Quand’eravamo campioni
Agosto 15, 2023Le dimissioni di Roberto Mancini da CT dell’Italia hanno del grottesco. Per modalità e tempistiche ferragostane.
Sotto la punta dell’iceberg di un rapporto tra federazione ed allenatore, che solo di recente sembrava essersi cementato, delegando al Mancio la responsabilità anche delle principali selezioni giovanili, si celava in realtà un grande freddo, fra il tecnico marchigiano e Gravina.
A La Repubblica, Mancini ha spiegato che le relazioni si erano via via deteriorate a causa del rinnovamento del suo staff, contro il parere del CT. Mancini aveva avvertito Gravina e la Federazione, che però hanno fatto orecchie da mercante, mettendo il tecnico di fronte al fatto compiuto, pur rinnovando a lui solo la fiducia.
Un escamotage, probabilmente, visto che il Mancio era forte di un rinnovo, fino al 2026, attraverso il quale avrebbe dovuto condurre la nazionale sia alla difesa del titolo europeo conquistato a Wembley, sia all’eventuale ritorno ai Mondiali, dai quali come nazionale maggiore manchiamo dal 2014. E, soprattutto, non superando i gironi dalla vittoria ai Mondiali 2006.
Nonostante la mancata qualificazione a Qatar 2022, con tanto di clamorosa sconfitta contro la Macedonia del Nord, poi perdente nello spareggio decisivo con il Portogallo, Mancini era rimasto saldo al suo posto. Nel frattempo, l’Inghilterra si era presa una piccola rivincita espugnando il Maradona nelle qualificazioni europee, e l’Italia era uscita solo alle semifinali, con una nazionale per la verità molto raffazzonata, contro la Spagna, futura campione, in Nations League.
La scomparsa dell’amico di sempre, Gianluca Vialli, ha tolto forse tante motivazioni al CT, apparso spesso triste e distaccato. Ma è pur vero che il Mancio passerà alla storia come uno dei pochissimi ad aver vinto. Tanto più che l’Italia non diventava campione d’Europa dal 1968, quando vinse l’edizione casalinga contro la Jugoslavia in due partite, dopo aver eliminato l’URSS solo con la fortunata monetina del San Paolo. Altri tempi, altro calcio.
Paradossalmente, sia i Mondiali 2006 vinti dalla nazionale di Lippi, sia gli Europei 2021, slittati per l’emergenza covid, hanno rappresentato il culmine, ma anche la fine, di cicli vincenti per il nostro calcio.
Mancini non si è reso conto, come Lippi e Bearzot prima di lui, che la sua nazionale era al capolinea.
Basti vedere dove gioca oggi la maggior parte dei protagonisti di Wembley.
Insigne e Bernardeschi sono oggetti misteriosi e strapagati dello spogliatoio più pazzo della MLS, in quel di Toronto. Chiellini è anche lui a svernare in America. Bonucci è fuori squadra alla Juventus, con una mezza trattativa in ballo con l’Union Berlino.
Spinazzola non si è mai ripreso del tutto dall’infortunio patito proprio durante gli Europei. Lo stesso Federico Chiesa ha avuto problemi analoghi, ma sembra essere tornato almeno al 90%, dopo essere stato fermo quasi un anno.
Verratti e Jorginho sono molto lontani dalla forma migliore. Ma, quantomeno a centrocampo, con Barella, Frattesi e Tonali l’Italia è in buone mani.
Se si esclude il capitano del Napoli Di Lorenzo, campione d’Europa e d’Italia in carica, nessuno dei reduci di Euro 2021 ha fatto un vero salto di qualità.
Lo stesso Donnarumma al PSG si è involuto. Mentre l’attacco, non certo il motivo per cui l’Italia vinse, è ancora latitante. Non si è mai smesso di criticare Immobile, unico vero bomber italiano sfornato dalla Serie A negli ultimi anni. Berardi resta discontinuo, e per adesso nessuno l’ha ancora strappato al Sassuolo, mentre gli anni passano. Scamacca tenterà di rilanciarsi all’Atalanta, mentre Retegui cercherà di rinverdire al Genoa i fasti degli italo argentini.
Tolto Gnonto, che a mio parere resta un oggetto non identificato a questi livelli, nonostante sprazzi di buon calcio in Premier, davanti non c’è nulla. Tocca attendere la crescita dei valorosi elementi dell’under 20, che ha ottenuto l’argento agli ultimi Mondiali di Argentina 2023.
In questo senso, Mancini deve aver capito che continuare con l’Italia non gli avrebbe garantito alcuna chance di successo. Da molto prima dei rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera, o della prodezza del modesto Trajkovski al Barbera, il CT aveva perso la bussola.
Che ci sia l’Arabia Saudita, insieme a tanti soldi quanti neppure il Mancio ne ha mai visti, dietro questa decisione, lo scopriremo presto.
In corsa per sostituirlo c’è soprattutto Spalletti. Fra quest’ultimo e la panchina dell’Italia, una clausola di non concorrenza sul contratto che lo legava al Napoli, ancora per un anno. Forse, era tutto previsto fin dall’inizio. Di sicuro, De Laurentiis è pronto a portare Gravina in tribunale.
Tre milioni di euro di penale subito, o sarà una nuova battaglia legale, con enormi implicazioni politiche, fra Don Aurelio, forte di uno Scudetto storico che lo fa sentire intoccabile, e i vertici del calcio italiano, che non lo amano e che da lui non sono affatto amati.
Ai posteri, a stretto giro, l’ardua sentenza. Con Antonio Conte, altro ricco deluso, sullo sfondo.
Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.