Roberto Filippi: l’uomo mercato di un calcio di valori
Luglio 15, 2023Milioni come bruscolini. Non Bruscolotti. Un misero milione di oggi dovrebbe equivalere ai due miliardi di vecchie lire con cui fu acquistato Beppe Savoldi nell’estate del 1975 quando il Napoli lo prelevò dal Bologna. Come ricorderete, alla società felsinea furono versati solo 1.400.000.000 perché Clerici e Rampanti, la contropartita, furono valutati 600 milioni di lire. Quindi ci siamo chiesti e ci chiediamo quale giocatore nel calcio di oggi vale un milione. Risposta? Nessuno. Almeno in serie A. Perché nel caso esistano trattative tra squadre ‘minori’ o di terza fascia (si pensi a chi si è salvato all’ultima giornata o a chi ha sempre navigato negli ultimi posti) la base di partenza è sistematicamente oltre il milione di euro. Anche per chi ha solo fatto qualche presenza in serie A.
Ed allora, cosa è cambiato in mezzo secolo? Perché si gridò allo scandalo quando il Napoli acquistò il capocannoniere della serie A? Quanto costerebbe oggi il miglior marcatore della Serie A? Facciamo un gioco. Se la Juventus pagò Higuain 90 milioni e De Laurentiis valuta Osimhen almeno 150, che media viene fuori? Facile, 120 milioni. Ecco, oggi si potrebbe pagare Savoldi questa cifra senza che nessuno dica sia un’indecenza? Probabilmente sì.
Valutazioni e ipervalutazioni del mercato
Ovvio che il mondo del calcio sia cambiato radicalmente ed oggi le valutazioni dei calciatori siano diventate come Bertolini, una famosa marca di lievito. Al di là di ogni analisi sociologica che non faremo in questa sede, ci preme sottolineare come il magico fenomeno della ‘lievitazione’ riguarda tutti, dai talenti in erba fino ad arrivare ai vecchi filibustieri del pallone, quelli in odore degli ultimi spiccioli di carriera. In base a quale logica le cifre (cartellino ed ingaggio) di un giocatore che l’anno scorso costava 10 milioni oggi arrivano a 20 e li superano abbondantemente?
Per quale motivo quando inizia una trattativa il giocatore costa 12 e poi arriva a 25 (forse per una presunta concorrenza o rilancio di altre squadre?)? Perché quando il Napoli, una società economicamente messa bene, si interessa ad un giocatore che ha fatto un torneo in Turchia o Danimarca la cifra cresce come un plum cake nel forno?
Come mai l’Empoli o il Sassuolo, che avrebbero questi grandi talenti fatti in casa, iniziano a ‘sparare’ 50 milioni prima di sedersi a tavolino per aprire una trattativa? Questo pazzo mercato è distante anni luce da quello che si impostava e si tentava di portare a termine qualche lustro fa. Comandano gli arabi, comandano gli sceicchi, comandano i magnati russi, americani e cinesi. Magnati non magliari.
“Il colore dei soldi” e “Lo spaccone”, non sono film poi così distanti, vero? E questo spiega anche perché sta diventando regola, piuttosto che eccezione, l’emigrazione di giocatori al di sotto dei 30 anni (il caso di Milinkovic Savic è eclatante al proposito) verso Paesi che vogliono far crescere il calcio portando top player in campionati anonimi. Una volta si andava a ‘svernare’. A chiudere la carriera cercando di acchiappare ancora qualche contratto miliardario (in questo, forse, Messi rappresenta il ‘vecchio sistema’). Oggi no. Hai ancora sette/otto anni di carriera da fare? Bene, ci pensano gli arabi, “pagare moneta vedere cammello”. Manco Totò le Mokò nel deserto.
