Napoli, la squadra del Quartiere
Maggio 20, 2023La strada che da Via Tiberio, dove abbiamo lasciato l’auto, porta allo stadio Maradona, fu – per molti ancora è – San Paolo, nel quartiere di Fuorigrotta, è lastricata d’azzurro. I balconi, come 33 e 36 anni prima, sono ricolmi di bandiere e simboli che richiamano la squadra. Il Napoli, pochi giorni prima, in casa dell’Udinese, grazie ad un punticino strappato con i denti e con il gol del capocannoniere Osimhen, ha vinto il suo terzo Scudetto. Contro la Viola, sarà grande festa. I biglietti li avevo presi per me, mio fratello – colui che mi ha iniziato al tifo quand’ero in fasce – e per i suoi figli.
Per la piccola sarebbe stata la prima volta allo stadio. Il più grande aveva esordito il giorno dell’addio di Marek Hamsik. Per mio figlio, invece, il clima sarebbe stato troppo pesante: l’avevo portato a settembre, contro lo Spezia. Una partitaccia, risolta da Jack Raspadori, per fortuna. Un ricordo, per lui, da conservare nel nostro tempio, nella stagione dello Scudetto. Alla voce “chi l’avrebbe mai detto?” beh, avevo un presentimento. Volevo che lui potesse avere l’occasione che a me non era stata concessa durante i primi due Scudetti, quando lo stadio si presentava come luogo inospitale per bimbi al di sotto di una certa età. Forse, un giorno, capirà il privilegio che ha avuto. O, probabilmente, del calcio, di questa Fede, di questa malattia, non se ne farà nulla. Non so onestamente cosa augurargli, vista la sofferenza patita in tutti questi anni dal padre.
La squadra del Quartiere
Il 28 novembre 1993 era una domenica fresca, non eccessivamente umida. Il Napoli allenato da Marcello Lippi, privo del portiere titolare Taglialatela, il mio primo idolo – al suo posto l’eterno secondo Raffaele Di Fusco – giocava contro la Reggiana al San Paolo. Mi stavo abituando ad ascoltare le partite alla radio e, quando mio fratello, abbonato, non andava in trasferta, potevo giocare con lui, col pallone di spugna, nel soggiorno, nella casa che avevamo in affitto nel Parco Bausano, via Caravaglios 36, quartiere Fuorigrotta. Ma quel giorno il Napoli giocava in casa, ed ero particolarmente impaziente.
Papà, a cui del calcio non interessava pressoché nulla, dovette cedere alle mie insostenibili rimostranze. Dopo pranzo e un paio di bicchieri di rosso domenicale, voleva solo starsene per conto suo, dormire un po’, recuperare dall’estenuante settimana di lavoro al maledetto Italsider di Bagnoli. Ma la mia insistenza nel raggiungere mio fratello allo stadio – non c’erano cellulari, ovviamente, come l’avremmo trovato? – ebbe il sopravvento. “Vieni con me, prendo un caffè al Gazebo e, quando apriranno i cancelli, a venti minuti dalla fine, entreremo allo stadio, Curva B”.
Non stavo più nella pelle. Attesi la fine del primo tempo, il Napoli sembrava veleggiare verso una facile vittoria casalinga, poi uscimmo. Quindici minuti a piedi oggi parrebbero una passeggiata di salute, ma ricordo ancora quella sensazione di ansia e di impazienza, e quel tratto da casa fino allo stadio sembrava non finire mai. Incontravo gli amici, li salutavo, ma non volevo fermarmi con loro a giocare. Dovevo andare al San Paolo, non avevo altro in testa che il Napoli.
Entrammo, i nostri erano in vantaggio per due a zero: appena dentro, un altro gol. Poco dopo, altri due. Daniel Fonseca realizzò una tripletta, mentre il gol di Renato Buso mise il definitivo punto esclamativo sul pokerissimo di quella squadra operaia, umile, compatta. Bellissima. Mio fratello l’avremmo ritrovato solo a casa. Ma quello fu il giorno in cui l’innamoramento personale che avevo per il calcio Napoli, divenne irresistibile. Ero entrato allo stadio, avevo assistito a quell’euforia collettiva, travolgente, dei gol.
