Giacomo Ratto: l’uomo che tratta il mondo con i guanti

Giacomo Ratto: l’uomo che tratta il mondo con i guanti

Ottobre 7, 2023 0 Di Philip Supertramp

Se Jules Verne fosse nato nel nostro secolo e avesse voluto essere un calciatore, probabilmente, gli sarebbe piaciuto rinascere come Giacomo Ratto. Giacomo è un ragazzo italiano nato a Varese nel 1986, che, dopo quasi vent’anni di carriera calcistica, può vantare 11 paesi differenti in cui ha giocato. Li ricorda tutti a menadito, l’unico che quasi dimentica è quello da dove è partito: “Grecia, Zimbabwe, Panama, Nicaragua, Fiji, Islanda, Svizzera, Mongolia, Maldive, Malta e… – inizia a pensare – ah, ovviamente l’Italia!”.

Ma partiamo dal principio: “Fin da bambino ero affascinato dai viaggi e dalle avventure, insomma da tutto ciò che non conoscevo e quindi dal mondo. Sono sempre stato un amante della geografia e passavo le giornate a guardare il mappamondo. Allo stesso tempo, sono una persona aperta ai cambiamenti e affascinato dalle altre culture e anche dal calcio estero”. Non a caso, la sua squadra del cuore non si trova in Italia, ma in Spagna. È il Deportivo la Coruña e alla domanda se gli piacerebbe esserne il portiere, risponde: “È un sogno che ho da sempre, ma mi accontenterei che il Depor fosse promosso”.

Fin da bambino Giacomo è un portiere molto talentuoso e gioca nell’US Bosco. A 14 anni lo vuole l’Inter, ma alla fine viene preso dal Varese (che in quel momento gioca in Serie C) a causa degli accordi che davano priorità al club della sua città. Dopo varie esperienze, nel 2012 è in Eccellenza al Leggiuno. Lì incontra una persona che lo aiuterà a fare un passo avanti: “Stavo facendo molto bene, e ho avuto la fortuna di trovare Andrea Callegarini (preparatore dei portieri della squadra ndr) che mi ha praticamente fatto tornare la voglia di credere in me stesso.

A quel punto mi sono detto, se non trovo l’opportunità di poter emergere in Italia, perché non provare a mandare i miei video all’estero? Così iniziai a inviarli alle varie squadre di Malta, fino a quando ho trovato la scuola portieri di Mario Muskat, ex leggendario estremo difensore della nazionale del calcio maltese. Due mesi dopo mi rispose che c’era una squadra che stava cercando un portiere. Il 26 dicembre del 2012 mi contattò Keith Vella Muskat, segretario dei Victoria Wanderers, per fare un provino di qualche giorno. Finito il primo allenamento mi fecero firmare e così iniziò il mio viaggio”.

Incuriosito, gli chiedo se conoscesse già l’inglese: “Non lo masticavo molto bene, ma tutti parlavano italiano. L’unico problema erano i compagni nigeriani, con loro mi è bastato imparare qualche parola. Successivamente però l’ho studiato per conto mio per parlare con gli agenti. L’inglese al giorno d’oggi è fondamentale , soprattutto per chi vuole sviluppare un lavoro all’estero”.

Quando è arrivato in Centro America la sua squadra del cuore lo ha aiutato: “In Nicaragua è stato abbastanza semplice, perché ho imparato lo spagnolo ascoltando le partite del Depor e leggendo le loro notizie su Marca e As”.

La domanda che sorge spontanea è: veramente non ha avuto problemi da nessuna parte? “Il posto più difficile è stato la Mongolia, dove nessuno parlava l’inglese e ho dovuto insegnare determinate parole ai miei compagni di squadra e imparare qualcosa di mongolo. Nel mio ruolo è cruciale saper dialogare con i compagni, così da scongiurare un sacco di occasioni pericolose per gli avversari”.

