
Laura Neboli: il mio calcio e la mia vita fra Italia e Germania
Giugno 6, 2023L’1 Luglio del 2022, finalmente il calcio femminile italiano è stato riconosciuto come uno sport professionistico. Grazie a un contratto, con uno stipendio minimo fisso, contributi previdenziali e tutele mediche nel caso di infortuni o maternità, le calciatrici hanno avuto la possibilità di concentrarsi sulla pratica sportiva.
Laura Neboli ha fatto da ponte tra passato e futuro, prima come calciatrice della Serie A e della nazionale, e adesso come allenatrice in Germania.
Noi siamo orgogliosi di averla potuta intervistare e la ringraziamo per questa chiacchierata piena di spunti su cui riflettere.
Laura, nel 2003 inizi a giocare nel Bardolino e a 17 anni vinci lo scudetto 2004-05. Che difficoltà hai avuto, da bambina, ad approcciarti ad uno sport che l’opinione pubblica fatica tutt’oggi a riconoscere nella sua componente femminile?
Ho giocato con i maschi fino ai 14 anni e non ho mai avuto nessun problema con i miei compagni di squadra. Solamente al primo allenamento i ragazzi mi hanno chiesto se avrei potuto giocare con loro, dato che ero una femmina.
Già al secondo allenamento le cose erano cambiate. Mi hanno sempre trattato bene, mi hanno difeso nel caso ci fosse stato qualcuno dell’altra squadra che diceva qualcosa di troppo. Ricordo che una volta un allenatore avversario durante la partita gridò a un suo giocatore “com’è che ti fai marcare da una femmina”. Però alla fine rispondevo sempre sul campo.
Una delle difficoltà maggiori che ho avuto è stata a scuola con i professori.
Alle superiori non capivano perché io andassi in giro ogni settimana per giocare a calcio, non guadagnando niente. Non essendo per loro uno sport importante, spesso mi hanno messo in difficoltà con le verifiche e con voti. Mi ricordo che all’esame di maturità anche lì mi presero in giro dicendomi “ora che puoi pensare solo al calcio puoi imparare rete e gol in tutte le lingue”.
Raccontaci com’è nata la tua passione per il calcio. Sentivi il sostegno della famiglia e degli amici agli inizi?
La mia passione è nata in casa perché mio papà è allenatore. Mio fratello maggiore giocava a calcio e mio cugino, che ha la mia stessa età, era innamorato del pallone. A 6 anni andai a fare ginnastica artistica, ma dopo un anno compresi che non era lo sport più adatto a me. I miei genitori mi chiesero cosa volessi fare e risposi subito “voglio giocare a calcio”. Così iniziai nella squadra dove allenava mio papà, lì ci giocavano tutti gli amici con cui andavo a scuola o all’oratorio.
Il 5 Marzo del 2008 esordisci con la nazionale ad Alvor contro la Norvegia. Fai parte del gruppo che va agli Europei del 2009 di Svezia e del 2013 di Finlandia, dove in entrambi i casi siete arrivati fino ai quarti. Com’è vestire la maglia azzurra?
Un’emozione indescrivibile. Ero proprio felice di avere la possibilità di giocare con la maglia dell’Italia e di rappresentarla. Abbiamo sempre cercato di dare il massimo e di fare di tutto per cercare di vincere o comunque per dimostrare che l’orgoglio che si provava a giocare per la nazionale.
La prima volta che sono entrata in campo ero agitatissima e ho cantato l’inno a squarciagola, non si può descrivere a parole.
Nel 2011 ti trasferisci in Germania al Duisburg. Un grande traguardo visto che in quel momento la Bundesliga era un campionato professionistico, a differenza della Serie A. In Italia finalmente l’1 Luglio del 2022 è stato fatto il grande passo per il calcio femminile, finalmente riconosciuto a livello professionistico. Che effetti di lungo termine prevedi? Una maggiore partecipazione oppure un riconoscimento mediatico diverso?
Spero che tutti i sacrifici che abbiamo fatto io e le mie compagne vengano adesso riconosciuti e spero che tutte le ragazze che vogliono giocare a calcio ne abbiano veramente la possibilità. Giocare a livello professionistico significa che non bisogna andare a lavoro per otto ore e, solo dopo, pensare ad allenarsi. Spero che l’infrastrutture migliorino e che quelle maschili vengano messe a disposizione anche per il femminile.
