Filippo Begliardi: il bomber giramondo che si ispira ad Ibra

Filippo Begliardi: il bomber giramondo che si ispira ad Ibra

Maggio 2, 2023 0 Di Philip Supertramp

“The american dream”.

Filippo Begliardi Ghidini rappresenta un caso molto particolare nel panorama calcistico degli atleti italiani. Ha deciso di partire dagli USA, mixando calcio e studio nel mondo collegiale. Una scelta molto più frequente in uno sport come il basket (ancora a livelli elitari nei college di Division I) che non nel calcio. Attaccante di 1.96, longilineo, di origine ravennate e con Ibra quale naturale fonte d’ispirazione (basti leggere il nick del suo account twitter), Begliardi ha la passione di chi giocherebbe a calcio in qualsiasi contesto, con un solo obiettivo: farne la sua professione, con sacrificio, mettendosi al servizio della squadra.

Il suo cammino è costellato di cambiamenti dentro e fuori dal rettangolo verde (da centrocampista ad ala ed infine prima punta) e, grazie alla sua caparbietà e alla voglia di mettersi in gioco, continua a rincorrere il sogno del professionismo a buoni livelli. Dopo aver militato nell’Università del Massachusetts (Stati Uniti), per poi spostarsi oltreoceano a Lulea (Svezia), oggi a 24 anni si trova ad Helsinki (Finlandia) per giocare con il Kapylan Pallo. Noi di Football and Life l’abbiamo intervistato in esclusiva.

Ciao Filippo! Nel 2017 grazie ad una borsa di studio studente-atleta inizi a giocare nei Merrimack Warriors (Massachusetts). Ci racconti com’è andata e com’è la vita in un college americano?

Nel 2017 parto per gli Stati Uniti destinazione Boston grazie a una borsa di studio ottenuta con Yeswecollege, un’agenzia che mi ha permesso mettermi in contatto con Merrimack College. Gli Stati Uniti erano da sempre un sogno nel cassetto e ho provato a sfruttare tutte le carte che avevo per poter avere questa opportunità. L’arrivo a Merrimack è stato anche grazie a Tony Martone, mio allenatore anche lui italiano, che mi ha fatto da tramite per potermi trasferire in questo college.

Tre anni fantastici, dove il primo abbiamo vinto la conference in Division II, il secondo siamo arrivati in finale e il terzo abbiamo vinto la Northeast Conference in Division I. Ho trovato ragazzi molto talentuosi con cui abbiamo legato subito grazie a un clima molto internazionale. La vita nel college è indimenticabile, oltre a essere una bella esperienza sportiva, lo è anche a livello accademico.

È stata un’esperienza gratificante perché prima mi sono laureato e poi ho potuto fare un master in un’università differente. La vita nel college americano assomiglia molto a quella dei film, sei sempre a contatto con altri ragazzi e ti diverti molto. Anche se il tuo obiettivo sono lo studio e lo sport. È molto importante sapersi organizzare al meglio, perché non è facile allenarsi e studiare tutti i giorni.

In due anni segni 14 gol nella Division II, e alla tua terza stagione in División I (massimo campionato universitario) grazie alle tue reti i Warriors arrivano al primo posto della Northeast Conference. Come hai vissuto la transizione fra le due divisioni? Il livello è così diverso?

I primi due anni ho trovato la porta più volte, ma il terzo è stato quello del grande salto che mi ha permesso mostrarmi su altri radar e di andare poi ad un’altra università. Quell’anno siamo partiti come la cenerentola del campionato per poi stravincerlo. Il mio rammarico è che non siamo potuti andare alla fase finale del campionato, perché per regolamento una squadra che viene promossa in Division I non può giocare il campionato nazionale per i successivi tre anni.

Questo mi è servito come stimolo per voler cambiare e poter provare a giocare questo campionato. In Division I tutto è molto più competitivo perché ci sono università con più fondi, molti più osservatori che vengono a guardarti e allo stesso tempo molti più giocatori che vogliono aspirare a diventare professionisti. La Division I è un campionato con ragazzi dai 18 ai 24 anni, con molti atleti internazionali. È molto divertente perché si gioca ogni due tre giorni e si va in giro per tutti gli Stati Uniti in trasferta.

Dopo tre anni a Merrimack arriva il trasferimento all’Università del Massachusetts e giochi l’Atlantic 10 Conference (massima serie universitaria). In due stagioni mantieni una media di un gol ogni due partite e soprattutto nel campionato 21/22 diventi una pedina fondamentale dell’attacco vincendo due volte il premio miglior giocatore offensivo della settimana. Hai avuto la possibilità di andare in qualche squadra professionistica americana?

L’anno al Massachusetts, arrivato dopo il covid, è stato un anno speciale. Sono stato due stagioni lì, dove sono potuto crescere sia a livello umano che sportivo, grazie a Fran O’Leary, un mister a me caro. Ho avuto la fortuna di poter stare in un ambiente molto professionale con strutture di Serie A e una scuola molto diversa da Merrimack (da 5000 a 50000 studenti). Quell’anno siamo andati al torneo NCAA ed è stata una bellissima stagione, durante la quale mi sono fatto notare.

