
“L’agonia di Doha”, il giorno in cui il Giappone pianse per il calcio
Novembre 11, 2022Maya Yoshida e Yuto Nagatomo sono i due membri più esperti del Giappone che affronta i Mondiali in Qatar del 2022. C’è una buona probabilità che, al momento della pubblicazione dei calendari, loro due più dei compagni di squadra abbiano tirato un sospiro di sollievo quando hanno visto che le partite della loro Nazionale si sarebbero disputate ad Al Rayyan e non a Doha. La capitale qatariota, infatti, evoca ricordi amari per il calcio giapponese, anche se lontani ormai quasi 30 anni. Yoshida e Nagatomo avevano 5 e 7 anni il 28 ottobre del 1993. Erano solo dei bambini, ma sicuramente erano davanti alla televisione, così come tutti i loro connazionali, ad assistere ad una partita che avrebbe potuto essere un trionfo. E che, invece, passò alla storia come “L’Agonia di Doha”.
Il Giappone punta alla prima qualificazione iridata in gran forma
Il Giappone che arriva a giocarsi l’accesso al Mondiale di Usa ’94 è una nazionale in rampa di lancio sul panorama asiatico e Mondiale. Nel 1992 la Coppa d’Asia si svolse proprio lì, per la prima volta nella storia. La finalissima venne giocata al Big Arch Stadium di Hiroshima, inaugurato in occasione dell’inizio del torneo, a simboleggiare la rinascita della città a 47 anni di distanza dalla bomba atomica che la rase al suolo.
Il Giappone riuscì a mettere le mani sulla Coppa, vincendo 1-0 contro l’Arabia Saudita. Il gol decisivo fu segnato dal giovane Takuya Takagi, il Cannone d’Asia, che a Hiroshima era di casa. Giocava infatti per il Sanfrecce, una delle formazioni fondatrici della neonata J-League, arrivata a prendere il posto della Japan Soccer League. Fino a quel momento, il calcio in Giappone era presente solo a livello amatoriale. Il professionismo iniziava a farsi strada, e con esso i successi, le pressioni e le aspettative.
Il passo successivo e naturale, per il Giappone, fu quello di qualificarsi al Mondiale americano. Per le asiatiche i posti disponibili erano due, da giocarsi in un girone da 6 squadre, tutti contro tutti. Per arrivarci, c’erano da sconfiggere altre formazioni asiatiche in altri piccoli raggruppamenti, che mandavano le vincenti al girone finale. Il Giappone vinse il proprio, tenendo a distanza minima, ma sufficiente, gli Emirati Arabi Uniti, reduci dal Mondiale di Italia ’90. Il girone da 6 squadre si giocava in campo neutro, nello spazio di due settimane, in Qatar.
Il “gruppo dei nemici”
Quel girone venne da subito ribattezzato “Gruppo dei Nemici” in quanto, oltre a Giappone ed Arabia Saudita, vi partecipavano due coppie di nazionali con rapporti diplomatici tesi, per non dire ostili: Corea del Sud e Corea del Nord, Iran e Iraq. Il Qatar del 1993 non era lo stesso del 2022 e per motivi organizzativi tutte le nazionali alloggiavano nel solito hotel. Per evitare che i membri delle nazionali “nemiche” si incontrassero in albergo, ad ogni selezione venne assegnato un piano diverso della struttura nel quale alloggiare. Addirittura vennero stilati dei turni da rispettare per i pasti, di modo che i giocatori potessero mangiare tranquilli.
A parlare, comunque, è sempre il campo. Il girone sviluppò dei rapporti di forza chiari da subito. Arabia Saudita, Giappone e Corea del Sud a giocarsi i due posti al sole, le altre tre ad inseguire.
Si giunse all’ultima giornata con le due finaliste di Coppa d’Asia, Giappone ed Arabia Saudita, nei primi due posti. Ad un passo dal Mondiale. La Corea del Sud era lì vicina, 1 punto dietro ad entrambe, e si preparava ad affrontare la Corea del Nord nell’ultimo scontro sperando in un passo falso di una delle due.
Le partite si giocarono tutte in contemporanea, in tre stadi diversi di Doha, per non permettere calcoli strani o macchinazioni varie. Ci si giocava tutto in 90 minuti.
L’Arabia Saudita uscì velocemente da questo racconto, anche se l’Iran la fece penare non poco. I sauditi vinsero 4-3 e festeggiarono l’accesso al Mondiale.