Una sola considerazione ci viene in mente se pensiamo alla logica di chi andava ad acquistare gli elementi per fare una buona squadra nel secolo scorso: la continuità di rendimento, la sicurezza di prendere un giocatore che poteva sbagliare tre partite ma che, nell’arco di un campionato, faceva sentire la sua presenza, la sua anima e diventava cuore pulsante, elemento affidabile su cui scommettere ad occhi chiusi.
Quanto varrebbe oggi Roberto Filippi?
Che facesse gol o parava, che portasse “fieno” a centrocampo o che fosse un mastino sul centravanti avversario, non importava. Doveva essere un giocatore che, in definitiva, aveva mostrato il suo valore nell’arco di due, tre campionati, non di 20 partite come accade oggi. Al di là di un viaggio nel tempo dove potremmo individuare vari giocatori che, per rendimento, sono stati protagonisti nel Napoli, in questa sede ci soffermiamo su un atleta che per tre anni consecutivi vinse, con la media conquistata con le famigerate pagelle, il titolo di ‘miglior giocatore italiano’. Questo omino, perché tale è rimasto anche dopo una sfortunata parentesi di allenatore, si chiama Roberto Filippi. E qui, signori, ne andiamo a narrare le gesta senza prima chiedervi: quanto costerebbe il suo cartellino oggi?
Piccolo era piccolo, 169 cm. di corsa sfrenata. Ma fu anche peso piuma. La bilancia sfiorava solo i 60 kg ma la forza della natura si era impadronita di quel corpicino/fisico mingherlino e, a modo suo, ben proporzionato. In quegli anni non ci fu bisogno di scomodare Gianni Brera per coniargli un nomignolo perché bastava guardarlo per chiamarlo con un nome che facesse simpatia. Da allora in poi fu “Furia” e, successivamente, “Pony Express” per la sua lunga chioma al vento e la corsa continua.
Roberto Filippi, patavino doc, classe 1948, reggente e furente centrocampista di un Napoli a cavallo tra il 1978 e il 1980, fece due stagioni che non gli valsero la riconferma per i soliti ribaltoni societari e tecnici di cui soffriva la società in quegli anni. Una permanenza che non fu lunga dopo qualche panchina con Vinicio ed una strana dichiarazione che suonava più o meno così: “qui a Napoli l’aria è diversa, c’è qualche giornata fredda ma poi vien il sole e tutto si riscalda. Nel freddo, però, si corre meglio…”.
La sua carriera ha dell’anomalo perché dopo un periodo di anonimato tra serie C, B ed A (solo tre presenze col Bologna nel 1972) scoppia letteralmente col Vicenza nel biennio 1976-78. È la squadra del futuro ‘Pablito’ Rossi ma anche del mago di provincia G.B. Fabbri, è un gruppo di calciatori che ancora oggi viene ricordato come Real Vicenza perché fece miracoli piazzandosi alle spalle della Juventus campione d’Italia. Vero fenomeno di calcio autoctono e patriottico. Molti dei gol di Rossi furono ispirati da questo folletto che, per la sua velocità sulle fasce e le sue discese, i cross e le verticalizzazioni, si beccò subito il nickname di “Furia”, una sorta di cavallo del West anzi del Nord-Est.
Fu l’idolo della bolgia del ‘Menti’. Un campo notoriamente ostico anche agli azzurri. E fu soprattutto un giocatore che ogni anno vinceva sistematicamente tutti i premi di rendimento, Guerin d’Oro in primis. Insomma, se avessero inventato il Fantacalcio in quegli anni tutti avremmo fatto a gara per ‘acquistarlo’. Le sue pagelle erano come quelle del figlio studioso ed intelligente. Quello che quando i genitori vanno a scuola per i colloqui, i professori dicono: “E che siete venuti a fare?”. Roberto Filippi era così, quando non era in forma (molto raramente in verità) beccava voti tra il 6,5 ed il 7, quando era in palla (quasi sempre) quei voti magicamente si arrotondavano fino a sovrastare tutti gli altri giocatori in campo.
