Angelo “Luigino” Rimbano, Pecci e gli altri: storia di un’amicizia
Febbraio 13, 2024In questi mesi nefasti dove gli eroi e gli idoli di una volta, di una nostra gioventù che, ahimè, non c’è più, vanno via come birilli, restano amare considerazioni sul presente, sulle bandiere ‘ammainate’, su un calcio totalmente cambiato, sugli apprezzamenti all’essere calciatori ed anche ‘hombre vertical’ al tempo stesso (Riva e Juliano, chi più di loro?). Immagini tristi, ingiallite dal tempo, di un passato che non ritorna. Di vagheggiamenti. E di una lacrima furtiva che ci riga il viso.
Cosa c’è dopo la morte di un coraggioso semideo che ha calcato i prati verdi e che adesso va a giocare in Paradiso? E cosa resta dei valorosi e prodi paladini del nostro calcio che esplodevano sinistri e facevano acrobatiche rovesciate? Cosa ricorderemo di chi fu vero condottiero in campo e nello spogliatoio? Che cosa resta nella testa e nel cuore di chi fu compagno di squadra di questi giocatori? Cosa ricorderanno di loro i tifosi, il sale del calcio? Alcune riflessioni urgono. L’Amicizia, senz’altro, resta Lei. E il Ricordo, a cui tutti ci dovremmo aggrappare per non farlo diventare Oblio.
Abbiamo visto Cané e Montefusco portare la bara di Juliano sulle spalle, abbiamo visto Cera e Tomassini caricarsi sulle spalle quella di Gigi Riva. L’Amicizia. Abbiamo visto una sincera commozione in molti. Tifosi intrufolatisi in una chiesa come ad un funerale di uno di famiglia alla Riviera di Chiaia. Juliano. Tifosi in fila ordinata ad una camera ardente in uno stadio, quello di Cagliari. Riva. Abbiamo, dunque, visto il Ricordo. E nel dorato mondo del calcio sono ben rari i legami forti, quelli che resistono nel tempo. Abbiamo letto anche di memorie di chi è stato subito chiamato dai giornalisti per il solito ‘coccodrillo’ (lacrime da coccodrillo?). Parole di cordoglio, di sincero dispiacere. Come si fa quando muore una persona cara. Interviste interessanti, con contorno di episodi, ma spesso anche banali ed un po’ scontate. Nonostante tutti abbiano esaltato l’uomo più che l’atleta che è andato via.
Angelo Rimbano: dell’amicizia
Quella che vi raccontiamo è una storia di Amicizia vera, di un legame che è andato al di là della squadra in cui si è giocato, quello tra Pecci e Rimbano, ex napoletani ma soprattutto ex rossoblu del Bologna. Due anni fa, l’8 aprile del 2022, Angelo Rimbano ha lasciato questa vita terrena per andare altrove, in un mondo nuovo, sconosciuto, dove non potrà guidare la Porsche, non potrà portare i capelli lunghi da ribelle, non potrà innamorarsi di una ‘femme fatale’ e non potrà più passare del tempo con i suoi veri amici.
Sapevamo tutti che era ammalato da tempo e che stava lottando contro una brutta bestia, una malattia neurodegenerativa. Aveva, però, tutto l’amore della sua famiglia intorno ed anche quello degli amici più cari. Forse questo ha allungato l’agonia o lo ha fatto sentire bene in alcuni momenti, chissà. Non lo sapremo mai perché da un po’ c’è un nuovo Angelo che gioca in Paradiso. Si chiamava Rimbano, per tutti ‘Luigino’, ed è uno di quei giocatori che, sebbene abbia giocato un solo anno a Napoli, è rimasto nel cuore dei tifosi che lo hanno visto calcare il prato di Fuorigrotta.
Il giovanotto veniva da una zona, il Polesine, abbastanza depressa, povera e abbandonata nella provincia di Rovigo. Il suo luogo natio una volta si chiamava Contarina, oggi ha cambiato nome in Porto Viro ed era famoso per una delle discoteche più grandi d’Europa, il “Milleluci”. Dominavano, però, nebbia ed agricoltura, zanzare e contadini rustici, dialetti locali e fagioli. Il Napoli della ‘linea verde’ di Chiappella aveva bisogno di un terzino, un ricambio per Pogliana, un veterano della difesa azzurra. E lo prese dal Varese. In realtà, vista la contingenza di alcune partite, Angelo fu impiegato anche come mediano in varie occasioni, per marcare ad uomo e mordere le caviglie del regista avversario.
