Kim Min-jae, o della spiritualità
Luglio 29, 2022Nel giugno del 2019 mi trovavo a Budapest, per una vacanza con gli amici di sempre. L’occasione era propizia per festeggiare l’addio al celibato di uno di loro. Solo che, per così dire, chi vi scrive (e la sua truppa) non segue esattamente lo stereotipo degli italiani all’estero. Oddio, non del tutto almeno.
In ogni caso, di buon mattino, dopo una notte pressoché insonne fra locali e lo streaming delle finali NBA in albergo, Stefano mi chiese di accompagnarlo al Museo di Belle Arti di Budapest, per una visita culturale e per acquistare dei prodotti di cui è collezionista.
Alcune fermate della metropolitana, fra il Teatro dell’Opera e il Museo, erano chiuse per una mezza maratona che si stava correndo in città. Il nostro lungo percorso a piedi, ai lati della strada principale che porta alla Piazza degli Eroi, dove è situato il museo, si sviluppava attorno alla Andrássy út, una via pulita e alberata, limitata dal corridoio della corsa e piena di istituzioni di vario genere.
Spiritualità, paganesimo e culto dei morti fra Corea e Napoli
A Budapest faceva un caldo infernale, per essere un principio d’estate mitteleuropea. Nonostante le occhiaie nascoste dagli occhiali da sole e lo stile testa bassa e pedalare, la mia attenzione venne richiamata da un gruppo di persone di origine asiatica, raccolto in preghiera, davanti una pesante cancellata. C’erano candele accese, foto dappertutto. Fiori, qualcuno portava del cibo. La scritta in tre lingue non lasciava spazio a dubbi, si trattava dell’ambasciata della Corea del Sud a Budapest.
Prima di partire si era fatto un gran parlare dell’eventualità di percorrere qualche chilometro in barca sul Danubio. Un fiume gargantuesco, infinito, di un colore molto più scuro del Tevere a cui ero maggiormente abituato, e dalle correnti fortissime. La notizia di un grave incidente sul fiume era rimbalzata timidamente sui quotidiani italiani. Mentre all’estero, come di consueto, si era dato maggiore risalto all’accaduto. Specialmente, come ovvio, in Corea, non nuova a questo tipo di tragedie.
A fine maggio, una trentina di turisti sudcoreani aveva affittato un battello per una minicrociera sul Danubio. In tarda notte, lo stesso battello era stato speronato da un’altra imbarcazione, finendo per affondare. Sette persone vennero tratte in salvo, ventotto i morti: i due ungheresi alla guida del battello e 26 sudcoreani. Uno dei cadaveri verrà ritrovato solo un mese dopo, riconosciuto non si sa bene come: la corrente aveva trasportato il corpo a più di 100 km dal luogo dell’incidente, e l’acqua ne aveva restituito quel poco che restava.
Rimasi estremamente colpito dalla compostezza delle persone riunite in commemorazione. Un silenzio assordante, nessuno emetteva un fiato. Non saprei dire se si trattasse di semplici passanti, o di parenti delle vittime. O persino di qualcuno dei sopravvissuti. Ciò che costrinse la mia attenzione a concentrarsi su di loro, fu il forte senso di spiritualità che si respirava nell’aria. Sentii di condividerlo con loro. Talvolta mi era accaduto anche a Napoli, fermandomi a sostenere in preghiera i familiari delle vittime della strada, essendo purtroppo frequenti gli incidenti, anche mortali, lungo le vie che ogni giorno percorro per andare a lavoro.
Se siete mai passati per Via Marina, ci sono attualmente tre angoli dove sono presenti foto e altarini di persone che hanno perso la vita su quell’asfalto. Si tratta di ragazzi molto giovani, e la cura di fiori e candele, con la classica foto in abito da cerimonia, è sorprendente.
Il culto dei morti, quel senso di spiritualità che unisce il mondo dei vivi con l’aldilà, in un continuum spazio/temporale che va ben oltre ciò che l’uomo fattivamente potrà mai conoscere, accomuna diverse culture. Vi basterà fare un giro per Napoli, per ritrovare luoghi in cui religione e paganesimo si mischiano col solo obiettivo di comunicare con il caro estinto. Con la speranza che dal regno dei morti giunga un aiuto, la salvezza, l’intercessione giusta affinché si avveri un desiderio qualunque. Per una coppia che sta cercando di avere figli e che vive nel quartiere della Sanità al centro di Napoli, potrebbe avere più senso pregare il “teschio sudato” al Cimitero delle Fontanelle, piuttosto che spendere migliaia di euro con l’inseminazione artificiale…
Kim Min-jae, un nuovo cult hero
Questa storia, che conservavo in un angolo paradossalmente spensierato della mente, come quello dedicato allo storico delle mie sortite all’estero, è riaffiorata d’improvviso mentre si rincorrevano le voci dell’acquisto, da parte del Napoli, del difensore della Corea del Sud Kim Min-jae. Una trattativa che si è concretizzata negli ultimi giorni, pagando ai turchi del Fenerbache la clausola di 20 mln di euro per liberare il contratto. Fenerbache che, a sua volta, aveva prelevato Kim Min-jae dal Beijing Guo’an, in Cina, dove il difensore classe ’96 aveva riaffermato la sua carriera in Asia dopo gli inizi nel suo Paese.
