La Paternal e l’Argentinos Juniors: viaggio nella “Tierra de D10S”
Aprile 21, 2024Il calcio argentino è pieno di stranezze. Continui cambi di formato, retrocessioni con promedio di punti, fino alla disputa di mega-tornei con ben 30 squadre al via. Tuttavia, se c’è una cosa che lo rende unico, è il rapporto d’amore incondizionato fra tifosi e i vari club, che spesso e volentieri rappresentano un barrio, un quartiere.
Per questo, risulta incredibile la storia dell’Argentinos Juniors, storico club della capitale, che per oltre vent’anni ha giocato lontano da La Paternal, il suo quartiere di appartenenza.
La Paternal, Tierra de D10S
L’Asociación Atlética Argentinos Juniors nacque nel 1904 nel quartiere di Villa Crespo, quando si produsse la fusione fra due squadre, quella del Sol de la Victoria e Los Martires de Chicago. I primi anni del club furono convulsi, e solo nel 1924 il club trovò una dimora fissa, quando si installò in un campo fra l’Avenida San Martín e la Calle Punta Arenas, nel quartiere de La Paternal.
Ciononostante, nel 1936 fu costretto a sloggiare per problemi economici: per scongiurare il rischio di sparire del tutto, l’Argentinos Juniors arrivò persino a fondersi con i vicini dell’Atlanta – matrimonio che durò appena qualche mese – prima che l’allora presidente, Gastón García Miramón, acquistasse dei terreni fra la Calle Gavilán e l’Avenida Boyacá per costruirci un nuovo impianto di gioco dove poter mettere le radici e ripartire.
Il campo, tecnicamente parlando, è ubicato nel confinante barrio General Villa Mitre, anche se per tutti quella è ancora La Paternal. E fu proprio lì – nello stadio che dal 2004 porta il suo nome – che Diego Armando Maradona debuttò professionista il 20 ottobre 1976 in un incontro fra Argentinos Juniors e Talleres de Cordoba.
Al di là della mistica, già ai tempi dell’esordio del “Diez” quello stadio risultava abbastanza obsoleto per gli standard calcistici dell’epoca. Le dimensioni del terreno ai limiti del regolamento, le infrastrutture inadeguate, le tribune di legno.
Un trasloco vincente
Il primo a manifestare la necessità di trovare un campo più adeguato alle caratteristiche tecniche della squadra fu nientemeno che Angel Labruna. Considerato uno dei più forti giocatori argentini della storia, “El Feo” Labruna era stato membro de “la Máquina”, il quintetto d’attacco del River Plate – completato da Juan Carlos Muñoz, «el Charro» Moreno, Adolfo Pedernera e Félix Loustau – che aveva rivoluzionato il fútbol rioplatense negli anni Quaranta.
Anche come allenatore, le gesta di Labruna rimasero principalmente legate al River Plate, club guidato in tre differenti tappe. “El Feo” fu comunque tecnico di diversi altri club, fra cui Rosario Central, Talleres de Cordoba e Racing Club. Nel 1971 era passato pure per la panchina dell’Argentinos Juniors, ma i risultati non furono quelli desiderati e la sua esperienza durò appena pochi mesi.
Dodici anni più tardi, però, dopo aver vinto uno storico campionato con il Rosario Central e ben sei titoli nazionali con il River Plate, Labruna tornò a La Paternal. Da quando se ne era andato, era successo di tutto, sia a livello sportivo che sociale: l’apparizione di Maradona, la sua cessione milionaria al Barcelona, il Mondiale del 1978, il Golpe di Stato, la Dittatura, la Guerra de las Malvinas, la caduta della Junta e, per ultimo, il ristabilimento della democrazia, evento avvenuto proprio nel 1983.
Forte dello status di leggenda, ingigantito ulteriormente dai numerosi titoli vinti da tecnico, Labruna riuscì subito a cambiare il DNA del club. Fino a quel momento, infatti, l’Argentinos Juniors era stata una squadra incostante e mai in grado di rimanere ai vertici del calcio argentino.
L’arrivo sulla scena di Maradona aveva ovviamente portato una rivoluzione, e nel 1980 era arrivato un secondo posto nel Campionato Metropolitano, il loro miglior piazzamento dal 1960. Ciononostante, con la partenza del “Pibe de Oro”, l’Argentinos Juniors era tornato presto nell’anonimato.
Labruna risultò essere la persona giusta al momento giusto. In quel momento, infatti, grazie ai soldi incassati dalla cessione di Maradona, l’Argentinos Juniors era uno dei pochi club argentini sani a livello economico, e ciò diede la possibilità di portare a La Paternal alcuni veterani, fra cui il portiere Ubaldo Fillol e il difensore Jorge Olguín, entrambi campioni del Mondo nel 1978.