Anche la Corea del Sud il suo compito lo svolse alla perfezione, battendo 3-0 gli odiati vicini della Corea del Nord dopo un primo tempo a reti bianche piuttosto nervoso.
L’agonia di Doha
In quegli stessi momenti, all’Al-Ahly Stadium il Giappone si stava giocando il futuro contro l’Iraq, formazione tosta e dallo spirito combattivo.
Pur privi di Takagi, l’eroe di Hiroshima, fermato da una squalifica, gli uomini del Sol Levante azzannarono subito la partita. Dopo soli 5 minuti di match arrivò il vantaggio. Lo siglava Kazu Miura, centravanti dei Verdy Kawasaki che presto sarebbe sbarcato in Italia con la maglia del Genoa, dando il via ad una carriera leggendariamente longeva. Senza guardare i risultati delle altre, con quel risultato il Giappone avrebbe staccato il biglietto per i Mondiali
All’intervallo, il CT dei nipponici, l’olandese Hans Ooft, prese un gessetto e scrisse sulla lavagna “45 minutes to the USA”. Aspetta Hans, è ancora presto.
Dopo dieci minuti del secondo tempo, infatti, l’Iraq pareggiò. Il gol fu di Ahmed Radhi, universalmente riconosciuto come miglior calciatore iraqeno di tutti i tempi ed autore dell’unico gol della sua Nazionale in un mondiale, nella sconfitta contro il Belgio del 1986. In quel momento, con Arabia Saudita e Corea del Sud in vantaggio, il pareggio avrebbe condannato il Giappone all’eliminazione per differenza reti.
Mentre il sole tramontava a Doha, un brivido di paura attraversò la schiena dei nipponici. Mancava ancora tanto e il tempo per riportarsi avanti c’era tutto. E il nuovo vantaggio arrivo. A siglarlo fu Masashi Nakayama, prolifico bomber del Jubilo Iwata.
Il tempo scorreva lentissimo e il Giappone, un po’ per paura di perdere e un po’ per l’inesperienza in partite a così alto coefficiente di difficoltà, lasciava campo all’Iraq. Nel frattempo, l’Arabia Saudita aveva vinto ed era al Mondiale. Anche la Corea del Sud aveva chiuso vincendo e i giocatori rimasero sul terreno di gioco del Qatar SC Stadium per ascoltare la cronaca dei giapponesi alla radio, sperando in un miracolo.
Al 90′, l’Iraq attaccò sulla destra e fece partire un cross in mezzo all’area. Sul pallone si avventava Jaffar Omran, che lo colpì di testa e lo spedì nel sacco beffando il portiere Matsunaga.
L’arbitro svizzero Muhmentahler fischiò tre volte.
Il Giappone non si qualificò al Mondiale statunitense, lasciando via libera ai coreani che, increduli, festeggiarono a rotta di collo con ancora indosso le divise della partita contro la Corea del Nord.
Scene totalmente opposte rispetto a quelle che si consumavano al Khalifa. I giocatori nipponici crollavano in ginocchio sul terreno di gioco, in lacrime.
L’impatto storico dell’agonia di Doha
Le parole dei giapponesi, sia a caldo che dopo lungo tempo da quella partita, seguono sempre lo stesso filo logico. Nakayama dirà: “Stavamo vincendo e giocando benissimo, avevamo una squadra giovane e forte. Eravamo entusiasti di poter giocare la Coppa del Mondo, ma il sogno è finito in modo tanto improvviso quanto crudele. Quel giorno, ho visto uomini adulti piangere”.
L’impatto psicologico che quella partita ebbe sui giocatori è spiegato bene dalle parole del centrocampista Hajime Moriyasu: “Non riesco a ricordare l’atmosfera nello spogliatoio della partita, né di aver parlato con la stampa o di aver preso il pullman per tornare in hotel. Mi ero dedicato completamente al sogno di giocare il Mondiale, in quelle settimane ho passato più tempo con i miei compagni di squadra che con la mia famiglia. Quando sono arrivato vicino a toccare il sogno, è svanito nel nulla mentre era già nelle mie mani”.
L’aftermath di questa dolorosissima sconfitta, esattamente come tantissimi aspetti della cultura giapponese, ha infinite sfaccettature con significati diversi.
