimo destino, nonostante fossero giunti in quel punto della storia dal capo opposto del binario.
Epilogo: il calcio unisce il Vietnam, ma una nuova guerra è alle porte
Anche il pubblico di Saigon se ne accorse, e le minacce di terrorismo, dopo le attente misure di sicurezza della vigilia, lasciarono il posto agli applausi tanto per i vincitori quanto per i vinti. Il 2-0 col quale i Ferrovieri uscirono vittoriosi dalla sfida andava ben oltre i demeriti dei Portuali di Saigon, giacché la sfida fu piuttosto equilibrata, combattuta, ma senza le risse a cui il pubblico aveva assistito durante il torneo dell’indipendenza del Vietnam del Sud nel 1967. Un torneo al quale, ovviamente, quelli del Nord non erano stati invitati.
Erano passati solo 9 anni. Il Vietnam era un Paese profondamente diverso. Ma la pace sarebbe durata lo spazio di un mattino. I monsoni ripresero presto a soffiare guerra sul Sud Est Asiatico. Cambogia e Laos divennero vecchi e nuovi teatri di morte ed omicidi di massa. E Il Vietnam, nonostante avesse costituito, nel 1980, un’unica Federazione e un campionato di calcio a carattere nazionale, non poté partecipare a tornei sportivi internazionali fino ai primi anni Novanta, quando prese parte alle infruttuose qualificazioni ai Mondiali di USA ’94.
Parte del testo è estratto da Sottoporta Review n.2 – La diplomazia del football che ha unito il Vietnam – dello stesso autore, edito da Urbone Publishing.
Immagine di copertina tratta da Saigoneer.com