Successivamente ho svolto la pre-season a Tucson in Arizona, ma non è andata come speravo. Me ne vado dagli Stati Uniti con l’amaro in bocca, qualche gol in più mi avrebbe fatto comodo per potermi giocare le mie carte al draft, ma ho dovuto cambiare le prospettive. L’importante è guardare avanti, senza rimpianti.

Nel 2026 i prossimi mondiali verranno giocati in USA, Canada e Messico. Come si sta preparando il Paese a questo evento, seppur non nuovo a queste latitudini?

Penso che gli Stati Uniti, dopo questo mondiale e con lo sviluppo che stanno avendo, diventeranno una grande meta per moltissimi calciatori. Parliamo di un mercato che sta finalmente esplodendo e sono convinto che da qui a cinque anni il calcio prenderà una piega ancora più importante all’interno della società americana. Non mancano le risorse e non smettono di crescere e aggiornarsi. Non nego il mio desiderio di tornare lì e vivere da vicino questo cambiamento.

L’8 Marzo del 2022 torni in Europa al Lulea (Svezia). Cosa ti ha fatto prendere questa decisione ? Com’è giocare in una delle squadre più a nord d’Europa?

Dopo la parentesi americana ero di fronti ad una decisione: giocare a non alti livelli negli Stati Uniti o mettermi in gioco in Europa. A 23 anni ho deciso di andare in Svezia a giocarmi le carte.

Anche con il Lulea ti dimostri un attaccante col fiuto del gol (21 partite, 16 gol e 5 assist): grazie alle tue reti per la prima volta nella storia la squadra svedese passa al girone della Coppa di Svezia contro Malmoe e Degerfors. Che differenze hai trovato tra il giocare negli USA e in Svezia?

La Svezia è una porta che si è aperta grazie a un amico che gioca nella Serie A canadese, ma che prima ha giocato in Svezia e Finlandia. È stato lui ha consigliarmi questo trasferimento perché riteneva potesse fare servire da trampolino.
Sono andato in Lapponia perché da esperienze come questa si può solo imparare. Una stagione soddisfacente con 16 gol e 5 assist. Al netto del freddo terribile, mi sono trovato bene. Sono riuscito a segnare in entrambe le sfide di coppa che ci hanno permesso di passare alla fase a gironi. Peccato che alla fine non è arrivata la promozione e anche a causa del clima societario, che non è stato dei migliori, ho deciso di lasciare e venire in Finlandia.

Osservandoti (alto 1,96) nessuno direbbe che sei un attaccante dal gran destro (bellissimo il pallonetto da poco oltre il centrocampo contro l’Umea) e dotato di un buon dribbling. Dove pensi di poter migliorare? E giocare un calcio differente in Svezia e Stati Uniti credi che ti sia aiutato a crescere?

È vero. A vedermi chiunque penserebbe a un attaccante d’area di rigore. Invece, nascendo centrocampista e avendo fatto anche l’esterno sono un giocatore a cui piace molto svariare su tutto il fronte dell’attacco. La corsa è stato uno dei miei punti di forza e le doti tecniche me le porto dietro da quando non giocavo da numero 9. Questo destabilizza i difensori avversari.

Ho ancora margini di miglioramento. I movimenti come attaccante centrale, sui calci piazzati, l’inserimento negli schemi, un punto su cui ogni allenatore insiste molto. C’è sempre da adattarsi e dopo aver giocato in Italia, Stati Uniti e Svezia penso che ogni esperienza mi sia servita per imparare.

Hai esordito da poco con il Kapylan (Helsinky). Com’è andata?

Sì, abbiamo già giocato due partite e siamo terzi in classifica con 4 punti (anche se è troppo presto per parlare). Un ambiente molto competitivo dove c’è da combattere per trovare spazio. Però credo ci saranno buone opportunità. Sarà fondamentale fare una buona stagione, perché molti giocatori arrivano da questo campionato negli Stati Uniti.

Durante quest’anno sei riuscito a visitare un po’ della penisola scandinava? Quale posto più di tutti ti ha sorpreso o ti è piaciuto? Ci consigli un piatto tipico della zona?

In Svezia ho visitato Stoccolma, che mi ha veramente impressionato. La città era vuota e io e la mia ragazza l’abbiamo potuta girare tutta in monopattino. Nel nord con le trasferte giravi un po’ per tutto il paese e ho giocato a Kiruna (la città più a nord della Svezia). Il piatto tipico della zona è l’aringa svedese, non consiglio di cucinarlo in casa perché emana un odore davvero troppo forte. Si potrebbe andare su un classico salmone, lì non sbagli mai!

Il futuro è tutto dalla parte di Filippo. Un calciatore che sta accumulando un’esperienza internazionale variegata, ma che potrà rivelarsi vincente a livello professionistico. La redazione di F&L ci tiene a ringraziarlo ancora una volta per il tempo dedicato, augurandogli le migliori fortune.

 

Testo di Philip Supertramp, redattore per F&L e autore della pagina Facebook Il Signore della Liga

Immagine di copertina tratta da Sortitoutsi: Filippo Begliardi Ghidini ai tempi del Lulea