L’URSS a Italia ’90: il canto del cigno di una Nazione

L’URSS a Italia ’90: il canto del cigno di una Nazione

Ottobre 24, 2022 0 Di Nicola Luperini

Il 9 Novembre 1989 è una di quelle date che segnano irrimediabilmente e in modo netto il confine tra due periodi storici. 

Il Muro di Berlino, che tagliava in due la città tedesca come un tremendo serpente di mattoni e che idealmente teneva separate due parti di mondo che in comune avevano soltanto l’odio reciproco, cadeva. Con buona pace di Erich Honecker, segretario della DDR per quasi 20 anni, che nel gennaio di quell’anno ebbe a predire che il Muro sarebbe rimasto in piedi per altri 100 anni. Non lo fece.

Anche la leadership di Honecker sarebbe caduta a poca distanza distanza da quei vaticini, il 18 ottobre.

L’Unione Sovietica andava così incontro al suo disfacimento, sia geografico che ideologico. Un crollo che, di lì a breve, avrebbe condizionato anche la Nazionale di calcio.

Honecker e Gorbachev (foto tratta da wikipedia, di dominio pubblico)

La selezione dell’URSS che si apprestava a giocare il Mondiale italiano del 1990, infatti, era indicata come una delle pretendenti ad arrivare fino in fondo alla competizione.

Al torneo di 4 anni prima, in Messico, la selezione guidata dal Colonnello Lobanovskij si era fermata agli ottavi di finale, dopo uno splendido girone nel quale pareggiò con la Francia e batté l’esordiente Canada. Non prima di aver inflitto un sonoro 6-0 nella prima partita all’Ungheria di Lajos Detari. Un percorso interrotto anche per colpa di una clamorosa decisione arbitrale. Nella partita ad eliminazione contro il Belgio, infatti, il fischietto svedese Fredriksson convalidò il gol del 2-2 segnato da Ceulemans, decidendo di ignorare il fuorigioco segnalato dall’assistente Sanchez Arminio. Coi giocatori sovietici praticamente fermi dopo aver visto la bandierina alzata. Pareggio in extremis che cambiò l’inerzia della partita e portò l’Unione Sovietica a perdere 4-3 ai supplementari, negandole la possibilità di affrontare la Spagna ai quarti.

Il capolavoro degli uomini di Lobanovskij, tuttavia, fu compiuto due anni dopo all’Europeo. Una competizione, ironia della sorte, disputata proprio in quella Germania Ovest che sarebbe diventata il simbolo della caduta del regime comunista. E che nel giro di un paio d’anni non sarebbe più esistita su nessun mappamondo.

L’Unione Sovietica vinse il proprio girone con Olanda, Irlanda e Inghilterra. Battendo poi l’Italia in semifinale grazie ai gol di Litovcenko e Protasov. Sembrava giunto il momento di raccogliere i frutti del lavoro e di una generazione splendente, che agli ordini del Colonnello aveva raggiunto l’apice del successo. Tuttavia, i sovietici non avevano fatto i conti con Ruud Gullit e Marco Van Basten. Grazie ai loro due gol – con quello del Cigno di Utrecht che sarebbe passato alla storia come uno dei più belli di sempre – l’Olanda alzò al cielo dell’Olympiastadion il trofeo di campione. Riscattando le finali perse dall’Arancia Meccanica di Cruijff negli anni ’70.

L’URSS nel 1990 ai mondiali italiani: l’ultima chance mondiale

Quel giorno, a Monaco di Baviera, ancora nessuno poteva sapere che il mondiale italiano del 1990 sarebbe stata l’ultima chance per i sovietici di alzare un trofeo.

Il Muro di Berlino era già caduto quando, nel febbraio del 1990, Lobanovskij e la sua truppa iniziarono la preparazione al Mondiale italiano sulle montagne della Garfagnana. Per mettere ossigeno nelle gambe in vista delle amichevoli di preparazione al Mondiale e prendere confidenza col clima italiano. L’URSS fece addirittura in tempo a disputare un’amichevole particolare, che a Massa ancora ricordano. Nella città toscana, infatti, i sovietici sfidarono la Massese, vincendo 5-1 grazie anche ad una tripletta di Igor Kolyvanov – all’epoca giovanissimo virgulto della Dinamo Mosca – che nel 1990 avrebbe vinto il titolo di Campione Europeo Under 21 con i sovietici. E che sarebbe sbarcato in Italia l’anno successivo. 

