Amancio e il Madrid de los yé-yé

Amancio e il Madrid de los yé-yé

Marzo 9, 2023 0 Di Juri Gobbini

La stampa definì la loro performance “senza pena, senza gloria”. La televisione tagliò e poi cestinò molte immagini dei loro concerti. I Beatles arrivarono finalmente anche in Spagna, suonando a Madrid e Barcelona nell’estate del 1965, ma la loro presenza in terra iberica non fu certo ben vista da parte del governo franchista.

Negli anni Sessanta, Franco aveva già iniziato a perder colpi fisicamente. Ma continuava lo stesso ad essere il despota che aveva cercato il più possibile di isolare il Paese dalle influenze esterne. Malgrado l’eccezionalità dell’evento, infatti, il governo fece di tutto per ridurne la portata. Incluso istruendo la stampa, che arrivò a disprezzare i Beatles chiamandoli «los cuatro muchachos de Liverpool». Non rendendosi conto di essere davanti al miglior quartetto musicale mai esistito.

Per il Caudillo, i Beatles rappresentavano un simbolo di ribellione. La sua paura era che gli spagnoli potessero prendere le abitudini e le tendenze provocatorie dei giovani del resto dell’Europa, dove divampavano capelli lunghi, pantaloni a zampa di elefante e una attitudine ribelle che avrebbe portato ai movimenti del Sessantotto.

Temendo che l’evento si trasformasse in una occasione per protestare contro il regime, il governo pensò bene di mettere il bastone fra le ruote ai giovani spagnoli. I biglietti furono venduti a prezzi esorbitanti, e venne sparsa la voce che la polizia avrebbe usato un pugno ancor più duro di quello che era solita usare durate gli accenni di ribellione. In molti così desistettero e gli spalti della Plaza de Toros di Madrid risultarono parzialmente vuoti. A Barcelona andò leggermente meglio, ma il governo aveva dimostrato la propria superiorità. 

I Beatles e la loro particolare eredità: Il Madrid de los yé-yé

Tuttavia, i Beatles riuscirono a lasciare qualcosa in eredità alla Spagna, in particolar modo al fútbol spagnolo.  Il tutto accadde durante la stagione 1965-66 quando un cronista del giornale El Alcazar qualificò il Real Madrid come squadra Yé-Yé, soprannome preso direttamente dal ritornelloShe loves you, yeah, yeah” della canzone She loves you degli stessi Beatles. Il paragone non piacque però al conservativo presidente Santiago Bernabéu, il quale non gradì nemmeno le foto che alcuni suoi giocatori fecero indossando delle vistose parrucche, come se fossero delle rockstar. 

Ramon Saporta, il braccio destro del presidente, fu costretto ad intervenire, facendo così bloccare l’uscita delle foto. Ciò nonostante, a fine stagione gli scatti vennero pubblicati lo stesso. E stavolta Bernabéu dovette fare una concessione, visto che quei giovani erano riusciti a vincere la Coppa dei Campioni, la sesta nella storia del club ma soprattutto la prima senza Alfredo Di Stéfano e con una squadra interamente composta da giocatori spagnoli.

Bernabéu in quegli anni aveva dovuto fare infatti di necessità virtù. Il club non era ben messo a livello economico dopo gli sfarzi degli anni Cinquanta, e in più la Federazione aveva chiuso le frontiere a seguito del fiasco della nazionale spagnola al Mondiale del 1962. Il Real era stato così costretto a ricostruire la squadra pescando in provincia o nel proprio settore giovanile, visto che della vecchia guardia era rimasto il solo Paco Gento, oltre che un trentottenne Ferenc Puskas alla sua ultima stagione in blanco.

Amancio: la punta di diamante di un Madrid che tentava di aprire un nuovo ciclo

Pur senza strafare, la rosa venne rinnovata gradualmente, con Bernabéu che riuscì a mettere insieme il meglio che la Spagna potesse offrire in quel momento, pescando in provincia o promuovendo giovani dal vivaio. Il polivalente difensore Ignacio Zoco, gli attaccanti Amancio Amaro, Fernando Serena e Ramón Grosso, il centrocampista Pirri [José Martínez], il portiere Antonio Rodrigo Betancort, il terzino Manuel Sanchís, il difensore Vicente Miera e la mezzapunta Manuel Velázquez divennero così le colonne portanti di una squadra che poteva sempre contare su Miguel Muñoz in panchina.

