Pacho Maturana e il fiasco del “Valladolid de los colombianos”
Dicembre 20, 2023Nell’estate 1990, a soli 41 anni, il tecnico Francisco Maturana iniziò la propria avventura nel calcio europeo. Dopo aver portato la Colombia al Mondiale, dopo aver vinto la Coppa Libertadores con l’Atletico Nacional de Medellin e tenuto testa per 120 minuti al Milan di Arrigo Sacchi nella finale di Coppa Intercontinentale, per “Pacho” – questo il suo nomignolo – era arrivato il momento del grande salto.
Ex difensore centrale, campione di Colombia con l’Atletico Nacional de Medellin in due occasioni negli anni Settanta, e con una manciata di presenze anche in nazionale, Maturana si era ritirato nel 1982 ed aveva deciso di dedicarsi ad altro. Laureato in odontologia, esercitò brevemente la professione di odontoiatra prima che il calcio tornasse di nuovo al centro dei suoi pensieri. Fra i suoi pazienti, poi, ce ne fu uno che lo persuase a rimettersi in gioco: Luis Cubilla, leggenda del calcio uruguayo e in quel momento allenatore proprio dell’Atletico Nacional.
Cubilla lo convinse a prendere in mano una squadra delle giovanili del club e la sua ascesa come allenatore fu rapida e impressionante: nel 1986 guidò l’Once Caldas e l’anno dopo fu richiamato a Medellin dall’Atletico Nacional. Il resto è storia: Maturana è considerato il vate del calcio colombiano, colui che più di tutti riuscì a dargli impulso facendolo tornare nell’élite mondiale grazie anche a una magnifica generazione di calciatori, emersi quasi tutti in contemporanea.
Da calciatore, Maturana era stato allenato negli anni Settanta dall’argentino Osvaldo Zubeldía, l’architetto del grande Estudiantes e il padre calcistico di Carlos Bilardo, suo giocatore ai tempi del “Pincha”. Come ricordò lo stesso Maturana a W Radio, Zubeldía aveva fatto capire al calcio colombiano la necessità della disciplina, in campo ma anche fuori, e l’importanza della condizione fisica. Tuttavia, quando parla di maestri di tattica, Maturana guarda verso un’altra nazione sudamericana, ovvero l’Uruguay. Cubilla, Juan Martín Mugica e soprattutto Ricardo de León, quest’ultimo considerato un vero e proprio rivoluzionario nell’applicare il pressing e la difesa a zona a quelle latitudini.
Il fútbol praticato dal suo Atletico Nacional e dalla nazionale cafetera, oltre che portare risultati e trofei, era infatti attrattivo e moderno: zona, pressing, difesa alta, ricerca del fuorigioco sistematico e impostazione dalle retrovie. Bastò poco affinché il nome di Maturana iniziasse a circolare nell’ambiente del calcio europeo. In molti lo vedevano come l’erede naturale di Arrigo Sacchi al Milan, mentre rimanendo in Italia qualcuno lo avrebbe voluto alla Juventus. In Spagna, invece, c’era chi sperava di aprire con lui un nuovo ciclo vincente, come sognava di fare Ramón Mendoza, il presidente del Real Madrid.
Maturana e il Real Madrid: sedotto e abbandonato
Nell’estate 1990 il Madrid era guidato da John Benjamin Toshack, allenatore gallese che aveva vinto appena la Liga, campionato dominato a suon di goleade. Cacciarlo su due piedi sarebbe stata una decisione poco saggia anche per un intrepido presidente come Mendoza. Maturana, consapevole che il suo arrivo al Bernabeu era solo questione di tempo, accettò perciò volentieri la chiamata del Real Valladolid, squadra che avrebbe dovuto servirgli da trampolino di lancio verso lidi più glamour.
