Qatar 1974

Qatar 1974

Novembre 15, 2022 0 Di Matteo Fornara

1974. È l’anno dei Mondiali in Qatar. 

Il calcio, fuori e dentro il campo, il Qatar, i Mondiali e la Jugoslavia. C’è un prima e un dopo, e in mezzo quell’anno, il 1974, in cui cambia tutto. È come il 1984 per George Orwell o il 1982 per Pablito Rossi, come il 33 dopo Cristo per il Papa, come il 19 per il Covid. 

Nel 1974 sul rettangolo verde l’Olanda rompe tutti gli schemi, il suo calcio totale è la stessa libertà che rappresentano i capelli lunghi dei suoi giocatori, le ragazze a bordo piscina dopo le partite, i pantaloni a zampa d’elefante. Il portiere è un idraulico di professione e veste un maglione giallo con il numero 8 quando tutti gli altri sono neri e hanno rigorosamente l’uno sulla schiena, si chiama Jongbloed, cioè sangue giovane, letteralmente.

Il terzino fa l’ala poi improvvisamente la mezzala, lo stopper e il centravanti, le discese ardite e le risalite in un calcio fin troppo codificato dove il 2 deve marcare l’11 e il 5 francobolla il 9. I malcapitati difensori avversari non capiscono più nulla. Tutti corrono dappertutto e il meccanismo funziona alla perfezione. È un caos collettivo, perfetto, come il grande concerto di Woodstock, inni e rappresentazioni della libertà delle nuove generazioni.

Il collante che tiene tutto insieme ha il numero 14 e si chiama Johan Cruijff, che sulle maniche della sua maglia orange ha solo due strisce anziché tre come i suoi compagni, un piccolo segno di ribellione perché il suo sponsor non è quello di tutti gli altri, la tedesca Adidas. Ah, e perché poi alla fine il calcio fa sempre come vuole lui e non come vorrebbero le mie storie, la finale di quei Mondiali del ’74 la vince la Germania, contro l’Olanda.

L’ascesa di Adi Dassler

In quel 1974 chi diventa il vero padrone del calcio mondiale è Adi Dassler, tedesco, e come no. Un barone brasiliano, che da giovane era stato campione di nuoto come Bud Spencer, diventa presidente della FIFA. João Havelange, la prima cosa che fa è assumere un contabile svizzero apparentemente insignificante ma sveglio e spregiudicato, che si chiama Joseph Blatter, detto Sepp. È lui l’uomo di Adi Dassler, che è il padrone dell’Adidas, quella reietta da Cruijff. Le scarpe con le tre strisce diventano il marchio del calcio mondiale, insieme al rosso della Coca Cola che è l’altro grande finanziatore della FIFA.

Adi Dassler (foto tratta da Sneaker Style)

Da club elitario di qualche aristocratico innamorato del football, l’organizzazione del calcio mondiale si trasforma in una delle più potenti macchine commerciali del pianeta. Per allargare il raggio del business e delle protezioni politiche Havelange non si farà scrupoli a organizzare la successiva edizione dei Mondiali nell’Argentina del 1978, dove una delle dittature più dure mai conosciute continuerà a torturare i suoi oppositori, veri o presunti, nelle caserme a poche centinaia di metri dagli stadi di Buenos Aires, durante le partite. Blatter intanto si occupava di fare soldi, e inventare il programma GOAL per sostenere lo sviluppo del calcio negli angoli più remoti del globo terracqueo.

Costruire un immenso potere basato sulla corruzione non fu difficile. Alla FIFA si votava con il principio “One Country One Vote, dove il Sudamerica delle grandi potenze calcistiche valeva un terzo dei Caraibi perché i suoi membri sono 10 e i Caraibi ne hanno 30. Non fu difficile trovare un malvivente, tal Jack Warner di Trinidad Tobago, capo della Concacaf, cioè la confederazione calcistica dell’America settentrionale e centrale, con alleato Chuck Blazer che aveva agganci negli States e sembrava il cugino vecchio di Mino Raiola.