Furono piantati così i semi per la nascita di una squadra solida e tosta, ma allo stesso tempo a trazione offensiva. Squadra il cui motto era quello di praticare un calcio spettacolo. Bello e, se possibile, vincente.
Tuttavia, per Labruna tutto questo non era sufficiente. Secondo lui, il vecchio campo de La Paternal era di intralcio alle ambizioni della squadra. Per far compiere il definitivo salto di qualità, e facilitare le trame offensive, sarebbe servito un terreno di gioco più ampio e meglio curato.
Il 12 giugno 1983 l’Argentinos Juniors giocò così la sua ultima partita interna a La Paternal prima di trasferirsi nel vicino quartiere di Caballito, allo stadio Arquitecto Ricardo Etcheverri, casa del Ferro Carril Oeste.
Quasi sul tetto del mondo
Il saggio Labruna ci aveva visto giusto. L’Argentinos Juniors divenne subito una mina vagante nel campionato di Primera. Dopo essere usciti nelle semifinali del Torneo Nacional del 1983, il 23 dicembre del 1984 l’Argentinos Juniors mise in bacheca il suo primo trofeo, il Campionato Metropolitano. Un titolo ottenuto nell’ultimo turno battendo il Temperley, mentre il Ferro Carril Oeste –curiosamente proprio il club che gli prestava il campo – non era riuscito ad andare oltre il pareggio in casa dell’Estudiantes La Plata: Argentinos Juniors 51 punti, Ferro 50.
Purtroppo, Labruna non poté festeggiare quel trofeo tanto atteso: il 19 settembre 1983, quando si trovava ricoverato in ospedale per un intervento alla cistifellea, fu vittima di un infarto. Il suo posto fu preso da Roberto Saporiti, ex tecnico di Talleres e Loma Negra, nonché assistente di Menotti in nazionale. Poi toccò al rosarino José “El Piojo” Yudica, il quale mise in bacheca un altro titolo, il Torneo Nacional del 1985.
Fillol era stato rimpiazzato in porta da un altro veterano, Enrique Vidallé; la difesa oltre Olguín poteva contare sul centrale, ex River Plate, José Luis Pavoni e i laterali Carmelo Villalba e Adrián Domenech. In mezzo il Caudillo era il barbuto Sergio Batista – a lungo scudiero di Maradona in nazionale – accompagnato da un altro ex River, Emilio Commisso, e da Mario “El Panza” Videla.
In avanti, il tridente delle meraviglie era composto dagli esterni José Pepe Castro e Carlos Ereros, coadiuvati dal centravanti Pedro Pasculli. Poi, dopo la partenza di quest’ultimo per Lecce, i galloni di titolare furono definitivamente affidati al giovane Claudio “El Bichi” Borghi, un attaccante dotato di una tecnica squisita che fece innamorare nientemeno che a Silvio Berlusconi, anche se la sua esperienza italiana fu breve e frustrante.
L’Argentinos Juniors non solo era diventata la miglior squadra dell’Argentina, ma alla prima partecipazione alla Coppa Libertadores sbancò il lotto. Nella fase a gruppi eliminò Fluminense, Vasco da Gama e Ferro Carril Oeste, disputando così il girone di semifinale assieme ai campioni uscenti dell’Independiente e ai boliviani del Blooming.
Nel suo terreno di caccia prediletto, l’Independiente era chiaramente favorito a piazzarsi in finale, ma nell’ultima gara l’Argentinos Juniors espugnò Avellaneda per 2-1, con il portiere Vidallé decisivo nel parare un rigore a Claudio Maragoni all’ultimo minuto.
Anche la finale con l’America de Cali fu al cardiopalma: dopo una vittoria a testa, fu necessaria una terza partita sul neutro di Asunción, con l’equilibro che si protrasse fino ai rigori, dove Vidallé si convertì nell’eroe di serata parando il quinto tiro dei colombiani.
Il portiere cordobese fu protagonista anche a Tokyo, nella finale di Coppa Intercontinentale contro la Juventus. Dopo uno spettacolare 2-2, Vidallé neutralizzò il rigore di Micheal Laudrup, ma i suoi compagni Batista e Pavoni si fecero fermare da Stefano Tacconi, e la coppa finì nella bacheca bianconera.
L’Argentinos Juniors de… Mendoza
Dopo aver perso l’Intercontinentale, l’Argentinos Juniors aggiunse un altro titolo in bacheca – la Coppa Interamericana del 1986 – prima di iniziare un lento e inesorabile declino.
Come se non bastassero i risultati altalenanti a deprimere i tifosi, nell’estate 1990 il club fu protagonista di un fatto curioso, quando si dimenticò di registrare i propri giocatori presso la Federazione. Improvvisamente, tutta la rosa si ritrovò libera sul mercato. La maggior parte di loro accettò il reintegro, ma ci furono alcuni – fra cui Fernando Redondo – che ne approfittarono per andarsene gratis.