In questi ultimi anni il Valladolid – con Ronaldo Nazario come presidente dal 2018 – è una squadra “ascensore”, ovvero che alterna Segunda a Primera, di solito retrocedendo con la stessa facilità con cui viene promossa. All’epoca invece los pucelanos erano una presenza fissa della Liga, abitanti della zona centrale della classifica, troppo incostanti per poter puntare a qualche piazzamento importante ma nemmeno troppo fiacchi per retrocedere. Nel 1984 il Valladolid aveva conquistato la Coppa della Liga (una defunta competizione che si disputò fra il 1983 e il 1986), mentre nel 1989 aveva centrato un sesto posto in Liga e conquistato la finale di Coppa del Re, uscendo sconfitto di misura dal Real Madrid.
Essendo il Madrid vincitore della Liga, il Valladolid ottenne il diritto a giocare la Coppa delle Coppe – la sua seconda avventura europea dopo la Coppa UEFA 1984-85 – ma il cammino si interruppe ai rigori nei quarti di finale contro il Monaco di Arsene Wenger, che poi verrà battuto dalla Sampdoria in semifinale. Tuttavia, quella non fu una grossa stagione, e il club aveva cambiato ben tre allenatori, ottenendo una salvezza risicata.
Con l’arrivo di Maturana ci furono alcune novità in rosa. Uno degli acquisti fu il centrocampista Leonel Álvarez, pretoriano di Maturana nell’Atletico Nacional e nella nazionale colombiana, e che in seguito sarebbe diventato pure lui allenatore. Malgrado i buoni propositi, però, la squadra faticò ad assimilare il metodo di lavoro di Maturana. Di conseguenza, la partenza risultò lenta. Los pucelanos ottennero solamente 2 vittorie nelle prime 15 gare, anche se col nuovo anno il vento cambiò e la squadra si assestò a centro classifica, ottenendo un discreto nono posto finale.
Le sirene del Real Madrid non avevano però smesso di suonare, anzi. Toshack era stato esonerato a fine novembre e la leggenda Alfredo Di Stefano – coadiuvato da José Antonio Camacho – era corsa al Bernabéu per provare a rindirizzare una stagione ormai già compromessa. A metà aprile 1991 nel club si celebrarono poi le elezioni alla presidenza, con Mendoza che riuscì a confermarsi battendo di misura alle urne Alfonso Ussía. Si dice in maniera poco regolare, ma questa è un’altra storia…
Nelle settimane precedenti alla votazioni, le due campagne elettorali avevano prodotto una fantasiosa serie di probabili tecnici e giocatori che sarebbero dovuti arrivare a seconda del vincitore. La lista spaziò da Carlos Bilardo a Vujadin Boskov, da Darko Pancev a Marco van Basten fino al croato Robert Prosinecki, l’unico fra i nomi tirati in ballo che sarebbe poi realmente giunto a Madrid. Ciononostante, dopo la vittoria di Mendoza appariva chiaro chi sarebbe stato il nuovo allenatore blanco: Maturana. Malgrado mancassero ancora diverse settimane alla fine del campionato, il presidente aveva iniziato a sbandierare ai quattro venti l’accordo con il tecnico colombiano, con cui il Madrid aveva firmato un precontratto.
Tuttavia, nessuno aveva fatto i conti con Radomir Antic: Di Stefano aveva infatti gettato la spugna dopo l’eliminazione del Real Madrid in Coppa dei Campioni per mano dello Spartak Mosca, e il suo aiutante Camacho non aveva ancora il patentino per sedersi in panchina. Antic si trovava invece libero dopo aver lasciato il Real Zaragoza la stagione precedente, e venne chiamato al Bernabéu per fare da traghettatore negli ultimi due mesi. Una soluzione d’emergenza, che alla fine però avrebbe terminato per stravolgere i piani di Mendoza. E di conseguenza, anche la carriera di Maturana.
Il tecnico serbo, infatti, prese in mano la squadra al settimo posto e la portò fino al terzo posto, ottenendo così la classificazione per la Coppa UEFA. Con lui alla guida il Real incassò subito due sconfitte, ma nelle restanti nove giornate ottenne un pareggio e ben otto vittorie, incluso un 3-0 al Vicente Calderon nel derby con l’Atletico e una vittoria nel Clásico contro il Barcelona. Meglio di così non poteva certo fare.