Pochi giorni più tardi, l’URSS ebbe a che fare con un avversario ben diverso. Soprattutto dal punto di vista geopolitico. A Palo Alto, infatti, 61mila persone assistettero ad un’amichevole storica tra URSS e USA, vinta dagli uomini di Lobanovskij per 3-1 e dominata in lungo e in largo dai sovietici. Era uno scontro tra una Nazionale in divenire, quella americana, e una che da lì a poco non sarebbe più esistita. Il fatto stesso di essere riusciti ad organizzare un friendly match tra queste due Nazioni, contrapposte da una devastante guerra ideologica per tutto il XX° secolo, era impensabile fino a pochi anni prima e rappresentava un segnale inequivocabile. 

Insieme al Muro erano crollate tante barriere che dividevano il possibile dall’impossibile.

La marcia di avvicinamento dell’URSS al Mondiale italiano sembrava confermare le impressioni che la vedevano pronta a disputare una competizione da protagonista. La riprova fu il 2-1 con cui la nazionale di Lobanovskij sconfisse l’Olanda a Kiev, di fronte a 85mila spettatori. In un’amichevole che sembrò vendicare in parte la sconfitta patita nella finale europea due anni prima. Tuttavia, il primo gol con la maglia della Nazione di Volodymyr Lyutyi, 28enne attaccante in forza allo Schalke 04, con cui l’URSS sorpassò la nazionale olandese a pochi minuti dalla fine dal confronto, fu l’ultima buona notizia per i sovietici in quel 1990 di calcio.

Qualcosa, nel meccanismo strategico quasi militare del Colonnello Lobanovskij, sembrò infatti rompersi. Gli ultimi due appuntamenti dell’URSS prima del Mondiale furono al limite del disastroso. Prima arrivò la sconfitta del Lansdowne Road di Dublino contro l’Irlanda. Un 1-0 scaturito da una punizione di Steve Staunton, che fino a quel momento non aveva mai segnato in Nazionale. Ma il peggio doveva ancora arrivare. L’URSS infatti perse anche l’ultima amichevole premondiale, contro un modesto Israele, per 3-2. La rete decisiva la segnò Tal Banin, all’esordio con la selezione maggiore. Qualche anno più tardi lo avremmo visto anche in Italia, con la maglia del Brescia.

L’eliminazione ai gironi e la fine della Nazionale Sovietica

Il viatico per affrontare il Mondiale non era certo il migliore possibile per la Nazionale Sovietica, il cui sgretolamento aveva avuto un riflesso anche di carattere stilistico. Dopo tantissimi anni, infatti, la scritta CCCP che aveva caratterizzato le divise di gioco sovietiche scompariva dal petto dei giocatori, rendendo sempre più chiaro il disfacimento di un’ideologia e la rivoluzione geografica che stava avvenendo e che di lì a poco si sarebbe completata.

Non avrà certo dimorato in quella scritta la forza dei giocatori russi, come quella di Sansone dimorava nei suoi lunghi capelli, ma di certo l’incantesimo sovietico era ormai spezzato e quello era solo l’ennesimo segnale.

L’Unione Sovietica fu sorteggiata nel Girone B del Mondiale. Insieme all’esordiente Camerun, ai campioni del mondo in carica dell’Argentina e alla Romania, nazione anch’essa reduce da uno scossone politico di dimensioni clamorose, nel 1989. Indipendenti dai sovietici dal 1965, i rumeni sperimentarono negli anni a venire la politica repressiva di Nicolae Ceausescu. Il cui potere fu interrotto con la forza da una rivolta potentissima scoppiata subito dopo la caduta del Muro. Ceausescu fu processato sommariamente da un tribunale popolare, per poi essere giustiziato il giorno di Natale del 1989.

Fu proprio la Romania, il 9 giugno 1990, a tenere a battesimo la nazionale sovietica nel Mondiale italiano. Una cerimonia che per l’URSS somigliò più a un funerale. Il San Nicola di Bari fu testimone della clamorosa doppietta di Marius Lacatus. Che abbatté i sovietici e li condannò ad una clamorosa sconfitta per 2-0. Anche se in quei giorni a far rumore fu la clamorosa debacle di Maradona e compagni contro la “cenerentola” Camerun, nel teatro milanese di San Siro.