Dopo Malta, Panama e Nicaragua va dall’altra parte del mondo e finisce alle isole Fiji. Allora gli chiedo che ne pensa del calcio sull’isola. “Le Fiji, ancora oggi, sono inferiori a livello tecnico e soprattutto tattico per la carenza di conoscenza calcistica da parte degli allenatori locali. Fisicamente erano molto differenti tra di loro. La popolazione si divide sostanzialmente in due gruppi: i Fijani sono molto forti e hanno anche molta resistenza; invece gli Indofijani, che sono i figli degli ex indiani importati dagli inglesi per lavorare la canna da zucchero e costruire le ferrovie, sono più esili e quindi più rapidi e agili”. 

Più tardi diventa il primo italiano ad andare a giocare in Mongolia. “A Ulan Bator ci sono arrivato per caso. Piter De Jongh, allenatore olandese che avevo contattato per andare a giocare al Cape Town SC, aveva rescisso con il club sudafricano e aveva accettato l’Ulan Bator. Allora mi scrisse perché il club aveva bisogno di un portiere”.

Scopro che nella capitale della Mongolia d’inverno fanno -25 C…Un bel cambiamento dal caldo afoso del Nicaragua alle temperature glaciali, vero Giacomo?

“In Mongolia giocai una semifinale di coppa di sera con un“arietta” siberiana e mi ricordo che avevo due calzamaglie termiche. Sinceramente preferisco il caldo, perché ti aiuta a goderti meglio il tempo libero, anche se in Mongolia è stato stupendo. Ho assistito al Nadaam, un festival dove si festeggiano praticando tutti gli sport storici mongoli: dalla lotta mongola, al tiro con l’arco a cavallo. Ho visitato il countryside, che ti dà un senso di libertà incredibile. Ma anche in Islanda, a Isafjordur, era qualcosa di unico andare a visitare le cascate, affacciarsi nel Mare del Nord o fare il bagno negli hotspot”.

Difatti, dopo l’Islanda torna al caldo delle Maldive. Vado a vedere le sue foto di Instagram e provo un’invidia da non credere. Immagino qualche volta abbia saltato un allenamento preso dalla tentazione di fare un bagno. “Ho avuto la fortuna di avere una spiaggia stupenda a 20 metri dal campo e potevo andare a fare un tuffo prima e dopo gli allenamenti. Il Mare delle Maldive è tra i più belli che abbia mai visto, consiglio di andarci almeno uno volta nella vita per poter ammirare la natura marina e stare anche in una “local island” , che non ha niente a che vedere con una “resort island”.

E oltre alla bellissima natura che ti circonda, com’è il calcio sull’arcipelago?

“Alle Maldive stanno cercando di lavorare bene, anche se la struttura del paese (26 atolli) non facilita lo sviluppo di un calcio molto organizzato. Vedi i ragazzi con le maglie di Manchester, Milan, Inter. Manca, però, un forte investimento, anche da parte di qualche club europeo per poter aiutare a far crescere le realtà locali. La differenza tra la capitale e le isolette è tanta, perché in certi atolli vivono pochi bambini ed è difficile creare una squadra. Però il talento c’è, il giocare ovunque ti insegna cose che non impari nelle Academy e questo è quello che si sta perdendo in Europa. Da noi ci sono sempre meno giocatori che riescono a esprimere la propria “naturalezza” e il loro talento.

Quindi ricapitolando: Europa (Italia, Malta), America (Nicaragua, Panama), Asia (Mongolia, Maldive), Oceania (Fiji)… mi avevi parlato anche di un campionato in Africa, vero? “Si, Zimbabwe. Si dice che, quando si va via dall’Africa, si abbia il mal d’Africa. Effettivamente, è così. Incontri persone che veramente non hanno nulla, ma sempre col sorriso, la gioia di vivere che vedi nei bambini africani è incredibile. È stato stupendo anche vedere questi tramonti africani che ti danno un senso di calore fantastico. È un continente che purtroppo ha un grande potenziale ma viene sfruttato soltanto dalla politica. Un peccato perché l’Africa è il posto più ricco del pianeta Terra.”

Mentre Phileas Fogg è riuscito a fare il giro del mondo con una mongolfiera, Giacomo c’è riuscito con un pallone tra le mani, trattando il mondo con i guanti. Tante culture differenti unite dallo stesso sport.