Joseph Blatter e l’origine del male

I soldi degli sponsor venivano girati ai dirigenti di quei piccoli Paesi, piuttosto digiuni di calcio, senza definire ambiziosi progetti o obiettivi che non fossero la spartizione dei soldi tra i capi e i vari intermediari: Havelange, Blatter, Warner, Blazer e i vari capetti locali.  Al congresso FIFA di Francia ’98 Blatter diventò Presidente vincendo sul mitico svedese Johansson, presidente UEFA che io e i miei amici on the road to Euro 2004 avremmo poi conosciuto in un ristorante portoghese, il quale si presentò candidato deciso a rompere il sistema malato, e infatti perse. 

Nel 1974 la nazionale di calcio del Qatar vinse la prima partita della sua storia, 4-0 contro l’Oman. Il Paese era nato meno di tre anni prima, e iniziò a giocare le sue partite di qualificazione ai Mondiali, senza troppo successo peraltro dato che non si è mai qualificata, e neppure ci sarebbe mai andata vicina.

Quando i Mondiali iniziarono quasi un secolo fa in Uruguay, il Qatar era un pezzettino di deserto dove i pochi abitanti si dedicavano alla pesca delle perle in mare. Faceva già caldo, forse non come adesso, e se dopo la guerra mondiale gli inglesi non avessero iniziato ad estrarre petrolio di quel lembo di terra grande come gli Abruzzi o il Kosovo non si sarebbe mai occupato nessuno. Invece diventò il Paese più ricco del mondo. Oggi si gioca il gradino più alto del podio, anzi del PIL, con il Lussemburgo e Singapore.

Nel 1974 da un’altra parte del mondo iniziava a sgretolarsi un sistema, in controtendenza rispetto al calcio che rilanciava con Cruijff, alla FIFA che rilanciava con Blatter, e al Qatar che rilanciava con i pozzi di petrolio. La Jugoslavia era stata una delle quattro nazionali europee che fecero la traversata oceanica per raggiungere l’Uruguay della prima coppa del mondo nel 1930, le altre tre – Belgio e Francia e Romania – su un bel panfilo dotato di tutti i comfort, gli slavi su un vaporetto postale, e non presero la nave neppure al ritorno perché rimasero più degli altri: furono gli unici europei ad arrivare in semifinale e persero il passaggio.

La fine della Jugoslavia

Nel ‘74 il Presidente della Jugoslavia Tito, sotto la pressione dei nazionalisti che poi avrebbero distrutto l’esperimento socialista e terzomondista della bandiera con la stella rossa, dovette concedere forme di autonomia alle diverse etnie e lì cominciò il processo di disgregazione del Paese, che si concluse, dopo la morte del Maresciallo onnipotente, con le tragiche guerre degli anni ’90. Mentre Vukovar e Sarajevo venivano assediate e la violenza delle Tigri del Comandante Arkan razziavano le città e violentavano i suoi abitanti, anche le fortissime nazionali di calcio e di basket cessavano di esistere, proprio mentre raggiungevano l’apice della loro vicenda sportiva.

Nel 1990 la Jugoslavia fu campione del mondo di basket a Buenos Aires, e il calcio fallì la vittoria mondiale in Italia per colpa del rigore sbagliato da Faruk, di cognome Hadžibegić, un bosniaco che poi divenne il titolo di un gran libro e di una delle leggende più romantiche dello sport mondiale. 

In quel maledetto ’74 la Jugoslavia iniziò a finire e il suo spazio calcistico venne occupato da Croazia e Serbia, soprattutto, ma non solo se si pensa che l’Italia in Qatar non ci va perché l’ha eliminata la Macedonia del Nord, e ancora ci pare incredibile. Croazia e Serbia saranno le squadre che seguirò di più in questi Mondiali d’autunno.

La nazionale croata ha una storia unica. Si presentò per la prima volta sul palcoscenico mondiale in Francia, nel 1998, pochi anni dopo la sua indipendenza e la fine della guerra con i serbi. In quegli anni per l’opinione pubblica e per l’organizzazione sportiva internazionale, entrambe spinte da una certa fretta nell’identificazione di colpevoli e innocenti, i croati con gli sloveni erano le vittime e i serbi i carnefici.

Croazia-Germania a France ’98: una partita storica

La squadra allenata da Čiro Blazević, un ultranazionalista come il padre della patria e suo mentore Tudjman che usava la nazionale per i suoi fini sciovinisti interni, era fortissima e arrivò a un passo dalla finale grazie alla sapiente regia di Boban ai gol di Šuker. La bandiera a scacchi rossi e bianchi, prima sconosciuta, diventò il simbolo di un Paese di appena quattro milioni di abitanti che sarebbe poi diventato una delle potenze del calcio mondiale.