Non avrei più potuto farne a meno. Non potevo resistere alla nevrosi pre-partita. Non potevo più evitare di tirare papà per la giacca da camera, per costringerlo a portarmi allo stadio o, quantomeno, fuori le mura del San Paolo. Dovevo cantare quei cori, respirare quei fumogeni scoppia-polmoni. Avevo raggiunto la mistica della Fede, per la squadra del mio quartiere. Fuorigrotta per me era Napoli ed era il Napoli. Tutti gli altri quartieri della città, nella testa di una bambino, erano lontani, erano un treno della ferrovia Cumana da prendere o una vecchia auto grigia di papà, una Renault 11, sulla quale lasciarsi trasportare.
Chiudemmo la stagione al sesto posto, in zona UEFA, grazie a una dolce rete di rapina di Paolino Di Canio a Foggia, ma quanti ricordi fantastici. In tanti ripenseranno proprio a Di Canio che fa ammattire la difesa del Milan poco prima che la squadra di Capello potesse conquistare la Coppa Campioni contro il Barcellona di Crujiff. Ma ce ne sono stati altri. La prima stagione – seppur incompleta – allo stadio, non si scorda mai.
Napoli: nettamente Fede
Nell’aula multimediale di Palazzo Giusso, Università l’Orientale di Napoli, colei che sarebbe diventata mia moglie, distrattamente, si imbatte in un sondaggio: “cos’è il Napoli per te”. Passione, amore, fede. Mi guarda, sorride perché non le lascio concludere la lettura delle opzioni, “nettamente Fede!” esclamo sicuro.
Come spiegarle quella fede incrollabile. Quella sofferenza, identica nelle vittorie e nelle sconfitte, a quel tempo certamente molto più numerose. Ci siamo conosciuti che il Napoli era in C. C come “ci rendiamo conto di che fine di merda abbiamo fatto?”
Eppure, sarebbe stata quella la nostra salvezza. Un presidente con atteggiamenti particolarmente irritanti, ma talmente presuntuoso e sicuro di sé, da credere più di chiunque nelle sue capacità, nei suoi meriti e nel saper riconoscere quei meriti e quelle capacità negli altri. Aurelio De Laurentiis avrebbe portato il Napoli dalla C all’Europa, a giocare la Champions – corsi da Roma per vedere l’esordio contro il Villareal in coppa allo stadio – fino a raggiungere lo Scudetto. C’era riuscito il Cagliari di Gigi Riva nel 1969-70, a vincere lo Scudetto quando solo nel 1961-62 era ancora in C. Ma con presidenti diversi avvicendatisi in quello spazio di otto anni. De Laurentiis sarebbe diventato il primo Presidente a completare tutto il percorso, senza mai mollare di un centimetro la proprietà e la poltrona del suo gruppo imprenditoriale.
Finalmente, anche gli A16, anche i più scettici (eccomi) avrebbero dovuto ricredersi: il Napoli era di nuovo campione d’Italia.
Vincere è come morire
Quando scoppiò la pandemia, a marzo 2020, continuai a recarmi a lavoro per un certo periodo di tempo. L’albergo era chiuso al pubblico, ma ero comunque in turno per l’ordinaria amministrazione. Con l’auto percorrevo l’autostrada da Scafati a Napoli, mentre ad accompagnarmi lungo il solito percorso notavo quasi esclusivamente carri funebri, presagio funesto di ciò che stavamo vivendo e che, di lì a poco, avrebbe cambiato per anni le vite di tutti.
Fu in quel lasso di tempo, solo nel mio abitacolo in una Napoli senza traffico per la prima volta nella storia, che cominciai a pensare alla morte più intensamente, con maggiore frequenza.