Prendere una decisione “a pancia piena” è sempre stato un male di dirigenti e presidenti, accecati e galvanizzati dall’esaltazione del momento, e incapaci quindi di vedere tutte le sfumature della realtà. Nel Madrid la dirigenza risultò spaccata, da un lato coloro che avevano apprezzato il lavoro di Antic e i risultati ottenuti, da un’altra chi riteneva lo stesso necessario iniziare un nuovo progetto di sana pianta. Con molti dubbi in testa, a far cambiare idea a Mendoza furono i pareri positivi dei giocatori, che si erano ben trovati con Antic.
Prima della decisione finale, il presidente aveva provato addirittura a sterzare Antic al Valladolid – nel più classico degli scambi – e successivamente aveva persino offerto a Maturana un ruolo di manager, con la promessa che sarebbe stato lui a prendere le redini della squadra dopo le prime difficoltà. Il colombiano declinò però la proposta, rinunciando all’indennizzo economico per il non adempimento del contratto da parte del Madrid. Dopo aver flirtato brevemente con lo Sporting Gijón, Maturana decise di proseguire con il Valladolid.
Il Valladolid de los colombianos
Laddove siede oggi Ronaldo, nel 1990 stava seduto Gonzalo Gonzalo Rodríguez, già presidente della squadra di basket della città, allora conosciuta come Forum Valladolid, storico club purtroppo scomparso nel 2015. Gonzalo era un personaggio abbastanza ambizioso e sapeva dell’importanza di avere grossi nomi all’ora di attrarre nuovi abbonati allo stadio, questo malgrado le casse del club erano tutto meno che piene di soldi.
Nel basket la strategia aveva comunque funzionato: giocarono al Pisuerga il campione lituano Arvydas Sabonis, lo spagnolo Juan Antonio Corbalán, mentre nel 1993 sarebbe toccato al brasiliano Oscar Schmidt, che in Italia ricordiamo soprattutto per la sua tappa a Caserta. Era stato proprio il presidente Gonzalo a spingere per avere Maturana in prima istanza. Quando apparve chiaro che il tecnico sarebbe rimasto ancora, venne iniziata la seconda fase del progetto, quella chiamata “Valladolid de los Colombianos”.
Ad arrivare a Pucela nell’estate 1991 furono nientemeno che i due giocatori simbolo della Colombia, ovvero il portiere Renè Higuita e il fantasista Carlos Alberto Valderrama. Il primo aveva spettacolarizzato e rivoluzionato il ruolo del portiere. il colombiano era solito giocare in posizione avanzatissima, quasi come un secondo libero, tanto che diede l’impulso decisivo alla modifica sulla regola del retropassaggio.
Higuita non solo si era specializzato in avventurose uscite fuori dall’area o parate da loco, su tutti lo “Scorpione” messo in mostra a Wembley, mossa che il portiere aveva anticipato già qualche anno prima in uno spot televisivo per un marca di succhi di frutta. Higuita era solito agire sulla trequarti ed impostare l’azione da dietro o ricevere un passaggio da un compagno in difficoltà. Spesso si incaricava pure di battere rigori e punizioni. In carriera vanta una quarantina di gol. Il suo atteggiamento aveva permesso alle squadre in cui giocava di poter alzare la linea difensiva una trentina di metri più avanti del consueto, anche se tanta sfacciataggine gli costò qualche colossale errore, il più famoso quello contro il Camerun ai Mondiali, dove si sfece soffiare palla da Roger Milla.
