Ferdinando Valletti: la vera fuga per la vittoria
Gennaio 26, 2023La rovesciata di Luis Fernandez, alias Pelé, ha ispirato milioni di appassionati di calcio e cinema, in una famosa pellicola con grandi star internazionali di entrambi i mondi.
Ma se “Fuga per la Vittoria” trae spunto dalla presunta leggenda della “partita della morte” giocata dai calciatori internati della Dinamo Kiev contro la squadra delle SS, non era affatto infrequente vedere i tedeschi organizzare partite di calcio all’interno dei campi di concentramento.
Manuela Valletti era appena stata concepita, quando papà Ferdinando fu vittima di una delazione che l’avrebbe costretto dapprima al carcere a San Vittore, poi ad essere internato nei Lager di Mauthausen e Gusen I e II. L’avrebbe conosciuta solo a guerra finita.
Ferdinando Valletti, durante gli scioperi generali del marzo 1944 – che videro fermarsi più di 350.000 lavoratori in protesta contro la guerra e gli occupanti nazisti – da dipendente in vista dell’Alfa Romeo, si era dato piuttosto da fare. I colleghi contavano su di lui, che a Milano era conosciuto non solo per le sue qualità lavorative, ma anche per quelle calcistiche. Abilità che, certo non poteva saperlo, gli avrebbero salvato la vita. E gli avrebbero consentito di salvarla, a sua volta, a quattro colleghi della stessa Alfa Romeo. Nel 2017, a sette anni dalla sua scomparsa, dopo la sofferenza inflittagli dal maledetto Alzheimer, fu dichiarato “Giusto tra le Nazioni”. Assurdo a dirsi, senza il calcio, tutto questo non sarebbe mai stato possibile.
Ferdinando Valletti e i suoi brevi ma salvifici trascorsi calcistici
Ferdinando Valletti nacque a Verona il 5 aprile 1921. La figlia Manuela, sul papà ha scritto il libro Deportato I 57633. Voglia di non morire.
La signora Valletti ci ha confidato che il padre, fino a tarda età, non si era mai raccontato a cuore aperto, rispetto a ciò che era stata la prigionia. E dei suoi trascorsi calcistici nel ruolo di mediano di spinta, per quanto ne fosse orgoglioso, non restano che pochi frammentari ricordi.
Manuela ricorda che papà Ferdinando aveva avuto, come spesso accade, una passione per il calcio fin da piccolo, quando si dilettava nelle giovanili dell’Hellas. Una volta trasferitosi a Milano ed essere entrato a far parte dell’Alfa Romeo, aveva dato il meglio di sé nel Seregno, autentico vivaio del Milan (o Milano, ai tempi del regime fascista), in serie C. Tanto da guadagnarsi, a inizio anni ’40, la chiamata di una delle due superpotenze calcistiche all’ombra della Madonnina.
Con i rossoneri, a causa della rottura del menisco – che lo costrinse a lunghi mesi nel nosocomio cittadino – e dell’insorgere della guerra, giocò solo partite amichevoli.
Ironia della sorte, due di queste, con vittorie dei milanisti per 5-0 e 3-2, si tennero proprio contro il Seregno al Ferruccio. Lo stadio che il patron Umberto Trabattoni, detto “Il Cumenda”, aveva fatto costruire e dedicare alla memoria del figlioletto scomparso.
Il calcio, a Ferdinando Valletti, sarebbe tornato utile più avanti. Ma non per la gloria, quanto per la sua stessa vita. Il due marzo 1944, il giorno successivo all’inizio degli scioperi, durante i quali Valletti si era dedicato alla promozione degli stessi con attenta opera di volantinaggio, fu prelevato da casa sua, dove viveva con la moglie Lidia, incinta.
Condotto a San Vittore, già il 4 marzo finì su un treno della Stazione Centrale che partiva dal famigerato binario 21. Quello diretto verso nord. Il binario da cui, la stragrande maggioranza di coloro che lasciavano la città, non sarebbe più tornata.
La rocambolesca salvezza nel campo di prigionia
Nei Lager nazisti Ferdinando Valletti venne deportato insieme a diversi colleghi dell’Alfa Romeo. Riuscirà a salvare quattro di questi. Ma come?
Sopravvivere nei campi di concentramento era un’impresa per pochissimi. E la fortuna, in quei casi, giocava un ruolo fondamentale. Valletti giunse a Mauthausen che pesava 64 kg e fu spedito a lavorare duramente nelle gallerie delle cave di pietra. Sarebbe andato incontro a morte certa, dato che, come riporta Manuela Valletti nel suo libro, riprendendo le parole del padre, era arrivato a pesare 39 kg.
Poco più di uno scheletro spaurito con l’anima strappata a morsi dalle SS, fu chiamato nell’ufficio del Kapò di Gusen.
Come riporta magistralmente l’amico Emanuele Santi in un articolo apparso su Left nel 2015:
Quando il kapò mise la testa nella fredda baracca di legno, Ferdinando Valletti indossava un pigiama a righe con una lettera sul petto, seguita da una serie di numeri. Il kapò era stato mandato a cercare qualcuno capace di giocare a pallone perché nel campo di Gusen, in terra d’Austria, le SS avevano anche il tempo di divertirsi e quel giorno, evidentemente, erano rimasti a corto di uomini.
Il foglio di trasferimento di Valletti recava scritto che la sua attività era quella di sportivo. Calciatore, per la precisione.
La cosa aveva incuriosito non poco gli ufficiali delle SS, che attraverso un interprete gli spiegarono di aver bisogno di gente che sapesse giocare a calcio per le partite fra i soldati del campo.
Valletti si rifocillò rapidamente, giacché qualcuno a cui era rimasto un briciolo di cuore si era accorto che l’uomo era quasi al capolinea.
Mise le scarpe al piede e cominciò a giocare nel suo ruolo, in mediana. Smistava la palla, ce la mise tutta per farsi valere, cercando di risparmiare energie e restare lucido. Gli ufficiali, a quanto pare, lo apprezzarono non poco. Valletti ottenne il trasferimento nelle cucine, per poter svolgere un lavoro meno pericoloso e godere quantomeno degli avanzi del cibo, che metteva nelle calze e nelle scarpe, per portarli, a sera, ai suoi amici. Così facendo, contribuì alla salvezza di diversi uomini. Nonché ad aumentare le sue stesse possibilità di sopravvivenza.
Quando gli Alleati giunsero a Gusen e liberarono il campo, Valletti poté finalmente tornare a casa. Era salvo, avrebbe finalmente conosciuto Manuela e si sarebbe ricongiunto con Lidia.
Valletti fece ritorno alla sua Alfa Romeo, della quale divenne figura dirigenziale. Col tempo, col sostegno di Manuela, ha affrontato e raccontato il suo passato, contribuendo a tramandare la memoria di quegli anni terribili per il mondo.
Secondo Manuela, specialmente negli anni della malattia, Valletti aveva il sonno estremamente disturbato dagli incubi, con tutta probabilità dovuti all’esperienza dei campi di sterminio nazista. A noi piace pensare che, per una volta, il pallone abbia avuto su di lui un potere salvifico. Perché se ha potuto riabbracciare la sua famiglia, Valletti lo deve anche a se stesso, alla sua forza, e all’amore per il gioco del calcio.
La redazione ringrazia con affetto la signora Manuela Valletti per il contributo.
Intervista a cura di Nicola Luperini.
Testo di Luca Sisto.
Immagine di copertina tratta da Wikipedia, su gentile concessione di Manuela Valletti. Ferdinando Valletti, a destra, fotografato con il calciatore milanista Andrea Bonomi a San Siro nel 1949.