Sarò onesto. Prima che il Napoli cominciasse a seguirlo nel corso del 2022, non conoscevo questo giocatore, confuso fra le dozzine di Kim della nazionale sudcoreana, se non per averlo intravisto durante una partita contro il Trabzonspor, campione di Turchia (col Fenerbache secondo), che avevo messo su più per la curiosità di vedere all’opera la squadra di Marek Hamsik.
Balzano all’occhio le qualità di Kim Min-jae. Un blocco di ghiaccio rettangolare, 1.90 per 86 kg di peso forma, capace di difendere in avanti e controllare il pallone in spazi stretti. Difensore moderno, non rapidissimo ma con buona progressione. Forte nei duelli aerei, anche se in Turchia ha realizzato solo un gol. Di Min-jae si sa che ha studiato Economia all’università, senza però proseguire gli studi fino a laurearsi. Viene da una famiglia di atleti e lo zio l’ha introdotto al calcio.
Originario di Tongyeong, città portuale di mezzo milione di abitanti nel sud della penisola coreana, non faticherà ad ambientarsi in un posto come Napoli, che non ha mai fatto differenze di razza o religione. Ma che, come la Corea del Sud dipinta nello straordinario film “Parasite”, reca al suo interno enormi problemi di classismo. I tifosi del Fenerbache lo rimpiangono già, dopo che i turchi sono stati sconfitti dalla Dinamo Kiev di Lucescu nei preliminari di Champions. Nel frattempo, appena giunto nel ritiro di Castel di Sangro, si è completato un ideale passaggio di consegne da Kalidou Koulibaly, ceduto al Chelsea, al ragazzo sudcoreano.
La mistica che pervade il corpo di Min-jae attraverso tatuaggi sulla schiena che richiamano simbologie cristiane (solo il 14% degli abitanti di Tongyeong si professa cristiano, il 6% di questi cattolico) e l’enorme “Carpe Diem” tatuato sul petto del già soprannominato “Monstre”, viene sublimata nel simpatico rito di iniziazione attraverso cui devono passare le nuove reclute. Ovvero, cantare una canzone (stupida prevalentemente) alla prima cena con la squadra.
Kim Min-jae opta per la hit planetaria Gangnam Style, sorride, coinvolge i compagni che applaudono. L’ex Napoli Gokhan Inler ne aveva parlato come di un ragazzo silenzioso e serio. Evidentemente, l’occasione fa l’uomo “ladro”. E il nostro nuovo cult hero, che al momento, con 500.000 (tanti quanti gli abitanti della sua città) ha 14 volte in meno i followers di Son Heung-min del Tottenham – ed è solo il terzo sudcoreano in serie A dopo il tanto bistrattato Ahn Jung-wan (Perugia, il giustiziere dell’Italia 2002), e la meteora veronese Lee Seung-woo (ci sarebbe poi il povero Han Kwang-song, ma è nordcoreano) – ha capito subito come farsi riconoscere.
Eppure, ogni rito di passaggio ha bisogno di un feticcio. Soprattutto se i riferimenti all’animismo africano sono preponderanti. Kim indossa un pantaloncino che non è il suo. Il numero 26 tradisce il legittimo proprietario appena passato al Chelsea. Si tratta proprio di Koulibaly, l’ex king della comunità afronapoletana. Ma il nuovo acquisto ha scelto il 3, a completamento del santo rito che lo vedrà protagonista, si spera uno e trino, al centro della difesa azzurra.
Kim Min-jae ha saputo “vivere l’attimo”, come recita l’intraducibile verso oraziano, di cui reca la scritta tatuata a caratteri cubitali. Un sudcoreano atipico? Forse. Ma di certo quella spiritualità, di cui si fa portatore sano, lo aiuterà a cogliere l’attimo giusto anche in campo.
Immagine di copertina tratta da Reddit
Complimenti per l’ottimo articolo. Molto interessante.
Grazie Rudy!