Menchino Neri: il mio calcio e la rovesciata che salvò l’Arezzo

Menchino Neri: il mio calcio e la rovesciata che salvò l’Arezzo

Marzo 25, 2023 0 Di Nicola Luperini

Il calcio di provincia italiano, fatto di immagini sgranate e ricordi che affiorano dalle sabbie mobili del tempo, vive su fondamenta posate da eroi di varia grandezza. Eroi locali, che spesso legano indissolubilmente il loro nome a quello di una sola squadra, che li ha lanciati o che li ha visti nascere.

Domenico Neri, per tutti Menchino, è senza dubbio uno di loro.

Lo incontro ad Arezzo nel primo giorno di primavera, col timido calore del sole che fa il suo debutto stagionale dopo mesi in panchina a veder giocare il freddo, il vento, le nuvole scure.

L’appuntamento è di fronte al negozio di orologi gestito dalla moglie, in pieno centro. Un luogo elegante, di classe, che porta il suo nome.

“Lo abbiamo aperto 31 anni fa, era il 1992 e già allenavo ad Arezzo in Serie C. Fino a quel giorno non sapevo quasi cosa fosse un orologio, io e mia moglie ci siamo buttati rilevando questa attività. Essere circondato da questi strumenti che scandiscono ogni secondo il tempo che passa mi fa tornare spesso indietro con la mente. Quanti ricordi…”

Per ripercorrere la sua carriera e la sua storia, Neri mi accompagna in un bar dall’arredamento moderno, incastonato in una splendida struttura rinascimentale. Cammina sicuro sul Corso Italia, come se fosse in un lunghissimo corridoio di un’abitazione che gli appartiene. La sensazione è giusta: Arezzo per Neri è sinonimo di casa.

“Sono nato poco lontano da qui, in un complesso di case popolari. La maglia amaranto me la sono messa addosso da piccolo e ho fatto tutta la trafila delle giovanili con l’Arezzo. Ho esordito in Prima Squadra nel 1972, in Serie B, e poi ho cominciato a girare. Ho giocato per Empoli, Massese, Reggiana e Como. Ma il richiamo di casa mia era troppo grande. Ero giovane e l’amore per la mia città mi spingeva sempre a tornare da lei. Quando avevo dei giorni di riposo, prendevo la macchina e tornavo verso Arezzo. Ogni volta che tornavo, sentivo un cambiamento dentro di me: non potevo starne troppo lontano.”

Menchino Neri e l’Arezzo: una storia infinita

Inevitabile che le strade di Neri e dell’Arezzo tornino dunque ad incrociarsi. Siamo nel 1979, e Menchino rinuncia ad una carriera avviata in cadetteria per vestire nuovamente, a distanza di 6 anni dall’ultima volta, la casacca amaranto.

“Giocare per la propria città è totalmente diverso rispetto al farlo con qualsiasi altra maglia. Si sente molto di più la responsabilità di difendere i colori del posto dove sei nato, dove vivi, dove senti di voler restare fino all’ultimo giorno. Gli aretini in squadra erano pochi al tempo, c’eravamo solo io e Guido Carboni, che era agli esordi.

Era nostro compito accendere nei nostri compagni, che venivano da altre città, lo stesso fuoco di appartenenza che bruciava in noi. Il compito era reso più facile dal fatto che la proprietà, la dirigenza, tutto lo staff, fossero aretini di nascita. Non eravamo la squadra più forte del campionato, ma riuscimmo a vincere il campionato di Serie C grazie ad una programmazione solidissima e all’amicizia che ci legava tutti, indistintamente.

Ognuno correva e faticava per l’altro, senza gelosie. Questo era il nostro segreto. Oggi non è facile trovare questa alchimia, molti proprietari delle squadre professionistiche  vengono da fuori. Come si può far passare il concetto di identità alla squadra se manca ai piani più alti?”

Nella chiacchierata con Menchino spuntano sempre, a intervalli regolari, due parole chiave: programmazione e appartenenza.

La chance mai colta – e mai rimpianta – di giocare in A

“Fare oggi quello che faceva l’Arezzo al tempo non è più possibile. Non esistono quasi più squadre che mantengono l’ossatura della squadra intatta per cinque, sei, addirittura dieci anni di fila. Qualcuno, come Empoli e Sassuolo, ci prova perché riesce a dare continuità a livello societario. Il presidente è sempre lo stesso, il direttore sportivo non cambia. Questo aiuta a sviluppare un progetto serio. Questo è il secondo motivo, oltre all’amore per la mia città, che mi ha convinto a rimanere ad Arezzo per tutti quegli anni.”