A tutt’oggi l’Italia non l’ha mai battuta, ovviamente neppure agli ultimi mondiali in Russia dove gli azzurri non c’erano – neppure lì, maledizione – e loro giunsero ancora in finale, battuti come vent’anni prima dalla Francia, che fu dominata per larghi tratti. I croati avevano un grande spirito di squadra e un giocatore fenomenale a centrocampo, Luka Modrić che aveva passato l’infanzia a giocare a pallone nel parcheggio di un hotel di Zara dove avevano sistemato i profughi della loro maledetta guerra.

Croazia e Serbia ai Mondiali di Qatar 2022

Ora in Qatar Modrić c’è ancora, è sempre uno dei migliori centrocampisti del mondo, calciatore leggero e perfetto, e guida una squadra che sembra stare trovando la quadra tra la generazione uscente, quella di Russia dei Perišić e Brozović, e i giovani emergenti il più forte dei quali è il difensore Joško Gvardiol che gioca nel Lipsia. Il girone di cui fanno parte nella prima fase è quello dei potenziali outsider: la vulgata banale del pronostico scontato li dà qualificati insieme al Belgio, io non escludo che il Marocco di Hakimi e Ziyech e il Canada di Alphonso Davies ed Eustaquio possano sovvertire le previsioni. Dopo di che, come sempre per i croati se dovessero avanzare, the sky is the limit.

I serbi sono fortissimi. Qui lo scrivo, pronto a negarlo non appena saranno stati eliminati nel girone, uno dei più complicati con il Brasile, la Svizzera dei kosovari Xhaka e Shaqiri che già li batterono in Russia, e il Camerun di Choupo-Moting. Da quando ha scontato le inique squalifiche sportive che l’hanno emarginata dalle vicende sportive della fine del secolo scorso per le colpe dei dirigenti politici ed etnici del Paese, la nazionale serba è sempre stata una somma di grandi individualità e una pessima squadra, sempre eliminata al primo turno.

Quest’anno in Qatar ci arriva dopo aver battuto il Portogallo di Cristiano Ronaldo nel girone e aver costruito un gruppo che – sulla carta – appare molto attrezzato. Peccato che si giochi sull’erba e non sulla carta e lì la Serbia ha sempre di fatto faticato. Sergej Milinkovic-Savic, Tadic e Kostic a centrocampo, Mitrovic e Vlahovic di punta, in pochi hanno una forza d’urto del genere, anche se portieri e difensori non danno le stesse garanzie. Sarà una sfida che si gioca sul filo dei dettagli, ancora con la Svizzera, credo. Appuntamento venerdì 2 dicembre alle otto di sera allo stadio 974.  

Lo Stadio 974

Lo stadio 974 è stato realizzato sul bordo del mare nei pressi del porto di Doha con 974 container, perché +974 è il prefisso del Qatar. Sarà smantellato, c’è chi dice che pezzi di tutti gli stadi finiranno da qualche parte in Africa, a farne che si vedrà, non appena l’arbitro inglese Taylor, o l’argentino Rapallini se ci sarà Kane in finale, o lo spagnolo Mateu Lahoz se la finale sarà il remake di Maradona barrilete cosmico dell’Atzeca 86 fischierà tre volte e deciderà a chi l’emiro al Thani darà la coppa prima di tornare – finalmente – nel suo parco VIP del Parco dei Principi.

Come tutti gli altri, il 974 è stato costruito da operai immigrati che da quei mitici anni Settanta hanno iniziato a edificare la città, l’unica che c’è e dove vive l’80% della popolazione del Paese, che ha tre milioni di abitanti dei quali un decimo sono qatarioti e gli altri, nove su dieci appunto, sono lavoratori cooptati dall’emiro nei Paesi cui mandano gas in cambio di braccia, Bangladesh, Nepal, Pakistan, Sudan e Kenya soprattutto. La skyline futurista, i resort in cui la siepe e le palme trapiantate sono l’unica macchia di verde sulla terra bruciata, gli otto stadi del Mondiale che arriva li hanno fatti loro, e molti sono morti di caldo e di incuria, e altri morti di fame per l’infamia degli sceicchi, che poi come dice Maurizio Sarri spiegatemi perché siamo andati in Qatar se non per dare soldi al PSG e al City.