Bisogna fare sì che aumenti l’interesse e che ci siano anche molto più sponsor per le ragazze. Potrebbero entrare nel circuito pubblicitario, venire assunte come testimonial, essere un esempio che conti a livello mediatico. Penso che si dovrebbero fare vedere più partite o che magari più ragazze vengano chiamate per commentare le partite degli uomini. Ritengo che l’importante sia che le ragazze inizino ad avere le stesse possibilità dei ragazzi. In questo caso il movimento femminile si può sviluppare e l’Italia può diventare veramente una nazione che conta a livello internazionale.
Oggi, le bambine che decidono di giocare a calcio, vengono prese sempre più sul serio. Il calcio non è più uno sport per soli maschi. Col tempo, continuando così, avremo la possibilità di avere molte più tesserate e, se il movimento cresce, sicuramente verrà fatto un passo avanti anche a livello qualitativo.
Dopo vari infortuni ai legamenti della caviglia, decidi di appendere le scarpe al chiodo e inizi ad allenare la seconda squadra dell’Essen. Nel Maggio del 2020 diventi l’allenatrice del FC Recklinghausen. Che differenza hai trovato tra il campo e la panchina? Che tipo di allenatore sei?
La differenza è abissale tra giocare e stare solo in panchina, perché se sei in campo, puoi decidere cosa fare del pallone e i tuoi compagni sono lì a qualche metro. Come allenatore cerchi di dare degli impulsi e cerchi di aiutarli ad esprimersi al massimo. Però non è semplice, perché non sei tu che decidi la giocata. Diciamo che mi preferivo essere giocatrice, però, a causa degli infortuni, ho trovato una nuova vita e una nuova carriera come allenatore. Comunque si tratta di un modo speciale di approcciarsi a questo sport, e penso che attraverso la mia esperienza posso aiutare delle ragazzine giovani a migliorarsi e ad arrivare ad alti livelli.
Dalle mie giocatrici mi aspetto molto, che facciano di più autonomamente e, soprattutto, dove che insistano nel migliorare i punti deboli. Magari, dopo l’allenamento, restando sul campo un’oretta in più. Allo stesso tempo sono un tipo di allenatrice sempre disponibile per le mie ragazze. Prediligo un calcio veloce, verticale e aggressivo.
Pochi giorni fa il Fortuna Dusseldorf Frauen ha annunciato che il prossimo anno allenerai l’U17. Sei pronta per questa nuova esperienza? Che differenze vedi tra il settore giovanile femminile italiano e tedesco?
Sono pronta ed entusiasta per questa nuova esperienza. Ho già avuto modo di conoscere il centro con le sue infrastrutture e il personale. La differenza tra i due settori è difficile da esprimere, perché conosco l’Italia giovanile di tanti anni fa. Da quello che ho sentito e ho visto mi sembra che si stia sviluppando bene. In Italia si lavora molto di più sulla tattica, invece qui in Germania si lavora specialmente sulla tecnica individuale delle giocatrici.
Sono passati 20 anni dal tuo approdo nel calcio femminile. Hai notato in questi anni qualche cambiamento a livello mediatico e di opinione pubblica?
Sì, da quando ho iniziato a giocare ad adesso c’è stata a un’evoluzione molto positiva. Dopo gli ultimi Europei chiunque conosce la nazionale femminile. Vedo che su Sky danno le notizie della Champions League e questo fa sì che si conoscano le giocatrici più forti a livello internazionale. Anche sui giornali ci sono molte informazioni sul calcio femminile. Im ogni caso, questo è solamente il primo passo: c’è ancora molta strada da fare.

Laura Neboli ai tempi del Duisburg (foto tratta da Wikipedia)
Sei stata una delle prime italiane ad andare a giocare all’estero. Tornassi indietro faresti la solita scelta? È un’esperienza che consiglieresti ad una giovane calciatrice?
Riguardo la Germania, sono convintissima che sia stata la scelta giusta da fare e la consiglio a qualsiasi giocatrice. Volevo capire se ero abbastanza brava per giocare nel campionato che allora era il più difficile d’Europa. Penso sia importante fare un esperienza all’estero perché si può conoscere un’altra cultura, un’altra mentalità. Questo aiuta a maturare più in fretta sia come persona che come calciatrice.
