Tommaso Maestrelli, buon papà e uomo del destino
Luglio 15, 2023Pensi a Vincenzino D’Amico, scomparso pochi giorni fa, e non puoi non associarlo al suo maestro e mentore riconosciuto. Se il destino avesse un nome, molto probabilmente sarebbe il suo. Perché Tommaso Maestrelli vide la luce ventuno giorni prima della famigerata ‘marcia su Roma’ e proprio alla capitale avrebbe legato, da calciatore prima (paradossalmente con i colori giallorossi) e da allenatore in seguito, il periodo più significativo della sua avventura calcistica. In fondo, Maestrelli l’aveva impressa nel DNA la vocazione di cambiare il corso del destino, da buon figlio di capostazione indirizzò la sua Lazio sul binario della gloria e il calcio italiano verso nuovi lidi.
Di quella Lazio si è detto tutto, che fosse un’accolita di fascisti – vuoi perché avevano come discutibile hobby quello delle armi e del tirassegno, non certo in un poligono, ma soprattutto a Tor di Quinto o in ritiro, vuoi perché alcuni avevano dichiarato apertamente le loro simpatie di destra – o una banda di simpatiche canaglie (giocando sulla facile assonanza fonetica con Chinaglia) o, peggio ancora, di folli.
Avevo appena cinque anni quando i ragazzi terribili di Maestrelli si aggiudicarono il tricolore e la maglia che vestivano, molto simile a quella del mio Napoli, anche se di un azzurro leggermente scolorito, mi faceva particolare simpatia, con lo scudetto cucito sul petto. Era la Lazio dei due clan, uno guidato da Chinaglia e Wilson, l’altro capeggiato da Martini e Re Cecconi, due fazioni a tal punto contrapposte da usare perfino spogliatoi separati e da trasformare le partitelle d’allenamento in regolamenti di conti.
D’altro canto, l’Italia stessa stava entrando a capofitto nel capitolo più buio e doloroso della storia del dopoguerra, quello degli anni di piombo, del terrorismo e dello stragismo di sinistra, di destra ed anche di Stato, con i servizi segreti deviati ed il ’68 che da movimento di protesta era degenerato in lotta armata e, perché non dirlo, in guerra civile. La Lazio dell’epoca era null’altro che lo specchio fedele del proprio tempo.
I meriti di Tommaso Maestrelli
Come fece quell’accozzaglia di individualità litigiose a diventare un gruppo coeso e vittorioso non è un mistero. Vero è che, col malvezzo di prendere in prestito dal mondo cinematografico etichette di facile consumo, si è identificata quella squadra col “mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah o con la “sporca dozzina” di Robert Aldrich. Ma, in realtà, si trattava, molto più semplicemente e realisticamente, di una grande famiglia, magari non una delle più tranquille, ma una famiglia.
E, se tale fu, il merito è proprio di Maestrelli, che a libro paga figurava come allenatore, ma che, a dire il vero, era tanto di più. Innanzitutto, un acuto psicologo, che, pur non avendo mandato a memoria i tomi di Freud e Jung, mise a frutto la sua dote più preziosa, la propria umanità, e capì che la conflittualità non era necessariamente un difetto, ma una risorsa, se solo fosse stata convertita in energia propositiva e creativa, per questo non la combatté, ma la addomesticò, se la fece amica.
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Era uno di quelli che ti guardava negli occhi, il buon Tom, e se qualcosa non girava per il verso giusto non aspettava che gli animi si acquietassero, ma metteva i contendenti l’uno contro l’altro perché si chiarissero subito, magari chiudendoli nello spogliatoio e aprendone la porta solo quando la questione era risolta. Per questo non deve sorprendere se gli stessi giocatori, che tra di loro erano pronti anche a menare le mani, in campo, contro gli avversari, diventavano un tutt’uno.
Un capolavoro psicologico
Il capolavoro di Tom andò in scena il 14 aprile del ’74, alla venticinquesima giornata, quando i biancocelesti, da primi della classe, ospitavano il Verona, invischiato nella lotta per non retrocedere (cosa che, poi, avvenne, anche se per illecito sportivo), e, inopinatamente, avevano chiuso il primo tempo sotto per 1-2. Tutto sembrava congiurare contro i ragazzi terribili di Maestrelli: nonostante un’autorete iniziale del gialloblù Bet, gli scaligeri avevano trovato la via del pari e del vantaggio provvisorio nelle loro due uniche puntate a rete, con un guizzo di Zigoni ed un altro autogol, stavolta dello stopper laziale Oddi.