Già, perché Neri avrebbe avuto la chance di giocare anche in Serie A, negli anni’80.

Nell’82-83 stavamo andando forte in Serie B. Nel mercato autunnale ho avuto delle richieste dalla massima serie, mi volevano il Genoa e il Cesena. Il presidente Narcisio Terziani voleva tenermi a tutti i costi con lui, avevamo uno splendido rapporto. Mi disse che saremmo rimasti insieme per tutta la vita ad Arezzo, che avremmo lottato insieme e che in Serie A ci sarei arrivato con la maglia dell’Arezzo.

Eravamo anche d’accordo che a fine carriera avrei continuato ad allenare i ragazzi del Cavallino. Non avevo bisogno di sentire altro: firmai in bianco per 10 anni. Purtroppo negli anni successivi fu costretto a vendere la società e quindi non riuscimmo ad esaudire tutti i nostri sogni, ma Terziani era uno di parola. Quando acquistò il Montevarchi, mi chiamò per giocare lì, in C2. Vincemmo il campionato e io mi ritirai, fermandomi al suo fianco ad allenare i ragazzi montevarchini. Non ci eravamo scordati l’uno dell’altro: eravamo in simbiosi”.

Il rapporto con Antonio Angelillo

“Un altro personaggio con cui avevo un rapporto come tra padre e figlio era con Antonio Angelillo, leggendario attaccante di Inter e Roma, che ebbi come allenatore ad Arezzo. Ci amavamo a vicenda, ma ogni tanto ci facevamo dei dispetti, dei veri e propri screzi tra innamorati. Lui a volte mi metteva in panchina per spronarmi, sapeva che mi avrebbe stimolato: quando sento di subire un torto, reagisco tirando fuori i denti. Così, spesso, la partita successiva giocavo titolare e segnavo, ma non andavo ad abbracciarlo per ripicca. Non fanno così i veri innamorati?”

Disegno della rovesciata di Menchino Neri, scatto dell'autore presente nel negozio di famiglia.

Disegno della rovesciata di Menchino Neri, scatto dell’autore presente nel negozio di famiglia.

Domenico Neri, tuttavia, non rimpiange di non aver mai calcato i campi del massimo campionato. Preferisce, di gran lunga, aver donato e ricevuto amore nella sua città.

“Non mi pento assolutamente di essere rimasto. In quegli anni ho giocato in Serie B contro grandi squadre, lottando per il mio Arezzo. Allo stadio della mia città sono passate squadre come Lazio, Lecce, Bologna, Pisa, Bari…era vera una e propria A2, il livello era altissimo. Indimenticabile il giorno in cui inchiodammo il Milan sul 2-2, qui ad Arezzo. Il Comunale era strapieno, ci saranno state 15mila persone. Mi confrontai con gente come Tassotti, Evani, Cuoghi…all’andata, a San Siro, vinsero loro ed ebbi l’onore di affrontare Baresi. Quella è stata la mia Serie A.

Nel 1984, poi, ho avuto il privilegio di essere in campo nella prima partita ufficiale di Diego Armando Maradona in Italia. Napoli-Arezzo 4-1, in Coppa Italia. Il San Paolo era una cosa indescrivibile, 70mila persone, una bolgia vera. Avevamo già perso prima del calcio d’inizio. E poi Maradona era una creatura sovrannaturale, quel giorno segnò su punizione. Ricordo che il nostro mister, Riccomini, chiese ad Alberto Minoia di stargli più attaccato: lui gli rispose che l’unica maniera in cui avrebbe potuto contrastarlo sarebbe stato sparargli…”

Epica della rovesciata di Menchino Neri

Nei 10 anni in cui Menchino Neri, fascia di capitano al braccio e folti baffi neri ad incorniciare la bocca aperta dallo sforzo nel rincorrere tutti i palloni, esiste un giorno che ha cementato il suo nome nell’Olimpo degli eroi aretini. L’orologio dei ricordi ferma le sue lancette al 9 Giugno 1985: il giorno in cui Neri fermò il tempo e indirizzò il suo destino, andandoselo a prendere per aria.