Valderrama era invece il “Gullit bianco” per la sua folta chioma bionda e la tecnica sopraffina. Nativo di Santa Marta, località che si affaccia sul Mar dei Caraibi, malgrado l’aspetto pittoresco, il “Pibe” Valderrama era un personaggio di poche parole, quasi timido, che preferiva far parlare i piedi e il campo con le sue giocate e i suoi passaggi millimetrici. Cervello della Colombia di Maturana, proprio da un suo assist era nato uno dei gol più importanti del fútbol cafetero, ovvero quello di Freddy Rincón alla Germania Ovest nel teatro milanese di San Siro, marcatura che aveva qualificato i sudamericani agli ottavi del Mondiale.
L’arrivo di due crack come Higuita e Valderrama, unito alla presenza di Maturana in panchina, bastò e avanzò per far uscire Valladolid dall’anonimato calcistico. I risultati e le prestazioni de los pucelanos diventarono così d’interesse dei media colombiani, ansiosi di vedere trionfare i loro compaesani nel calcio europeo. Valderrama, ad essere precisi, già era da qualche anno in Europa, esattamente in Francia, dove aveva militato tre stagioni con il Montpellier, dividendo lo spogliatoio con Eric Cantona, Laurent Blanc e persino con il veterano camerunense Milla.
Tuttavia, la sua avventura transalpina era stata tutt’altro che trascendentale, e il “Pibe” aveva faticato a adattarsi.
Tornando al Valladolid, l’aver rinforzato la squadra comportò un costo, e prima che iniziasse la stagione il club trattò la cessione di Caminero al Real Madrid per risanare la maggior parte dei debiti. Ex canterano proprio del Madrid, Caminero era nato come esterno offensivo ma nel Valladolid arretrò il proprio raggio d’azione finendo per svolgere la funzione di libero, dove brillò per capacità di impostare la giocata da dietro e per la naturalezza con cui usciva palla al piede dal centro della difesa.
La sua cessione sembrava cosa fatta, e nel luglio 1991 la stampa spagnola annunciò addirittura l’affare. Ciononostante, il Madrid fece marcia indietro, sembrerebbe per opposizione di Antic, il quale considerava Caminero poco adatto ai compiti difensivi. Il Valladolid si ritrovò così con un pugno di mosche e i conti ancora in rosso.
Curiosamente, Antic e Caminero si sarebbero incontrati qualche anno dopo, stavolta all’Atletico Madrid, dove vinsero assieme una Liga e una Coppa del Re: il madrileno a quel punto aveva già cambiato ruolo e agiva da centrocampista offensivo con licenza di fare gol.
Con Caminero rimasto, la squadra si rinforzò con l’arrivo dell’allora sconosciuto Vicente Engonga, pescato in Segunda B, e l’attaccante navarro Roberto Martinez, autore di 12 gol in Segunda con il Salamanca.
Per il resto i soliti noti: il terzino destro Francisco Cuaresma, lo stopper César Gómez – successivamente leggenda del Tenerife e bidone alla Roma di Zeman – il talentuoso ma discontinuo attaccante Onésimo Sánchez, e il centravanti locale Gregorio Fonseca, più alcuni vecchi marpioni come il difensore centrale José Lemos o la mezzala Luis Mariano Minguela.
Malgrado un clima non certo disteso, la nuova stagione del los pucelanos iniziò con un mix di curiosità e di belle aspettative. In fin dei conti allo José Zorrilla erano arrivati due fra i giocatori più ambiti del calcio mondiale.
Gli esordi del “Valladolid de los Colombianos” furono però disastrosi e nelle prime quattro giornate arrivarono altrettante sconfitte, sebbene tutte di misura. La prima partita – una sconfitta casalinga contro lo Sporting Gijón – fu lo specchio di quello che stava per venire: il Valladolid dominò il gioco ma risultò impreciso in area rivale, mentre gli asturiani si portarono a casa la posta in palio con una punizione di Milan Luhovy che si infilò sotto la barriera.
Dopo la sconfitta di misura al Bernabéu contro il Real Madrid – passata alla storia più per la palpata di Míchel ai genitali di Valderrama che per lo spettacolo in campo – la sfida casalinga contro il Logroñes fu un’altra conferma che la stagione sarebbe stata difficile. Il calcio d’inizio fu ritardato di qualche secondo perché l’arbitro costrinse Valderrama a togliersi orecchini, anelli e catenine varie, e dalla comica si passò al teatro degli orrori.