Il Napoli giovane di Di Marzio, silurato già alla seconda di campionato per fare posto al ritorno di Vinicio in panchina, lo acquista nella prima stagione del dopo Juliano insieme a Castellini, Caporale, Caso, Pellegrini, Tesser e Majo. Il Vicenza sa di avere un giocatore di rendimento elevatissimo e per darlo al Napoli pretende tanti soldi più Mocellin, campioncino in pectore che non sbocciò mai. Ferlaino fa il sacrificio, sborsa oltre un miliardo, Di Marzio lo pretende per un centrocampo tutto nuovo di zecca, da ricostruire dopo l’addio di “Totonno”.
Il “botto” del calciomercato 1978
Filippi fu il ‘botto’ della campagna trasferimenti del 1978 e, come era successo con Savoldi tre anni prima, Ferlaino riuscì a fare abbonamenti con una squadra rinforzata molto sulla carta. Il giorno del raduno il neo acquisto si presentò in sede con un ampio camicione, due collanine hippy che gli circondavano il collo in bella evidenza, jeans e scarpe col tacco. Con capelli lunghi che ricordavano quelli di Giorgio Braglia, baffi e basettoni da moschettiere, fece la stessa impressione che potrebbe fare oggi un giocatore pieno di tatuaggi.
Aveva un’immagine davvero ‘forte’ per quei tempi. Sembrava uno un po’ sui generis, strambo e ‘costretto’ a vivere in albergo perché tutte le case di Posillipo gli sembravano troppo costose. Una volta rispose ad una signora che gli chiese 700.000 lire di affitto : “Non sono venuto a Napoli per lavorare per lei!”. Osannato quasi a prescindere dalla critica, “Furia” correva per 90 minuti, era uomo ovunque, fu fonte inesauribile di gioco. Coraggioso, di grande temperamento, dotato di polmoni d’acciaio che gli consentivano sgroppate e recuperi senza sosta, Di Marzio lo impostò col numero 8 ma con Vinicio prese stabilmente l’11 (lo stesso che aveva a Vicenza in un quintetto famoso: Cerilli, Faloppa, Rossi, Salvi e Filippi) e diventò giocatore universale.
In campo si trasformava e la sua proverbiale timidezza di padovano catapultato in una realtà come quella di Napoli la mutava mettendo in azione le piccole leve delle sue gambe di brevilineo. E’ come se, attraverso la sua corsa disperata, volesse emergere in uno sport per il quale non aveva proprio il fisico dell’atleta. Filippi sapeva, comunque, anche giocare e non solo correre. Usava i due piedi con disinvoltura e pur correndo come un folle raramente sbagliava un passaggio. Fece un primo anno fantastico, ai suoi soliti livelli, dimostrando di essere uno dei perni degli azzurri.
Nella seconda stagione col Napoli, purtroppo, chiese di essere ceduto dopo qualche mugugno ed entrò in urto con la società. Addirittura venne messo al minimo di stipendio e quando giunse a più miti consigli rientrò in squadra ma non aveva il morale alle stelle. La cessione all’Atalanta diventò quindi inevitabile. Un unico gol nel Napoli, il primo della vittoria esterna per 2 a 1 sul Milan del novembre 1979 con 55 presenze totali. Fu la partita che si recuperò dopo quella famosa sospesa per nebbia. Il nostro ‘trottolino’ ebbe, dunque, bisogno di un extra time per segnare una rete con la maglia azzurra a fronte delle migliaia di chilometri corsi in due anni.
Testo di Davide Morgera. Professore e scrittore, cultore della storia del calcio e del Napoli. Ha pubblicato quattro libri:
Cronache dal secolo scorso: atti unici nella storia del Napoli (con Urbone Publishing).
Azzurro Napoli. Iconografia inedita di una passione infinita.
Volevo essere Sergio Clerici. Memorie e storie di calcio.
Le foto del testo sono tratte dall’archivio personale di Davide Morgera e utilizzate su autorizzazione dell’autore.