Quel giorno è la storia mia e dell’Arezzo. Giocavamo contro il Campobasso, dovevamo vincere per forza se volevamo salvarci. Era la penultima giornata di Serie B, se non avessimo vinto avremmo dovuto andare a vincere a Pisa la domenica successiva e loro dovevano andare in Serie A.

Ad un certo punto, rigore per noi. Nessuno si sentiva di calciarlo. L’allenatore, Mario Rossi, pescò nel gruppo dei più esperti e indicò me. Non ero tranquillo: se avessi sbagliato saremmo verosimilmente retrocessi, sentivo il peso di non deludere la mia città, i miei tifosi. Le gambe mi tremavano e calciai malissimo. Quando vidi il portiere parare, mi cadde il mondo addosso. Iniziai a piangere, mi accasciai disperato fuori dal campo, non volevo più giocare. Furono i fotografi assiepati dietro la porta a ributtarmi dentro. Fu lì che cambiò tutto.”

In ogni racconto epico, ogni eroe che si rispetti vive la propria personale caduta prima di risorgere dalle proprie ceneri e trovare il riscatto. Spesso serve tempo, pazienza, costanza. Per Neri, questo percorso in quell’assolato pomeriggio aretino è accelerato al massimo: tutto succede in meno di un minuto.

“Stavo ancora piangendo, frastornato. Era passato pochissimo dal mio errore quando vidi spiovere quel pallone in area dalla destra. Credimi, non avevo mai provato una rovesciata prima di quel momento, non l’avevo mai fatta neanche in allenamento. Quel giorno qualcosa me la fece fare. Forse qualcuno mi guidò dall’alto, forse, fu la disperazione, forse tirai fuori qualcosa che non sapevo di avere. Sta di fatto che feci quella rovesciata e volai altissimo, il mio piede arrivò più su della testa del mio marcatore. La palla andò dentro.

Pensandoci a distanza di tanti anni, sembra davvero la sceneggiatura di un film, invece è successo tutto ed è successo a me. Ancora oggi la gente di Arezzo si ricorda di quella rovesciata, me la ricordano ogni giorno e a me fa un piacere immenso.”

Più volte durante la nostra chiacchierata gli occhi di Menchino si inumidiscono di commozione, ma quando parla di quel giorno, di quel momento, c’è una luce che brilla tra le lacrime che vorrebbero uscire. Sicuramente è l’orgoglio che sente per aver ricambiato tutto l’amore che Arezzo gli ha dato e continua a dargli negli anni.

Il Cobra Tovalieri: un compagno di squadra al tempo giovane ma talentuoso

Il rigore sbagliato, quello che aveva rischiato di farlo ricordare come “quello che aveva fatto retrocedere l’Arezzo”, avrebbe dovuto batterlo un giovanissimo Sandro Tovalieri, ancora lontano dal diventare il “Cobra” che tutti noi conosciamo. E’ un’occasione per parlare con Neri di un argomento che oggi è il cuore di molte discussioni. E’ giusto o no buttare i giovani nella mischia molto presto? O conviene aspettare?

“Con Tovalieri ci ho giocato un anno soltanto. Era molto giovane, ma si vedeva in maniera limpida che aveva delle grandissime doti. I suoi numeri erano di un’altra categoria, la sua carriera è stata importante, ma son sicuro che avrebbe potuto fare qualcosa di più. Quando giocava con me sembrava gli mancasse un po’ di spirito di sacrificio, con un po’ di testa in più sarebbe potuto arrivare ad altissimi livelli e giocarsi un posto stabile in Nazionale. Uno con le sue caratteristiche, per esempio, all’Italia di oggi servirebbe come il pane. 

Con i giovani, oggi, bisogna stare attenti. Uscire alla ribalta troppo presto rischia di far montare la testa ad un calciatore giovane. Per me è fondamentale anche il contesto familiare da cui un ragazzo arriva: se la famiglia non riesce a far tenere i piedi per terra al ragazzo, esaltandolo o facendolo sentire un fenomeno, lo fa crescere con delle aspettative che verosimilmente non raggiungerà. La maturità a livello di testa è più importante di quella tecnica, a meno che non si parli di fenomeni. Se un ragazzo non è pronto psicologicamente per giocare a certi livelli, forse è meglio aspettare un pochino prima di lanciarlo nella gabbia dei leoni.