Al secondo minuto di gioco, infatti, Higuita spalancò la porta con una uscita a vuoto che permise alla vecchia volpe austriaca Toni Polster di insaccare il vantaggio.
Il Valladolid riuscì subito a pareggiare e riprese in mano l’incontro, ma mentre gli attacchi locali non si traducevano in gol, dall’altra parte ancora Higuita si elevò a protagonista in negativo: colpo di testa del difensore avversario Juan Carlos Herrero, tentativo di respinta del colombiano che vide la palla passargli sotto il corpo e scivolare al di là della linea di porta prima della definitiva parata.
Il corrispondente del Mundo Deportivo Arturo Alvarado, nelle pagelle, valutò la prestazione del portiere con un inflessibile ZERO. Nel finale spazio anche per numerose occasioni fallite, un gol ingiustamente annullato e un enigmatico “mea culpa” da parte di Maturana, che ammise con un largo giro di parole i propri errori nello stilare la formazione e nell’interpretare la gara.
Il “Cartel de Pucela”
Dopo quattro sconfitte di misura, contro l’Albacete arrivò finalmente il primo successo stagionale, e con le vittorie su Mallorca ed Español all’ottava e alla nona giornata, il Valladolid iniziò a respirare ritirandosi su in classifica. Ma la quiete durò poco. Un pareggio casalingo 2-2 con la Real Sociedad, squadra che fino ad allora non aveva mai segnato in trasferta, aprì una serie di mancati successi che sarebbe durata fino al febbraio successivo.
La situazione divenne subito incandescente. Higuita sembrava la brutta copia dell’esuberante portiere visto in Sudamerica e risultò colpevole di molti dei gol incassati dal Valladolid, mentre Valderrama si dimostrò spaesato, giocando al rallentatore e risultando incapace di mettere in mostra il proprio talento. Solo Álvarez, centrocampista che poteva dare quantità e sostanza alla mediana, si salvò parzialmente da tale mediocrità di prestazioni, anche se tanta, troppa, garra vide il suo nome finire quasi sempre nel taccuino degli arbitri: per lui tre espulsioni e sei ammonizioni in 14 gare.
Il pubblico pucelano si dimostrò inflessibile, arrivando persino a fischiare i propri giocatori. Specialmente Higuita e Valderrama, i quali avrebbero dovuto fare la differenza. La squadra prese così il beffardo soprannome di “Cartel de Pucela” o “Atletico Nacional de Valladolid”, mentre soprattutto Higuita venne bersagliato da prese in giro, con il prodotto colombiano più esportato in quegli anni come tema dei cori. Ovviamente non stiamo parlando del caffè.
Il punto di non ritorno arrivò ad inizio dicembre, quando los pucelanos caddero per 5-1 contro l’Atletico Madrid sotto i colpi di Manolo e Bernd Schuster, con il primo goal incassato dopo appena un minuto di gioco. Con tanto veleno nell’aria, Maturana arrivò persino a contemplare l’idea di non schierare i suoi compatrioti nelle gare casalinghe, mentre il pubblico, ingannato da promesse di gran calcio, iniziò a disertare lo stadio José Zorrilla. Il progetto tentato dal club – il quale si aspettava un gran rientro di soldi dall’operazione – si rivelò praticamente un fiasco, sia a livello economico che sportivo.
Il 22 dicembre 1991, dopo l’ennesima prestazione incerta, Higuita alzò bandiera bianca e fece le valigie, tornandosene in Colombia. La sua ultima gara era stata un pareggio 2-2 casalingo con il Tenerife, dove il portiere colombiano risultò corresponsabile del momentaneo vantaggio canario con un’azzardata uscita fuori area, sulla quale Juan Antonio Pizzi, seppur da posizione angolatissima, riuscì a trovare lo spiraglio per segnare a porta spalancata.