Pensavo all’uomo che mi aveva accompagnato allo stadio quel giorno di novembre. A quando avrei potuto rivederlo. Mi giravo e rigiravo verso il sedile accanto, vuoto, per parlargli. Fu allora che cominciai a lasciar scorrere le lacrime sul volto, senza più trattenerle. Quelle stesse lacrime che, come l’acqua che scava la roccia, avrebbero solcato gli zigomi ispidi della mia faccia. I capelli scuri di un tempo lasciavano sempre più spazio al grigio, e la barba riprese a crescere con un bianco, qua e là, sempre più presente.
Ancora marzo, tre anni più tardi. La pandemia sembra alle spalle, con papà parlo ancora ma posso solo sognarlo, forse un giorno, alla fine dei tempi, ci rivedremo. L’attesa dello Scudetto è diventata qualcosa di altamente stressante, perché il Napoli, come dimostrerà poco dopo, non ne ha più.
Ma il vantaggio è incolmabile e le inseguitrici stentano. Sono in auto, sto andando in albergo, la città è già vestita a festa. Penso a come sarà. So che non mi cambierà la vita, ma cambierà la mia percezione delle cose, guarderò a questi anni da una prospettiva diversa. Tornano a scorrere le lacrime, sono solo nella mia auto, lascio ancora che solchino il mio viso, sempre più stanco.
Vincere è un po’ come morire. C’è un prima e un dopo. Il prima non è garantito. Il dopo è sconosciuto. La sensazione è così forte che è superata solo dalla sofferenza dell’attesa. Si dice che davanti alla morte l’attività cerebrale diventi per un istante più forte che mai. Ti passa tutta la vita davanti. Il corpo reagisce d’istinto ritrovando in un nanosecondo tutta la sua forza, prima di lasciarla andare per sempre, senza ritorno.
Al fischio finale di Udinese-Napoli, ho sentito un distacco dell’anima, quasi come se avessi perso 21 grammi. E adesso?
Resurrezione Napoli: 30 anni di sofferenze per un momento così
L’album di Kendrick Lamar continua a suonare in auto. “Poetic Justice” in sottofondo mentre torno a casa dopo aver “vinto” lo Scudetto a lavoro, in albergo, con una sciarpa intorno al collo. Sempre la stessa da 30 anni. Trent’anni di sofferenze per un momento così. “If I told you that a flower bloomed in a dark room would you trust it”, rappa Lamar.
Ho i biglietti per la partita con la Fiorentina pochi giorni più tardi. Ve l’ho detto, no? Il cerchio si chiude, anche perché con la Fiorentina avevamo lasciato per strada due campionati negli ultimi cinque anni.
I miei nipoti li tengo per mano. Napoli è in festa, man mano che ci avviciniamo allo stadio, l’atmosfera cambia ancora.
Non è reale. Stringo le mani dei piccoli mentre la mia faccia inebetita cerca di trattenere le emozioni, per rendermi conto che non sono in un sogno, che non è un film. Attaversiamo il marciapiede de La Focaccia, dove sono cresciuto mangiando pizze in compagnia dei miei migliori amici. Arriviamo nei pressi de ‘O Murzillo mentre, in strada, è pieno di fumogeni azzurri, tifosi che cantano come fossero già dentro lo stadio. Gruppi più o meno numerosi che intonano cori, urlano di gioia, in un’euforia collettiva che mi riporta alla mente quella prima volta allo stadio, quei gol di Fonseca e Buso. Quel rumore assordante e meraviglioso che mi fece innamorare prima del Napoli e poi del calcio.
Ricordate quei bambini, quegli amici che evitai nel tragitto verso lo stadio 30 anni prima, perché avevo in testa solo di entrare al San Paolo? Erano lì, erano diventati grandi anche loro. Allora è tutto vero. Ci salutiamo tutti, loro sembrano più matti di me. Qualcuno piange, alcuni hanno i capelli azzurri. Non smettono di cantare. I miei nipoti mi guardano, “zio, ma conosci tutti?” Sì, amori miei.
Perché questa non è solo una squadra di calcio. Questo è il Napoli, la squadra del quartiere.
Nell’immagine di copertina, il Napoli versione 1993-94, foto tratta da Wikipedia.
La foto e il video all’interno dell’articolo (eccetto quello tratto da Napoli tube su YouTube) sono dell’autore.