John Kennedy, il Flu e la Copa del destino
Novembre 5, 2023Sono passati esattamente 60 anni – per la precisione era il 22 novembre 1963 – dal giorno in cui, a Dallas, un cecchino mirò alla testa dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America, JFK, John Fitzgerald Kennedy.
Un uomo il cui destino doveva essere quello di cambiare il mondo per sempre. Non ne ebbe il tempo. E, d’altronde, come insegna la storia della guerra del Vietnam, non è che in politica estera le scelte fossero state particolarmente gratificanti fino a quel momento.
Ciononostante, il mito di Kennedy e la maledizione della sua famiglia sono entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo. In questo senso, aeroporti, strade, hotel portano il suo nome.
Ma non solo. Perché se c’è un popolo che con i nomi assurdi va a nozze, di certo quello brasiliano è in prima fila. Non è raro trovare nomi ispirati più o meno integralmente a personaggi storici o famosi.
John Kennedy: nomen omen
Fra i tanti John Kennedy che pullulano le strade carioca, paulista o mineire, uno in particolare è balzato, pur giovanissimo in una squadra di autentici dinosauri, agli onori delle cronache sportive.
Nato il 18 maggio 2002 a Itaúna, Minas Gerais, nome completo John Kennedy Batista de Souza, per tutti JK, è entrato dalla panchina nella finalissima di Copa Libertadores, nel teatro del Maracanã, realizzando ai supplementari il gol vittoria contro il Boca Juniors, che ha regalato al Fluminense il primo titolo della storia nella massima competizione continentale.
Kennedy ha giocato un totale di 20 minuti nella partita, recupero escluso, a cavallo fra regolamentari e supplementari. E ha cambiato il destino del club.
Fernando Diniz ha giocato la carta “presidenziale” , come il più classico degli imprevisti del Monopoly, solo al minuto 80. John Kennedy è entrato al posto del “leggendario” Ganso, sì, quel Ganso (alla sua seconda Libertadores dopo quella vinta col Santos al fianco di un giovane Neymar nel 2011), per dare ritmo ad una squadra rallentata nella testa e nelle gambe dal pareggio Xeneize ad opera del redivivo terzino peruviano Advincula. Il quale, a sua volta, aveva risposto al golazo nel primo tempo del 34enne bomber argentino – in forza al Flu – Germán Cano, uno che da bambino tifava Boca, prima di cominciare la sua carriera nel Lanús e girare mezzo latinamerica calcistico fra Paraguay, Colombia (dove è diventato un idolo e il massimo marcatore ogni epoca dell’Independiente de Medellin), Messico e Brasile, e che ha suggellato una clamorosa Libertadores con 13 gol. Numeri che non si vedevano da un buon ventennio.
Non che ci volesse un fulmine di guerra per vivacizzare il gioco più di Ganso, che anche negli anni migliori faceva correre più il pallone delle gambe. Kennedy però un fulmine lo è davvero. E Fernando Diniz si gode i frutti della sua repentina crescita. Quasi come fosse un “late bloomer”, fa sorridere dirlo di un 21enne, oggi che il Brasileirão è pieno di ultratrentenni e i giovani migliori, le squadre europee, li vanno a prendere praticamente in culla, appena fiutano l’affare. Vedi Vini Jr, Rodrigo, o il prossimo craque Endrick del Palmeiras. I motivi di questa esplosione tardiva per gli standard brasiliani, sono da ricercare in un carattere un po’ ballerino, nonché in qualche peccato di gioventù. Che ora si è lasciato alle spalle.
Dicevamo dei venti minuti di Kennedy. Già più volte decisivo nel corso di questa edizione della Copa. Un cartellino giallo all’89’, la bomba di controbalzo a fotografare Romero per il 2-1 decisivo al 9′ del primo tempo supplementare. Il secondo giallo rimediato per l’esultanza poco contenuta nel suo stadio.
Rosso dolce, con parità numerica ristabilita per la manata di Frank Fabra. E il Flu che è riuscito senza ulteriori patemi a tenere il vantaggio fino alla fine, evitando la “fatality” del Boca, che ha vinto ai calci di rigore tutti gli scontri ad eliminazione diretta, accumulando solo risultati di parità al termine del doppio confronto.