L’incrocio magico e incredibile iniziato in quel leggendario 1974 tra calcio, Blatter e Qatar trovò compimento nel 2010, quando l’ex ragioniere del Vallese elvetico decise di attribuire due mondiali insieme (2018 e 2022) che andarono, per motivi ovvi e tristi, a Russia e Qatar invece di Inghilterra e USA, con tanto di rampolli della Casa reale di Elisabetta, e personalità come Cameron, Clinton e Obama rimasti a bocca aperta quando l’ex galoppino della Adidas diventato imperatore aprì la busta e lesse Putin e Qatar.

Qatar 974 Stadio Container (visit Qatar)

Qatar 2022 Stadio Container (visit Qatar)

Lo sponsor più forte di quella storica vicenda fu il presidente francese Sarkozy, che usò persino Michel Platini per convincere il Comitato esecutivo della FIFA a dare il Mondiale all’emiro, e gli americani si arrabbiarono, mandarono l’FBI che arrestò Blatter e i suoi, e pure Platini finì nella polvere. Tuttavia non sembra che il nuovo capo Infantino, al di là dei soliti pelosi proclami, abbia cambiato idea, né sul Qatar e neppure sulle storture della FIFA. Tre anni fa è andato a vivere in Qatar con tutta la sua famiglia, cagnolino compreso, ospite dell’emiro, perché va bene così, l’unica cosa che è davvero cambiata è il calendario, si gioca in autunno con la finale quasi a Natale perché a giugno fa troppo caldo e quello si che è un problema davvero.

A tutto il resto ci pensa l’emiro, la storica carta di credito e le regole per i tifosi emesse dal Ministero competente: tutti sono benvenuti purché non si scambino effusioni per strada, girino con spalle e ginocchia coperte soprattutto se sono di sesso femminile e non bevano alcool all’aperto. E se sono gay che stessero a casa o in prigione, non sia mai che non si rispetti la “cultura locale”.   

Come giocherebbe la Jugoslavia oggi?

Ho scritto un po’ di queste storie nel mio libro “Il Genio e la Tigre”, pubblicato negli ultimi giorni dell’anno scorso da Urbone. Consiglio di leggere anche “Inside Qatar” di un giovane scrittore inglese, John McManus, che ha spiegato il paese un po’ fake che li ospita, qualche pezzo di un altro giornalista britannico, Andrew Jennings, che nel 2010 all’epoca sputtanò Blatter con inchieste molto approfondite, e di guardare la miniserie su Netflix sulla corruzione nella FIFA di Havelange e di Blatter.

Oblak; Milenkovic, Gvardiol, Rrahmani; Kostic, Brozovic, Modric, Milinkovic-Savic, Perisic; Dzeko, Mitrovic. E anche Handanovic, Savic, Tadic, Elmas, Pjanic, Lukic, Vlahovic. Ogni volta che il Mondiale si avvicina penso a cosa sarebbe la Jugoslavia se esistesse ancora, e ogni volta penso che sarebbe tra le favorite, anche quest’anno nello strano Mondiale che inizia ora, d’autunno, nel deserto e in stadi posticci, e forse mezzi vuoti. 

Io boicotto Qatar 22 nel senso che non ci andrò come ho sempre fatto da Italia ’90 in poi a tutti i Mondiali (ed europei) che non fossero lontanissimi; mi tengo per Nord America 2026 e – spero – Sudamerica 2030, l’Uruguay vuole riprendersi la Coppa nel centenario della prima edizione.

Hotel a Doha che costano 345 euro per 3 notti a Natale durante la prima settimana del Mondiale costano 2.200 euro. Ma non è questa la sola ragione, è molto di quello già scritto. E lo stadio senza birra non ha senso. Seguirò ogni minuto di tutte le partite perché il Mondiale era, è e sarà per sempre la cosa che mi piace di più nella vita, e di questo parleremo quando volete. Perdere un minuto di Qatar-Ecuador o Tunisia-Australia, quello sì è un peccato mortale.

Ah, lo stadio, 974. E il 1974. Buon Mondiale a tutti.

 

Testo di Matteo Fornara. Europeista, groundhopper e autore del libro “Il Genio e la Tigre”, edito da Urbone Publishing.

Immagine di copertina tratta da Eurosport