Ebbene, Maestrelli, da vero conoscitore dell’animo umano, intuisce che l’unica via d’uscita dall’impasse è quella di far restare la sua truppa ad attendere sul campo il rientro dei veronesi dallo spogliatoio, perché nel frattempo fosse scossa dall’incitamento dei tifosi, dapprima increduli di fronte a questa scelta, poi subito pronti a caricare i propri beniamini. Il risultato? Dopo appena quattro minuti della ripresa l’inconfondibile voce arrochita di Sandro Ciotti annuncia il pari siglato da Garlaschelli, preludio del sorpasso, sottoscritto poi da Nanni e da Chinaglia. Non si sbaglia nel ritenere questo il successo decisivo nella volata scudetto, conclusasi con due punti di margine sulla Juventus e con Chinaglia capocannoniere grazie a 24 centri.
Già, Chinaglia. Perché Maestrelli, oltre che allenatore e psicologo, è un padre per i suoi ragazzi, soprattutto per ‘long John’. Che di lì a pochissimo, nel mondiale in terra tedesca, sarebbe stato protagonista di una rovente polemica in nazionale contro il c.t. Ferruccio Valcareggi, reo di aver surrogato la celebre staffetta messicana di quattro anni prima, fra Mazzola e Rivera, con un’altra nuova di conio, riguardante Chinaglia stesso ed Anastasi, che per la cronaca sostituisce ‘Giorgione’ proprio nel corso del match d’esordio contro Haiti, passato alla storia non tanto per la sofferta vittoria azzurra (3-1) quanto per il gesto d’insofferenza rivolto da ‘long John’ verso tutta la panchina al momento dell’avvicendamento proprio con Anastasi.
Per placare l’ira funesta di Chinaglia, novello Achille – peraltro spalleggiato da Juliano, Wilson e Re Cecconi, altri nomi eccellenti esclusi dai titolari da Valcareggi, sospettato di essere fin troppo condizionato da un debito di riconoscenza verso i reduci della precedente spedizione in Messico – la federazione fa volare sul posto proprio Maestrelli, anche se la frittata, ormai, era bella che servita in tavola e l’Italia si avviava fatalmente verso una clamorosa eliminazione. Ciononostante, il ricorso all’intervento pacificatore di ‘papà Tom’ la dice lunga sulle sue doti umane.
Le intuizioni tecniche che plasmano la Lazio dello Scudetto
Diciamolo, se quella Lazio ha vinto lo scudetto lo si deve proprio a Maestrelli, che, eccezion fatta per l’ex romanista Sergio Petrelli, in difesa fa perno sulla lucida regia di Pino Wilson, capitano della squadra, e scommette su elementi tutti pescati in B, come Felice Pulici, onesto mestierante col Novara e, in seguito, affidabile custode dei pali biancocelesti. O come Gigi Martini, ex Livorno trasformato in terzino mancino di spinta, e lo stopper Giancarlo Oddi, prelevato dalla Massese.
Il suo azzardo più grande, però, è Mario Frustalupi, bruciato all’Inter come erede nientemeno che di Luisito Suarez e riabilitato dal tecnico laziale come vera eminenza grigia del suo undici, assecondata dal moto perpetuo di Luciano Re Cecconi, stantuffo inesauribile già allenato dallo stesso Tom al Foggia, e di Franco Nanni, ex attaccante reinventato mediano col vizio del gol. In attacco, poi, giostra Renzo Garlaschelli, pure lui con una gavetta in B al Como prima di fungere da apripista ideale per le mortifere conclusioni dell’ariete per eccellenza, Chinaglia appunto. Senza dimenticare che proprio a Maestrelli si deve l’intuizione di promuovere titolare un ragazzino non ancora diciannovenne ma tutto estro e sfrontatezza, D’Amico come ricordato, al posto del più rodato (ma meno talentuoso) Pierpaolo Manservisi.