Il potenziale del calcio è quello di unire perché, quando si fa parte della stessa squadra, non ci sono razze o colore. Anche da un punto di vista sociale, il calcio può far molto per determinati ragazzini per poter uscire da certe situazioni pericolose o a contatto con la criminalità.

Il calcio ha un potenziale meraviglioso, però c’è bisogno di crederci e di investire in questi posti, di creare delle Academy che possano dare anche un’impronta a livello sociale. Sarebbe bello che i grossi club europei investissero in questo, senza guardare al proprio tornaconto… Purtroppo è qualcosa di utopico, perché ciò che muove tutto è il dio denaro”.

Gli chiedo, allora, cosa pensa del fatto che il Brasile, nell’amichevole contro la Guinea, per la prima volta sia sceso in campo vestito completamente di nero in segno di protesta contro il razzismo. “Sono stato fortunato a riuscire ad entrare in contatto con tutte le realtà in cui sono stato. Purtroppo, alle Maldive è stato un po’ difficile perché, quando si cerca di parlare di Islam, c’è sempre un po’ di chiusura. È un peccato, perché penso che il confronto sia importante.

Questa chiusura l’ho riscontrata soprattutto a Nilandhoo, che, oltretutto, era stata l’ultima roccaforte buddhista. Dove c’era un tempio, ora si trova una moschea. Questo cercare di cancellare la memoria storica è triste. Il razzismo, purtroppo, è radicato nella società ed è ovunque. La paura della diversità non è in realtà un problema di colore della pelle o di nazionalità. Ma, fondamentalmente, del perdere un determinato controllo a discapito di una persona che proviene da un’altra parte”.

E ora che hai terminato il tuo viaggio, pensi di fermarti? “Dopo l’ultima partita alle Maldive, all’ultimo minuto, mi sono rotto l’adduttore lungo della gamba destra. Ho recuperato del tutto praticamente a fine gennaio, però questo mi ha reso impossibile trovare una squadra in questo mercato. Mi piacerebbe concludere tra un anno o forse qualcosa di più, ma sicuramente non in questa maniera. Voglio farmi trovare pronto per il mercato invernale e vedere se arriva qualche possibilità interessante. Poi in futuro mi piacerebbe allenare una squadra o anche lavorare nel mondo dell’intermediazione, visto che in questi anni mi sono mosso quasi sempre per conto mio”. 

Come saprai, noi di Football and Life chiediamo sempre come ultima domanda qual è stato il tuo piatto preferito mangiato all’estero… non sarà facile per te decidere. “Per il mondo ci sono piatti tipici, che uno non penserebbe mai che possano essere buoni, invece sono veramente squisiti. Mi piacerebbe raccontare un aneddoto dell’Africa. Dopo un allenamento, vado con Joel (il team manager) e altre due o tre persone dal macellaio per comprare del fegato.

Mi portano in una sorta di tendone, dove c’è una signora che aveva un fuoco e un pentolone, allora le portiamo il fegato, ci mette dei pomodori e della rucola (almeno sembrava quello), salta tutto assieme e lo cuoce. Poi ci ridà questa padella e entriamo nel bar. Mangiamo in quel piatto in 5-6 con le mani. Quel fegato era buonissimo, ma la cosa proprio bella era questo senso di condivisione del cibo. Era un po’, filosoficamente parlando, come condividere la vita: “da dove posso mangiare io, puoi mangiare anche tu”… e poi farlo con le mani ci metteva tutti allo stesso livello”.

In Mongolia Rodrigo Hernando lo chiamava “el portero filosofo” e dopo questa bellissima intervista possiamo dire che “Rodri” ci aveva visto giusto.

Ringraziamo Giacomo per averci dato la possibilità di conoscere il suo calcio e le sue idee sullo sport e sulla vita, in perfetto stile F&L. E speriamo che il suo viaggio possa continuare presto!

 

Intervista a cura di Philip Supertramp, redattore per F&L e autore della pagina Facebook Il Signore della Liga.

Immagine di copertina e immagini nel testo, tratte dai social account di Giacomo Ratto e da lui gentilmente concesse.

La redazione ringrazia con affetto Giacomo per il tempo che ci ha dedicato, e perché rappresenta al meglio i valori che Football&Life cerca di promuovere e raccontare.