Non era uno ordinario, il Rimbano. Il martedì e il mercoledì per gli allenamenti classici, il giovedì per la partitella in famiglia ed il sabato per la rifinitura. La sua macchina era sempre là, nel parcheggio del ventre del San Paolo. Era una bella Porsche e diversi compagni di squadra gliela invidiavano. Ma forse ammiravano anche il suo stile di vita, il suo ‘me ne frego delle gerarchie’, il suo essere giovane e ribelle.
Si dice che proprio il fatto di trattare tutti allo stesso modo, sia che parlasse con un veterano dello spogliatoio sia che rivolgesse la parola ad un giovane come lui, gli procurasse diversi problemi con le società con cui ha giocato. L’avere il mondo tra le mani, ‘sfruttare’ il momento favorevole, l’essere calciatore in una grande città dopo gli inizi nella provincia, a Padova e Varese, fecero il resto.
Angelo Luigi Rimbano, una sola stagione nel Napoli edizione 1972-73 (28 presenze), poteva permettersi un’auto come la Porsche. Le malelingue insinuavano anche perché stava per sposare una ragazza di ottima e ricca famiglia, oltre che bella. Gente danarosa, ville con piscina, castelli e tenute un po’ ovunque tanto per stare in tema di amori da… favola.
Ed il suo è stato vero amore, su questo ci possono giurare i compagni, quelli che lo vedevano tutti i giorni nello spogliatoio, quelli che lo conoscevano bene. Eraldo Pecci in primis. Belloccio lo era, forse un po’ tenebroso, ma i suoi capelli lunghi erano portati con garbo e disinvoltura e la sua andatura da playboy non pesava eccessivamente. Tanto lo sapevano tutti, Rimbano – che si faceva notare anche per l’eleganza fuori dal campo – era innamorato di lei, aveva in testa solo lei, Daniela.
Qualche anno fa mi squilla il telefono. Numero sconosciuto, di consueto non rispondo. Sarà la solita tiritera dei call center, il solito spam. Poi ‘quel numero’ si rifece vivo poco più tardi. Magari sarà qualcuno che ho conosciuto e di cui non ho ancora memorizzato il numero, pensai. Quindi decisi di rispondere. “Pronto, sono Pecci” dall’altro capo del telefono. Ed io “Guarda che se vuoi scherzare non ne ho voglia”. “No, no, sono Eraldo, ‘Piedone’…”.
Riconobbi la voce. Era proprio Eraldo Pecci. Dopo avermi raccontato come era arrivato a me, mi fece una richiesta precisa. Mi disse che lui e gli altri ex del Bologna, tra cui Colomba, stavano preparando un album fotografico con tutte le foto più belle della carriera di Angelo Rimbano. Mi disse della sua malattia e mi spiegò che Angelo stava già male, purtroppo non gli restava molto da vivere. “Caro Piedone, non c’è problema, vieni e ti do quello che ti serve”. E lui, “Ok, ci vediamo all’ex Sarago, sai dove è, no?”.
Fu puntuale come un orologio svizzero, anzi mi chiamò per il mio leggero ritardo. Non si direbbe, conoscendo il personaggio. Allegro, sornione, con la battuta facile e sempre pronta e quell’inconfondibile accento romagnolo, dal vivo Eraldo Pecci è uno spasso. Disponibile, affabulatore e veloce nel raccontarti fatti, aneddoti e intrighi della sua permanenza a Napoli ma anche storie di calcio, quello degli anni ’70 e ’80, legato alle squadre dove ha militato. Bologna, Torino, Fiorentina, Napoli e ancora Bologna.
L’appuntamento è presso un noto ristorante a Mergellina, una volta questo locale era altrove e ha rappresentato il covo di tutti i giocatori del Napoli, gli scapoli e gli ammogliati, i regolari e i bizzarri. Di ‘quel’ ristorante è rimasta solo una foto alle pareti del nuovo locale. I giocatori sorridono davanti ad una frittura di pesce. Strano gioco del destino, c’è anche Rimbano che scherza con Damiani mentre gli altri li incitano al gioco. Che bei tempi, quel posto veramente cementava le squadre, quante verità si dicevano di fronte ad una bicchiere di vino rosso.
Braglia faceva le sue scappatelle proprio lì, Pesaola non finiva mai di raccontare e affabulare con il suo accento argentino, La Palma e Boccolini passavano per la cena la domenica sera. Nonostante Pecci abbia giocato nel Napoli per una sola stagione ricorda ancora quel punto di ritrovo. Era qualche centinaio di metri più in là, oggi c’è Massimiliano, il figlio, a portare avanti la tradizione di famiglia. Ci accoglie con modi gentili, è premuroso ma ancora giovane per ricordare chi è passato per la cucina del padre.