La conseguenza pressoché immediata della beffa contro l’Iraq si identifica con il linguaggio: la partita entra nell’immaginario collettivo nipponico come Doha no higeki. Letteralmente, “Agonia di Doha”.
Quello che per i giapponesi fu una tragedia sportiva, ovviamente, fu un impresa da celebrare per i sudcoreani. In Corea del Sud parlano ancora di Dohui Gijeok, il Miracolo di Doha. L’artefice (in)diretto della qualificazione coreana, l’iraqeno Omran, fu invitato nel paese dallla Federazione Coreana, che lo ebbe come ospite per una settimana nel gennaio del 1994. Omran espresse la volontà di giocare in K-League, il massimo campionato coreano, ma il suo desiderio non si esaudì.
Molti dei giocatori che erano presenti in campo in quella partita si ritirarono dal calcio internazionale, un po’ per la troppa delusione subita e un po’ per epurazione interna al sistema calcistico giapponese. Soltanto due giocatori di quella spedizione sfortunata, infatti, parteciparono in seguito alle qualificazioni per Francia ’98: Nakayama e Ihara. Nell’immaginario nipponico, chi scese in campo quel giorno fu classificato come appartenente alla Doha Gumi, la “Classe di Doha”. In ogni caso, come spesso succede nel calcio, il primo a pagare fu il CT. Hans Ooft venne rimosso dall’incarico. Lo sostituì Paulo Roberto Falcao, che però restò in sella pochi mesi. Gli fu fatale, per ironia del destino, una sconfitta proprio contro la Corea del Sud ai Giochi Asiatici.
La partita entrò anche nell’iconico manga “Captain Tsubasa”, famoso in Italia come “Holly e Benji”. Nel fumetto, infatti Oliver Hutton segna il gol del 3-2 a tempo scaduto, portando il Giappone ai Mondiali per il rotto della cuffia. Peccato che tutto questo succeda solo in sogno: Holly si sveglia nel proprio letto, col Giappone ancora eliminato.
Ma i popoli asiatici, e i giapponesi più di tutti, ci insegnano che quando un vaso si rompe si può riparare con l’oro per renderlo ancora più brillante nella sua ritrovata integrità.
La filosofia che guidò il Giappone a riprendersi dopo una sconfitta così devastante fu esattamente questa.
Con pazienza, i giapponesi intrapresero un percorso di ripartenza che, seppur con l’intoppo dell’eliminazione ai quarti di finale della Coppa d’Asia del 1996 ad opera del Kuwait, portò lentamente la Nazionale là dove voleva arrivare.
Il 16 Novembre 1997, sul neutro malese di Johor Baru, il Giappone sconfisse l’Iran grazie al golden gol siglato da Okano al 118′ e si guadagnò il biglietto per il Mondiale. Quei 45 minuti scritti sulla lavagna da Ooft erano durati 4 anni, ma finalmente erano passati.
Il Giappone sciolse nella gioia tutta l’ansia per un traguardo che sembrava stregato, bagnando così la propria striscia di 7 partecipazioni consecutive ai Mondiali, una delle quali da paese organizzatore proprio al fianco di quella Corea del Sud che aveva gioito al posto loro nel 1994.
In Francia, l’avventura giapponese terminò ai gironi, con Argentina e Croazia che passarono il turno. Il cerchio tracciato dal destino però si chiuse in maniera ideale e poetica. Il primo gol del Giappone in un Mondiale fu segnato proprio da Masashi Nakayama, uno dei reduci dell’Agonia di Doha.
Ancora oggi, nei momenti di difficoltà, i tifosi giapponesi intonano un coro che è sintomatico dell’effetto che quella partita ebbe nella storia della nazionale: Doha o wasureruna!. Possiamo tradurre questa esortazione con “Ricordatevi di Doha!”. Un modo efficace per tenere a mente che, dopo le più brutte tempeste, il mare può tornare calmo.
Nella notte più oscura del calcio giapponese, infatti, il Giappone trovò la forza per plasmare il proprio destino e renderlo splendente negli anni a venire.
Testo a cura di Nicola Luperini, per la rubrica “La Tana del Lupo”. Pisano, content editor per Sottoporta – il calcio internazionale, cura per Football&Life gli argomenti più caldi della settimana sul calcio italiano, dalla Serie A al calcio minors.
Immagine di copertina tratta da Twitter