Il 12 gennaio 1992 al Camp Nou contro il Barcelona fu invece l’ultima partita disputata da Valderrama e Álvarez in maglia pucelana. Entrambi terminarono la gara anzitempo, cacciati dal campo in contemporanea dopo aver pesantemente offeso l’arbitro a seguito di un fallo non fischiato. La doppia espulsione lasciò la squadra in 9 per oltre un’ora, e malgrado lo sforzo il Valladolid venne battuto 2-1.
Senza più le “zavorre” dei colombiani, los pucelanos diedero timidi segnali di ripresa. Ad inizio febbraio arrivò persino la vittoria sull’allora capolista Real Madrid, e dopo due vittorie e un pareggio nelle quattro successive gare si pensò che forse il peggio fosse passato. Ma fu solo una illusione, anche perché i problemi economici significarono stipendi sempre in ritardo e grossa incertezza sul futuro del club a livello dirigenziale. Il Valladolid tornò difatti ad incepparsi, e stavolta Maturana si trovò senza più alibi. Il colombiano diresse la sua ultima partita sulla panchina pucelana il 5 aprile 1992, un deludente pareggio casalingo a reti bianche con il Real Zaragoza.
La nave aveva però già imbarcato acqua, e nemmeno il suo successore Javier Yepes riuscì a condurla in un porto sicuro: il Valladolid arrivò ultimo a pari punti col Mallorca subendo l’onta della retrocessione in Segunda División, l’unica patita in un periodo di 24 anni – dal 1980 al 2004 – che vide sempre los pucelanos al via della Liga.
Maturana tornò in Sudamerica, dove diresse l’America de Cali prima di prendere in mano nuovamente la nazionale colombiana, guidata nella sfortunata spedizione al Mondiale statunitense. Nell’estate 1994 comparve nuovamente nell’agenda del Real Madrid, ma ancora una volta Mendoza decise di preferirgli un altro tecnico, Jorge Valdano. Maturana tornò comunque in Spagna, stavolta all’Atletico Madrid.
L’ambiente che si respirava al Vicente Calderon era però di puro terrore. Dopo aver esonerato una leggenda come Luis Aragonés nel febbraio 1993, nei successivi 15 mesi il vulcanico Jesús Gil aveva cambiato ben sette allenatori, con Ramón Armando Heredia quello che era durato di più. Per lui 15 gare, spalmate però in due periodi. Maturana riuscì invece a resistere nell’incarico appena nove partite. Con due vittorie, un pareggio e sei sconfitte sul groppone, per il presidente colchonero fu una mera formalità rispedire il tecnico al mittente.
Higuita, Álvarez e Valderrama non fecero mai più ritorno in Spagna da calciatori (Higuita diventerà brevemente allenatore dei portieri propri per il Valladolid nel 2008-09, agli ordini di Mendilibar). La carriera del portiere fu intralciata da vicissitudini fuori dal campo – su tutte, i sei mesi di carcere per aver fatto da mediatore in un sequestro – mentre i due centrocampisti furono presenti sia ai Mondiali del 1994 che a quelli del 1998. Nessuno dei tre riuscì però a far parte della nazionale colombiana che nel 2001 si aggiudicò la sua prima e unica Coppa America, successo ottenuto proprio con Maturana in panchina.
Il tecnico si è ritirato ufficialmente nel 2019 dopo aver diretto cinque nazionali (Colombia, in quattro distinte tappe, Ecuador, Costa Rica, Perù, Trinidad y Tobago) e 12 squadre di club, fra cui le grandi del calcio cafetero, ovvero Atletico Nacional de Medellin, Millonarios de Bogotà ed America de Cali. Unica macchia nera nel curriculum, quella del “Valladolid de los Colombianos”, che passò alla storia come una rivoluzione mancata e che sarà per sempre ricordato come uno dei più grossi fiaschi della Liga.
Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.
Immagine di copertina riadattata da account IG Sinusports.