Roma-Barcellona ha riempito l’Olimpico. In Spagna non sarebbe stata una novità vedere un grande stadio pieno per una partita di calcio femminile. Da noi fa notizia: cos’altro possiamo fare per ribaltare l’idea del calcio femminile come di un qualcosa di nicchia?
Sono convinta che non sarà l’unica partita con lo stadio pieno. Il livello del calcio femminile italiano si sta elevando e si vede, perché ultimamente le squadre italiane che giocano la Champions League stanno facendo una bella figura. Anche in campionato, se si guardano partite delle prime quattro squadre, si può vedere veramente un bel calcio con partite molto intense e con calciatrici preparare tecnicamente e tatticamente.
Il calcio femminile piace perché è ancora un calcio sano e puro. Si nota veramente la passione per il calcio e questo, secondo me, è ciò che piace agli spettatori.
Gaucci tentò di sfruttare l’immagine della Morace per attirare l’attenzione sulla Viterbese, in un’epoca che ormai sembra lontana decenni. Nella NBA, il leggendario coach degli Spurs Greg Popovich ha sponsorizzato Becky Hammon, al tempo sua assistente, come possibile prima donna ad allenare una franchigia maschile. Per adesso non se n’è fatto ancora nulla. Credi che un traguardo del genere nel calcio italiano sia utopia? O è qualcosa a cui arriveremo presto o tardi?
Penso che ci sarà da aspettare ancora un po’ e difficilmente potrà succedere nei prossimi due o tre anni. Perché succeda c’è bisogno che il calcio femminile cresca a livello mediatico così da avere più tesserate. Il problema adesso è che ci sono poche allenatrici e quelle che ci sono rimangono nel mondo femminile.
Quando ci saranno più allenatrici sarà anche più semplice per una donna entrare nel calcio maschile, perché comunque ci sono professioniste competenti. In fin dei conti non c’è nessuna differenza a livello di know how. Sul piano del rispetto penso che ci sarà bisogno che cambi un po’ la mentalità; è necessario che la gente possa pensare che anche le donne giocano a calcio e che anche le donne sanno di calcio. Solo così si può arrivare al fatto che delle allenatrici donne possono allenare squadre maschili. Non sarà una cosa veloce, ma comunque non è più utopia.
Alla luce di alcune recenti vicissitudini, ritieni che il calcio femminile possa essere un banco di prova fondamentale per questioni complesse che riguardano i diritti delle donne nel mondo del lavoro in senso generale?
Già la nostra generazione si è accorta che qualcosa doveva cambiare, e che non siamo più 50 anni fa. Il mondo è cambiato, la vita è cambiata, adesso in tutti gli ambiti il ruolo della donna è stato rivisto e valorizzato. Ambiti sociali che prima si pensava fossero appannaggio di soli uomini, adesso vedono protagoniste anche le donne.
Allo stesso tempo, nel lavoro, non sono più solo le donne che vogliono fare il part-time per stare con i figli, ma anche gli uomini. La nostra generazione è diversa, ci sono molti più lavori, non sono tutti fisici dove gli uomini sono avvantaggiati. Oggi ci sono delle donne che si stanno imponendo in tutti i reparti e finalmente si è compresa l’importanza che ha la donna nella nostra società.
Pensi in un futuro di poter tornare in Italia?
Diciamo di sì, perché non avrei mai pensato di restare qui in Germania tanto tempo, al massimo due o tre anni. Invece mi sono fermata più a lungo e al momento penso che la mia vita nei prossimi anni sarà qui in Germania. Più avanti non si sa, l’Italia è il mio Paese. Sono italiana, ho la famiglia italiana e sono nata e cresciuta in Italia. Vediamo cosa la vita mi riserverà per il futuro. Non escluso nulla.
La redazione di Football&Life ringrazia Laura Neboli per il tempo che ha dedicato a noi e ai nostri lettori. Laura è un esempio per tante giovani calciatrici, e siamo certi che la sua esperienza e la sua professionalità la porteranno ad imporsi a livelli sempre più alti.
Testo di Philip Supertramp, redattore per F&L e autore della pagina Facebook Il Signore della Liga.
Immagine di copertina tratta Fussball.de