Una formazione del Real Madrid de los yé-yé nel 1966 (immagine tratta da wikipedia)

La formazione del Real Madrid de los yé-yé prima della finale di Coppa Campioni del 1966 contro il Partizan (immagine tratta da wikipedia)

Senza più la necessità di assecondare le stelle di turno, il tecnico fu lasciato lavorare con calma. Riuscì così a rigenerare una squadra mantenendo intatta la competitività, almeno in Spagna dove fra il 1961 e 1972 il Real Madrid vinse nove campionati su dodici. Con il Barcelona incapace di mettere in piedi una squadra in grado di competere per il titolo, in quegli anni fu l’Atletico Madrid il club che più di tutti provò a rendere la vita difficile ai blancos. Nella stagione 1965-66, infatti, furono proprio i colchoneros a superare il Real in dirittura d’arrivo e vincere il campionato, approfittando della sconfitta madrilena al Camp Nou nel penultimo turno.

Il Real non si pianse troppo addosso, comunque. Dieci giorni dopo aver perso la Liga, gli uomini di Miguel Muñoz affrontarono l’Inter in casa per la semifinale d’andata della Coppa dei Campioni. I Nerazzurri, allenati da Helenio Herrera, erano indubbiamente la squadra più forte d’Europa, dominio certificato dai successi nelle due precedenti edizioni della Coppa dei Campioni. Era il periodo d’oro del calcio italiano. Inter e Milan si contendevano lo scettro di regina, mentre l’avversaria più temibile si chiamava allora Benfica. Le olandesi e le tedesche – che avrebbero dominato gli anni Settanta – non erano ancora pronte, mentre fra le inglesi il Manchester United di Matt Busby aveva dovuto rimandare di qualche anno i sogni di gloria dopo il disastro aereo di Monaco.

Il Real Madrid era arrivato fino a quel punto del torneo lasciando per strada Feyenoord, Kilmarnock ed Anderlecht. Quest’ultima l’unica che impegnò seriamente i blancos. All’andata, in Belgio, un gol del mitico Paul van Himst – in campo assieme a Pelé e Stallone in Fuga per la Vittoria – aveva dato la vittoria all’Anderlecht. Ma nel ritorno la “legge del Bernabéu” fu inflessibile. Con una doppietta a testa Amancio e Gento liquidarono la pratica, portando il punteggio sul 4-0. Prima che la squadra si rilassasse concedendo due reti nei secondi finali.

Le semifinali di Coppa Campioni contro l’Inter, dopo aver perso inopinatamente la Liga

Contro l’Inter fu invece un gol di Pirri in avvio a dare la vittoria di misura al Real. Con i nerazzurri che non riuscirono ad approfittare di un infortunio al portiere spagnolo Antonio Betancort. Il quale – in assenza di sostituzioni – venne costretto a rimanere in campo e giocare la seconda parte zoppo. Malgrado l’1-0 mettesse il Madrid in una posizione di vantaggio, i blancos viaggiarono a Milano consapevoli della superiorità nerazzurra. Herrera poteva contare su gente del calibro di Luisito Suarez, Peiró, Sandro Mazzola, Mariolino Corso o Giacinto Facchetti.

Il tecnico argentino, spavaldo come al solito, aveva dichiarato che la sua Inter non avrebbe avuto problemi a rimontare. Ciò nonostante, anche a San Siro il Real fu bravo a scattare più veloce dai blocchi e stavolta toccò ad Amancio perforare la porta di Giuliano Sarti. L’1-0 non solo obbligava adesso l’Inter a segnare almeno 3 gol, ma forzava i nerazzurri a gettarsi all’attacco, il che aprì delle praterie per il contropiede spagnolo. Per l’occasione il Real schierò il portiere di riserva José Araquistain, ma l’Inter riuscì a segnare solo al minuto 78, grazie a un’incursione vincente di Facchetti. Troppo tardi per sperare in un ribaltamento di risultato.

Oltre al mitico Gento, il leader di quell’attacco madridista era Amancio. Gallego di La Coruña, era arrivato a Madrid nell’estate del 1962 dopo una stagione da 25 gol in Segunda Division con il suo Deportivo, squadra con cui aveva debuttato professionista nel 1958. Gli inizi in blancos, comunque, non furono facilissimi. Con Di Stéfano e Puskas ancora al comando delle operazioni, Amancio venne dirottato nel ruolo di ala destra, e per prendere lo scettro dell’attacco dovette attendere l’addio della Saeta Rubia, che si produsse nel 1964.