Fu così che Argentina e URSS si trovarono a sfidarsi, nella seconda giornata del girone. Guardando dal basso le altre due nazionali e con 0 punti in tasca. Entrambe erano obbligate a vincere per evitare una clamorosa eliminazione precoce.

Lobanovskij approntò alcune modifiche tattiche al suo 442 atipico, che vedeva Zavarov galleggiare dietro gli attaccanti Protasov e Dobrovolski. Rinunciando alla spinta di Rats sulla fascia per affidarsi ad un più prudente, anche se solo sulla carta, 451. Con Zavarov dirottato sulla fascia sinistra.

Niente di tutto questo servì. Si giocava al San Paolo di Napoli, lo stadio d’elezione di Diego Armando Maradona. Quel giorno non avrebbe potuto esserci sconfitta per la nazionale argentina, che spinta dal tifo indiavolato di quasi 60mila napoletani fece un sol boccone di quel che rimaneva dell’URSS. 

Il terribile infortunio di Pumpido lanciò il futuro eroe Goycochea tra i pali. Maradona salvò un gol con la mano sulla linea. Anche stavolta, senza che nessuno se ne accorgesse. Potere di una Mano de Dios meno conosciuta, ma anch’essa decisiva. Un altro 2-0, coi gol di Troglio e Burruchaga, divenne sinonimo di un’eliminazione ormai prossima per Lobanovskij e compagnia.

Aleinikov insegue Maradona durante Argentina-URSS a Italia ’90 (foto Pagina12)

A nulla valse l’ultimo sussulto nella partita conclusiva del girone. Un 4-0 tanto perentorio quanto vano alla sorpresa Camerun. Gli africani, vincendo 2-1 contro la Romania, si erano assicurati un incredibile passaggio agli ottavi di finale del Mondiale. Quel giorno, si limitarono a fare da sparring partner ad un’URSS ferita nell’orgoglio. Col beneplacito dell’allenatore sovietico dei Leoni Indomabili, Nepomnyashchy.

Di Dobrovolski l’ultimo gol dell’URSS ai Mondiali

L’ultimo gol della storia sovietica in un mondiale di calcio fu quello segnato da Igor Dobrovolski. Pochi giorni dopo la fine di quell’infausta kermesse, l’attaccante firmò col Genoa con tutte le intenzioni di restare in Italia. La sua storia col Belpaese meriterebbe di essere trattata a parte. La Dinamo Mosca, infatti, vietò il passaggio di Dobrovolski al Genoa dopo averlo già avallato. Per poi lasciarlo andare a stagione iniziata.

A quel punto però il Grifone non avrebbe più potuto schierarlo, per via della regola dei tre extracomunitari allora vigente in Serie A. Ad Aguilera e Skhuravy, infatti, si aggiunse il brasiliano Branco. Che occupò la casella degli stranieri che avrebbe dovuto appartenere a Dobrovolski. Il sovietico si imbarcò comunque per Genova, dove restò quasi un intero anno senza giocare per poi trasferirsi in prestito in Spagna, al Castellòn. Nonostante queste peripezie, riuscì comunque a vedersi assegnato il premio come Miglior Calciatore Sovietico del 1990.

Il motivo per cui Dobrovolski venne inizialmente trattenuto in patria dalla Dinamo Mosca rende abbastanza chiaro come anche il calcio venisse vissuto come una rotella dell’ingranaggio politico sovietico. Nessun cittadino dell’URSS poteva lavorare fuori dalla madrepatria prima di raggiungere i 28 anni di età. E l’attaccante di anni ne aveva appena 23.

Una fotografia fedele di un mondo ancorato ad una visione che stava per crollare. E che in parte lo aveva già fatto, come testimonia anche la storia della nazionale in quel Mondiale.

 

Testo a cura di Nicola Luperini. Pisano, content editor per Sottoporta – il calcio internazionale, cura per Football&Life gli argomenti più caldi della settimana sul calcio italiano, dalla Serie A al calcio minors, passando per altri sport.

Immagine di copertina tratta da wikipedia, di dominio pubblico.