Il cimitero degli elefanti della Libertadores
Che dire del Flu, che non sia già stato rimarcato più volte. Che dire di Felipe Melo alla sua terza Libertadores, dopo le due col Palmeiras. Uscito per infortunio e sostituito da Marlon, ex Sassuolo e Monza, che pochi giorni fa ha dichiarato di essere tornato in Brasile per riconquistare la nazionale. La stessa allenata, per adesso, Ancelotti permettendo, proprio da Diniz.
Per non parlare del portiere 43enne Fabio. O della prima Coppa dei Liberatori, dopo 5 Champions col Real, per il figliol prodigo Marcelo, che “il Madrid mi capirà, ma questa vittoria è la più importante della mia carriera”.
Anche nel Boca, al netto dell’impalpabile baby fenomeno Valentín Barco a sinistra, non è che la gioventù regnasse sovrana. Certo, fa male vedere Edinson Cavani non poter sollevare la Coppa a cui teneva di più “dopo la Copa América con l’Uruguay”. Così come fa male vedere una squadra che in Liga Profesional langue a metà classifica per onor di firma, non avere un reale futuro a breve/medio termine come sostenibilità del club e del suo parco giocatori. Il direttore Riquelme, mate nervosamente stretto fra le mani, avrebbe forse voluto mettere il suo talento al servizio del campo. Ma come dirigente le ha sbagliate tutte. Avendo messo a disposizione del tecnico una rosa non eccelsa.
Almirón ha messo in gioco tutto. Una squadra dal tasso tecnico medio basso, difensivamente solida ma senza una proposta di gioco credibile.
Alla fine, ha vinto chi giocava meglio al calcio.
John Kennedy, il Flu e il tifo xeneize: cosa resterà di questa Copa
Poco importa – non è una consolazione – pensare ai 120mila, forse più, argentini di fede boquense che si sono riversati per le strade di Rio e per la spiaggia di Copacabana. A fronte di soli 20mila ingressi paganti consentiti.
Il Boca era alla sua dodicesima finale. Un record, da ieri, in perfetta parità, fallendo l’aggancio a quota 7 vittorie dell’Independiente. Il Fluminense, che neppure ai tempi di Rivellino era riuscito in una simile impresa, ha vinto al secondo tentativo, dopo la sconfitta del 2008 contro gli ecuadoregni della LDU Quito. Autentica bestia nera del club carioca, avendo sconfitto il Flu anche nella finale della Copa Sudamericana nella stagione successiva.
Rimarrà impresso nella memoria il gioco del Flu. Aria fresca per il Sudamerica che, se a livello di nazionali è reduce dalla vittoria dell’Argentina ai Mondiali, a livello di club ha visto il suo prestigio via via estinguersi nel 21° Secolo. Colpa del saccheggio delle squadre Europee e di una crisi economica senza fine. Con i campionati diventati rampa di lancio per giocatori appena maggiorenni, o neppure quello. E canto del cigno per calciatori che preferiscono tornare a respirare l’aria e l’atmosfera dei campi di casa, piuttosto che finire nel dimenticatoio delle tribune europee. O che non possono più permettersi i ricchi contratti arabi e cinesi.
Resterà la passione del tifo più caldo del mondo. Quello xeneize, simboleggiato dalla follia, perché di questo si tratta, del bambino il cui padre ha “venduto la moto, la sua playstation, per venire qua, e non abbiamo neanche i biglietti…però guarda cos’è questo, questo è Boca! Forza Boca!!!”. Del resto, il bello del calcio è, al contempo, il suo cruccio. Novanta minuti, 120 in questo caso, di lucida follia, in cui la ragione di pochi cerca di dominare la scena, nel caos totale. Un caos nel quale è entrato in gioco, cambiando i destini del club, in soli venti pazzeschi minuti, un “menino que vale ouro”, come definito dal suo stesso allenatore. E che ha scompaginato i piani difensivi del Boca, decidendo una delle finali più attese di sempre.
Preferiamo comunque questo. Il profumo della storia e della passione, agli artifizi dei petrodollari con 700 spettatori paganti. Meno di quanti ne faccia la Scafatese in Eccellenza campana.
Immagine di copertina tratta dall’account Instagram di John Kennedy.