I 60 di Michael Jordan: un brand sportivo planetario
Febbraio 18, 2023Il 14 giugno 1998, mentre oltreoceano, a Salt Lake City, si consumava con “The Pose” l’ultimo leggendario atto della carriera di Michael Jordan in maglia Chicago Bulls, in Francia si giocavano i Mondiali, con in campo la Jugoslavia (1-0 all’Iran grazie a una punizione di Mihajlovic), l’Argentina (1-0 al Giappone con gol di Batistuta) e la Croazia (3-1 alla Jamaica). Un pomeriggio sportivo tutto da vivere, in attesa della levataccia di gara 6.
MJ pensava di concludere così la sua carriera, da vincente, con due threepeat per un totale di sei titoli NBA, ottenuti in altrettante finali e con una stagione e mezza a fare da cuscinetto, tempo durante il quale si era ritirato per dedicarsi al baseball, salvo poi rientrare col 45 al posto del 23. Solo provvisoriamente, certo.
Aggiungeteci uno zero e otterrete 60: Michael Jordan è nato il 17 febbraio 1963 e, chi vi scrive, ha sempre tenuto in mente questa data, alla stregua del 30-10-60 di Diego Armando Maradona. Le utilizzavo persino per delle password, anni fa, alternativamente. Due passioni, il calcio e il basket, che nella testa del me ragazzino crescevano di pari passo. Senza superarsi se non in occasione delle partite della mia squadra del cuore.
E dire che Sua Maestà Air Jordan, da una costola della Nike, ha creato un brand capace di fruttargli il primo miliardo di dollari nella sua poco umile carriera da imprenditore. Un brand cresciuto a dismisura, attraverso il logo del volo in schiacciata che ha reso celebre i suoi dunk contest e il film Space Jam (quello originale, si intende, non la versione maccheronica con LBJ), tanto soppiantare la stessa Nike in diversi contesti.
Non è un caso che la franchigia di cui è proprietario, gli Charlotte Hornets, abbia utilizzato per prima, per le proprie divise NBA il brand Jordan, le cui sneakers sono le più richieste negli ultimi trent’anni. Nell’89, qualche ragazzino è stato capace di uccidere per un paio di Jordan. Dal 2020-21, “Jumpman” appare come marchio ufficiale delle divise statement edition. E non c’è da sorprendersi neppure del fatto che il PSG di Messi, Neymar e Mbappé, uno dei club più ricchi al mondo grazie ai petrodollari qatarioti, abbia deciso di affidarsi a Jordan per espandere il proprio brand.
Un’icona di stile che ha anticipato i tempi
Di afroamericani vincenti e capaci di diventare icone mondiali, nella storia dello sport e della NBA, ce ne sono stati prima e dopo Jordan. Muhammad Ali nel pugilato. Pelé nel calcio. Gli stessi Bill Russell, Chamberlain, Magic e Jabbar nella NBA. Sport made in USA in cui gli afroamericani, dopo aver subito per anni la segregazione, hanno via via preso il sopravvento.
Jordan però è stato il primo a coniugare lo stile con le vittorie. Certo, passare dalle Converse alle Nike e contribuire alla creazione di una propria linea di scarpe, ha aiutato.
Difficile dire quando l’atleta abbia lasciato spazio all’imprenditore, che naturalmente gli ha permesso di guadagnare cifre che, ai tempi, neppure lui si sarebbe sognato, pur essendo il più pagato in circolazione. Oggi è diverso: gli stipendi che incassava Jordan da giocatore professionista sono equiparabili a un contratto medio basso nella NBA attuale. Il tetto ingaggi e l’espansione del brand NBA in tutto il mondo hanno fatto sì che le cose cambiassero rapidamente.
Eppure, sono molti i cestisti che al termine della propria carriera finiscono d’improvviso in bancarotta. Scelte poco oculate, che hanno fatto vittime illustri, come Allen Iverson, il mio giocatore preferito, per citarne uno.
Scelte che Jordan, nonostante gli enormi problemi di gambling (era ed è solito scommettere su qualsiasi cosa in qualunque momento della giornata), è stato invece capace di implementare per il meglio grazie al suo brand. Da dirigente (e poi di nuovo giocatore, per gli ultimi due anni di carriera) dei Wizards aveva dimostrato scarso occhio per il talento. Da proprietario, giace stabilmente negli ultimi posti della graduatoria della Eastern Conference con i suoi Charlotte Hornets. Ma il carisma e le vittorie, appunto, sono state decisive nella costruzione della reputazione e del marchio. “Non ridete, non ridete. Potreste rivedermi in campo a 50 anni”, ebbe a dire durante la cerimonia di introduzione nella Hall of Fame.
E chissà che oggi Michael Jordan, a 60 anni, fra un allenamento e l’altro degli Hornets in cui ogni tanto scende sul parquet a spiegare due o tre cose sul gioco del basket, non ci abbia finalmente messo una pietra sopra.
C’è stato chi ha vinto più titoli NBA di lui. Chi ha realizzato più punti, più canestri. Ma nessuno ha ricevuto l’affetto e l’ammirazione di Michael Jordan. Kobe, LeBron e gli altri sono venuti tutti dopo di lui. L’hanno imitato, talvolta superato. Eppure nessuno sarà mai come il 23, perché la narrazione sportiva l’ha reso un qualcosa di imbattibile, intoccabile, inespugnabile. E perché il marchio Jordan ha saputo creare un appeal pari solo all’aura del suo ispiratore.
Immagine di copertina: FIBA official FB account.