Amancio: un leader nel momento del bisogno

Amancio non comparve nella famosa foto del giornale El Alcazar, quella con le parrucche. Però era lui, senza dubbio, il leader della squadra. E come ogni capobanda che si rispetti, anche Amancio si fece trovare pronto nei momenti di più bisogno. Dopo la doppietta all’Anderlecht, dopo il gol di San Siro, fu proprio lui a riportare sui giusti binari una finale di Coppa dei Campioni che si stava mettendo male. Il Partizan Belgrado non era certo il peggiore degli avversari. Ma gli jugoslavi erano stati capaci di superare il Manchester United in semifinale, battendolo a domicilio per 2-0 e limitando i danni ad Old Trafford, dove i Red Devils non erano andati oltre l’1-0.

Per questo il gol segnato dal libero Velibor Vasovic al minuto 55 aveva impaurito gli spagnoli, i quali avevano iniziato la gara troppo contratti. Fu a quel punto che entrò di nuovo in scena Amancio. Il gallego segnò il gol del pareggio al minuto 70, una rete che rimetteva i blancos in carreggiata verso la “Sexta”, con il canterano Serena che completò la rimonta sei minuti più tardi con un bolide dal limite.

Tre giorni dopo, con la “Sexta” già nelle vetrine del Real Madrid, El Alcazar pubblicò quelle foto e il successo del reportage fece sì che quella squadra venisse per sempre ricordata come il Madrid de los Yé-Yé”. La vittoria europea portò pure a credere che quel gruppo di giovani, tutti spagnoli, potesse aprire un nuovo ciclo di dominio europeo, ma alla fine non fu così. Nell’edizione seguente, fu l’Inter a vendicarsi del Real nei quarti. Mentre nel 1968 toccò al Manchester United eliminare i blancos in semifinale. Nella stagione 1968-69 e nella 1969-70 il Real non passò nemmeno gli ottavi, uscendo per mano di Rapid Vienna e Standard Liegi. I blancos continuavano a dominare in patria. Ma in Europa il calcio spagnolo stava entrando in un periodo grigio, non solo a livello di club, vista la mancata partecipazione della Selección ai Mondiali del 1970 e del 1974.

Amancio rimase col il Real Madrid fino al 1976. Anche se la sua carriera fu troncata – quasi letteralmente – da una entrata di Pedro Fernandez, un macellaio paraguaiano che assieme all’argentino Ramon Aguirre Suarez – quello che aggredì Nestor Combin in Estudiantes-Milan, finale di Coppa Intercontinentale – e l’uruguaiano Julio Montero – cognome non mente, è il papà di Paolo – componeva la temibile difesa del Granada, dalla quale era meglio girare alla larga. L’entrata di Fernandez ad Amancio fu da codice penale. L’attaccante riportò la lacerazione quasi completa del quadricipite della coscia, tanto profondi erano penetrati i tacchetti del difensore. Complice anche l’età, il gallego non riuscì più a riacquistare la brillantezza e nel 1976 si fece da parte. 

344 partite di Liga e 119 reti segnate, nove Lighe, tre Coppe del Generalissimo e una Coppa dei Campioni vinte – più l’Europeo con la Spagna nel 1964 – Amancio si ritirò come leggenda, e rimase legato alla Casa Blanca per il resto della propria vita. Di fatto, quando morì lo scorso 21 febbraio, stava ricoprendo la carica di presidente onorario del club. È considerato uno dei grandi numeri 7 del Real Madrid, un elenco che parte con Raymond Kopa e prosegue poi con Juanito, Emilio Butragueño, Raúl e di recente Cristiano Ronaldo, tutti capaci di indossare quel numero magico sinonimo di gol e gesta leggendarie.

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare la breve avventura di Amancio come allenatore. Sulla prima squadra durò appena sette mesi, ma nella sua epoca di tecnico del Castilla era stato lui a forgiare e lanciare cinque giovani della Cantera che avrebbero fatto la storia del Real Madrid: Miguel Pardeza, Míchel, Rafael Martin Vazquez, Manolo Sanchís ed Emilio Butragueño, ovvero la Quinta del Buitre, il cui nome verrà sempre legato a quello di Amancio.

 

Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo e del libro “La Quinta del Buitre”.

Immagine di copertina tratta da ABC.