Insomma, nessuno se l’abbia a male se si afferma che Maestrelli plasmò dal nulla un autentico miracolo calcistico, assemblando alla perfezione quelli che, ad essere benevoli, fino a quel momento erano stati meri comprimari, se non li si vuol etichettare come seconde scelte o perfino scarti (si pensi ancora a Frustalupi).
La sua Lazio, pur non sposando la zona integrale all’olandese, del nuovo verbo calcistico, però, praticava il dinamismo incessante e le sovrapposizioni continue, esaltando la compatta armoniosità di un collettivo, vero segreto del suo successo, che poteva essere bissato subito, se un tumore al fegato non avesse messo fuorigioco, la stagione seguente, papà Tom, rilevato in corsa dal vice Bob Lovati. Di colpo s’infrange l’incanto di una favola conclusasi fin troppo prematuramente. Per un’atroce beffa del destino il sogno di una nuova primavera vittoriosa svanisce proprio alla venticinquesima giornata, quella che appena un anno prima aveva registrato la riscossa risolutiva contro il Verona.
La tragica e inesorabile fine della favola
Va anche peggio nel torneo ’75-’76, che incorona campione d’Italia il Toro di Gigi Radice. Dopo un inizio con Giulio Corsini in panchina, il club – che nel frattempo ha perso due pedine-chiave come Frustalupi e Oddi in un doppio (e poco redditizio) scambio con il Cesena per Ammoniaci e Brignani – è nuovamente affidato a Maestrelli e si salva solo all’ultimo atto, prevalendo sull’Ascoli grazie ad una migliore differenza reti e nonostante sia orfano di Chinaglia, che accetta la corte del New York Cosmos di Pelé e Beckenbauer ed abbandona la compagnia nel momento più delicato, passando il testimone ad un ragazzo trasteverino di belle speranze, Bruno Giordano, sul quale Maestrelli punta deciso per tentare il tutto per tutto e che negli ultimi tre turni ripaga con altrettante reti la fiducia del suo allenatore.
Per Maestrelli, osannato come uomo della provvidenza, cala il sipario, il 2 dicembre di quello stesso anno il destino, che lo aveva prescelto come artefice del trionfo laziale, se lo porta via. Lo stesso destino che poco più di un mese dopo rapisce senza pietà Re Cecconi, ucciso a colpi d’arma da fuoco da un gioielliere che, secondo la versione accreditata anche nelle aule giudiziarie, interpreta come tentativo di rapina quello che altro non era che uno scherzo, nonostante anni dopo si sia dubitato di questa lettura dei fatti e sia stato adombrato il sospetto che la presunta vittima avesse agito senza che nulla lasciasse paventare una minaccia arrecata dallo stesso Re Cecconi.
Il destino, quindi, ha fatto e disfatto quella leggenda di cui Maestrelli resta, in ogni caso, l’indiscutibile protagonista principale, come allenatore, psicologo, stratega e maestro di umanità. Per questo, quando ricordo ‘papà Tom’ – che, pur non essendo io laziale, ho sempre avuto nel cuore per i suoi capelli brizzolati e lo sguardo assorto, ma sereno, di chi in ogni caso ti rassicura e ti dà coraggio, come il più affettuoso “buon padre di famiglia” – non posso fare a meno di identificarlo con la definizione che, di Napoleone, il Manzoni ci ha regalato nel suo epico “Il 5 maggio”, presentandolo come “uom fatale”, uomo del destino. E, sempre per il destino ineluttabile, e non certo per il caso cieco, oggi Maestrelli riposa al cimitero Flaminio accanto a Chinaglia e Wilson, che di quella Lazio rappresentarono e rappresentano tuttora la ‘trinità’ in biancoceleste.
Testo di: Alfonso Esposito. Avvocato, docente di Diritto Penale alla scuola di specializzazione dell’Università Federico II di Napoli, ha appena pubblicato con la Urbone “LEGGENDAJAX: storia e storie di una svolta epocale”.
Di attaccanti che hanno fatto la storia azzurra ha scritto in “Napoli: segnare il tempo”.
A questo link trovate il suo libro “Il Mito che Insegna”, sul Napoli di Vinicio, edito sempre da Urbone Publishing, per la quale ha pubblicato anche “Alla Riscoperta dell’Est”.
Immagine di copertina tratta da Wikipedia.