Eraldo Pecci si siede e inizia a raccontare, andiamo sul leggero ‘classico’, ovviamente è lui a scegliere il menu. Ci portano dei tocchetti di pizza per accompagnare il pasto, niente primo. ‘Piedone’ va pazzo per la mozzarella e allora ordina una bella ‘bianca’ del casertano, poi si ricorda della spigola e allora si materializza un bel pesce all’acqua pazza di una delicatezza unica.
Vino, un dolcino, un amaro. Mi faccio, ovviamente, firmare il suo “Il Toro non può perdere” e mi promette che mi farà avere il suo nuovo libro, appena uscirà. Ogni tanto sorride, si guarda intorno verso Via Calabritto, la Riviera, Via dei Mille e prima di iniziare l’amarcord scoppia in una fragorosa risata.
Di quell’incontro riporto solo gli stralci che riguardano il suo rapporto con Rimbano.
Una chiacchierata con Eraldo Pecci su Angelo Rimbano
Gli chiedo di raccontarmi di questa bella idea che hanno avuto gli ex compagni per Angelo Rimbano.
“Quando, sotto le due Torri, arrivò Bellugi, andando ad occupare il ruolo di libero, lui e Cresci si giocarono il posto da terzino sulla fascia mancina. La società del presidente Luciano Conti spinse, in modo determinante, in favore di Cresci anche per il carattere ‘menefreghista’ di Rimbano.
La stessa dirigenza bolognese gli consigliava di non frequentare la ragazza con cui si era fidanzato, troppo bella, troppo ricca. Troppo ‘femme fatale’. E questo, all’epoca, non deponeva molto a favore dei calciatori che spesso si ‘sistemavano’ con donne destinate a fare le casalinghe e a crescere i figli. Altro che vita mondana. La società, e questo l’ho scritto anche nel mio libro, invitava i calciatori amici di Rimbano, tra cui il sottoscritto, a non frequentare la sua villa panoramica, evidentemente visto come ‘luogo di perdizione’….”
Poi fa una pausa e cerca di cambiare discorso, quasi a proteggere la sua vita privata con Rimbano. Capisco e non insisto. La chiacchierata scorre, dunque, su altri binari anche se ogni tanto riaffiora di sfuggita il motivo del nostro incontro. Pecci era molto legato al Bologna di Pesaola, quello dove giocava anche Angelo. Gli chiedo del ‘Petisso’…
“Con il ‘Petisso’ si stava bene anche fuori dal campo, non ti dico lo spasso (n.d.r. lo imita nella famosa frase “Io ho detto di attaccare ai miei ma la squadra avversaria ci ha rubato la idea…”). Era un Bologna forte e compatto con Roversi, Perani, Bulgarelli, Caporale, Rimbano, Savoldi e poi aveva una società alle spalle che contava molto, con il cavaliere Luciano Conti a far da presidente. La società viveva ancora di rendita per quanto fatto dal Bologna campione d’Italia nel 1964, quello del “così si gioca solo in Paradiso” come disse Bernardini.”
Dimmi la verità, quale squadra ti è rimasta nel cuore di tutte quelle in cui hai giocato?
“Guarda, non sarò retorico se ti dico tutte. Sono stato bene ovunque, dovunque ho avuto amici veri, come può dimostrare l’affetto che provo ancora oggi per Rimbano. A Bologna, a Torino dove ho vinto uno storico scudetto, a Firenze dove sfiorammo il titolo e a Napoli. La questione è che sono un tipo romantico, mi legavo sempre alla città dove giocavo e davo tutto o cercavo di dare tutto per la maglia con cui scendevo in campo. Mi sono sempre ambientato in fretta, ho sentito la città, l’ho vissuta, anche con qualche scappatella che può fare un giovane ‘fuori sede’. Napoli, ovviamente, mi è rimasta nel cuore, come fai a non innamorarti di questa città?”
Poi guarda il mare di fronte, tira un sospiro lungo e mi dice. “Faccio un giro per la città, poi riparto”.
Testo di Davide Morgera. Professore e scrittore, cultore della storia del calcio e del Napoli. Ha pubblicato quattro libri:
Cronache dal secolo scorso: atti unici nella storia del Napoli (con Urbone Publishing).
Azzurro Napoli. Iconografia inedita di una passione infinita.
Volevo essere Sergio Clerici. Memorie e storie di calcio.
L’immagine di copertina e la foto del testo sono tratte dall’archivio personale di Davide Morgera e utilizzate su autorizzazione dell’autore.