E’ un po’ quello che successe a Marco Macina. Il Bologna lo prese insieme a Roberto Mancini e sembrava addirittura essere il più forte dei due. Troppe aspettative, un carattere forse non ancora temprato, una testa non pronta a certi livelli ed ha finito per perdersi: penso di non spararla troppo grossa se dico che avrebbe potuto giocare 20 anni in Nazionale.”

L’Arezzo: un’emozione ancora viva

La nostra chiacchierata si avvia alla conclusione ed è inevitabile chiedere a Neri, una vera e propria istituzione del calcio aretino, cosa pensi dell’Arezzo di oggi.

“L’Arezzo sta dominando il suo girone di Serie D, ha fatto una squadra troppo più forte delle altre e sta meritando la promozione. La piazza è sempre pronta a dare amore alla squadra, portare più di 3mila persone allo stadio in quarta serie non è facile per nessuno. Spero che l’attuale società sia capace di programmare qualcosa, costruendo un progetto vincente sull’ossatura della squadra di quest’anno. La Serie C è difficile, ma se si dà coerenza al progetto tecnico e si crea una visione a lungo termine, Arezzo è una città che può tornare a lottare per un posto al sole. La tifoseria è facile da infiammare: portare 5-6mila persone allo stadio, in un campionato di Serie C fatto bene, deve essere l’obiettivo.

Io stesso, quando posso, vado al Comunale. Ed è sempre la stessa emozione di 40 anni fa. Quando salgo le scale che mi portano in tribuna ho delle vere e proprie aritmie, il cuore mi balla d’emozione. 

Vedo quelle maglie amaranto correre sul prato che è stato mio e mi domando: cosa farei io in questa situazione? Avrei calciato o avrei passato? Mi sento ancora parte dell’Arezzo, perché l’Arezzo è parte di me. Quando penso al calcio penso solo alla mia squadra, il resto è secondario.

Qualche anno fa mi fu dato un ruolo dirigenziale, ma non è mai stata data continuità ai vari progetti. 

Ho preferito farmi da parte. Ho un solo grosso rimpianto. Avrei voluto dare alla città un settore giovanile all’avanguardia, creare una rete di società satellite da cui l’Arezzo avrebbe potuto pescare per far crescere i giovani aretini e portarli a giocare con la maglia amaranto, proprio come successe a me tanti anni fa. Non ci sono riuscito e mi dispiace molto, ma questo non basta per niente a togliermi l’Arezzo dalla testa.”

Sappiamo cos’è l’Arezzo per Menchino Neri: ma cosa rappresenta lui per Arezzo?

Il tragitto di ritorno mi rende testimone di cosa sia Menchino Neri per Arezzo. Per strada lo salutano in tanti, come se incontrassero un monumento sceso dal piedistallo di una piazza di città che si è preso una pausa per bere un caffè. Mi presenta ad un amico, ha qualche anno meno di lui. Dopo neanche trenta secondi di conversazione, il discorso cade, come per un’inerzia invisibile e potentissima, su quella rovesciata. Menchino, se tu non avessi fatto quella rovesciata tua moglie non ti avrebbe neanche fatto tornare a casa!”

Una storia d’altri tempi, quella di Menchino Neri. Una storia che ci racconta di come il destino, o il cielo, sa venirci a riprendere anche quando sembra averci voltato le spalle. Spesso succede dopo anni, a volte, come per Menchino Neri, succede in uno schiocco di dita. Sono convinto che, qualunque sia stata la forza che ha issato Neri nel cielo di Arezzo come una marionetta incredula per colpire quel pallone con un gesto tecnico improvviso, Menchino se lo sia meritato. La sua storia non meritava di finire nelle lacrime versate a bordocampo, ma con gli applausi e il giubilo della gente che assiepava il Comunale, piena dello stesso amore che animava il suo eroe.

Una storia bella come la rovesciata di Menchino Neri.

 

Testo a cura di Nicola Luperini, per la rubrica “La Tana del Lupo”. Pisano, cura per Football&Life storie nascoste sul calcio dalla provincia ai Mondiali. Ma non solo. Appassionato di Football Manager, racconta qui le sue avventure.

Twitter Account: @NicoLuperini

Immagine di copertina – foto autografata da Franco Baresi (scatto dell’autore, presente nel negozio della famiglia Neri).