Oltre alla mancanza di soddisfazioni in campo, la fede dei tifosi dell’Argentinos Juniors venne messa a durissima prova nel 1993, quando fu deciso di cambiare nuovamente il terreno di gioco. Non più il vicino stadio del Ferro Carril Oeste, bensì stavolta il Malvinas Argentinas di…Mendoza, ad oltre 1000 km dalla capitale.
La scelta fu una mossa orchestrata dall’AFA e TyC Sports (abbreviazione di Torneos y Competencias Sports, il canale TV del Gruppo Clarin) con l’obiettivo di portare il grande calcio negli emisferi più lontani del Paese. Dal 1985, infatti, nessuna squadra della provincia di Mendoza disputava la massima serie argentina.
“Tanto alla città di Buenos Aires avanzano le squadre: una più, una meno, che differenza avrebbe fatto?”, avranno pensato Julio Humberto Grondona e i suoi compagni di merende.
La maggior parte delle spese del “trasloco” andarono a carico di TyC Sports, e il club ricevette un rientro economico. Per aiutare a mandar giù un boccone così amaro, ai tifosi furono fatte delle promesse, che ovviamente non furono mantenute.
La prima, il ritorno di Diego Armando Maradona – che finì invece al Newell’s – e poi quella di rinforzare la squadra a dovere per puntare di nuovo ai piani alti della classifica. Arrivarono alcuni giocatori di nome, come Roberto “El Toro” Acuña o il portiere colombiano Faryd Mondragón, ma in generale la campagna acquisti fu insoddisfacente.
L’Argentinos Juniors esordì a Mendoza proprio contro il Newell’s – Maradona non giocò in quanto infortunato – ma la risposta del pubblico locale non fu quella aspettata. Le tribune rimasero sempre mezze vuote, con lo stadio che riuscì a riempirsi solo per le visite di Boca Juniors e River Plate.
Da La Paternal, salvo alcuni barra bravas, il cui viaggio veniva spesato, nessun pazzo si degnava di farsi 12 ore di macchina per seguire la propria squadra. È pur vero che una pasión es una pasión, e che va al di là di qualsiasi ostacolo, ma a tutto c’è un limite.
In pratica, nel periodo passato a Mendoza, l’Argentinos Juniors giocò sempre in trasferta. Tale disagio si rispecchiò poi nei risultati in campo: nella prima stagione infilò appena due successi “casalinghi”, mentre nella seconda nessuno.
Il promedio era ancora troppo buono per essere invischiati nella lotta per non retrocedere, ma il conto venne pagato un paio di stagioni più tardi, nel 1996, quando l’Argentinos Juniors salutò la massima categoria del calcio argentino dopo 41 anni ininterrotti passati in Primera.
Il ritorno alle origini e la rinascita
Oltre che nel nord-ovest dell’Argentina, in quegli anni l’Argentinos Juniors giocò come locale addirittura negli Stati Uniti. Accadde nella Supercoppa Sudamericana del 1995 contro l’Atletico Nacional de Medellin. Stavolta la sede scelta fu l’Orange Bowl di Miami, stadio di solito usato per il football americano e che fu teatro della mitica scena del film I due Superpiedi quasi piatti , quella dove Bud Spencer e Terence Hill se la vedevano con Geronimo e la sua banda.
L’esperimento di Mendoza durò, per fortuna, lo spazio di un paio di stagioni. Poi l’Argentinos Juniors fece ritorno alla capitale, di nuovo in affitto: stadio del Ferro Carril Oeste, quello dell’Atlanta e persino lo stadio España – oggi Nueva España – dimora del Deportivo Español. In mezzo a tutto questo caos, comunque, il vecchio stadio de La Paternal era finito nell’abbandono più totale. Le tribune di legno tutte consumate e a rischio crollo, il campo pieno di erbacce.
In più, i giovani del barrio, senza più una squadra locale con cui indentificarsi, iniziarono a tifare altro: River, Boca o Velez. Qualcuno persino i vicini dell’Atlanta, gli storici rivali. Di certo a Buenos Aires la scelta non mancava.
Così, tutti si convinsero che l’unica soluzione per non far morire il club era quella di ripartire dalle origini, riportare l’Argentinos Juniors nel suo luogo di appartenenza e farlo riavvicinare alla sua gente. La squadra doveva tornare a La Paternal.
L’Argentinos Juniors fu promosso di nuovo in Primera, anche se nel 2001 retrocesse ancora. Tuttavia, per il popolo del Bicho era arrivato finalmente il momento di scorgere la luce in fondo al tunnel. I lavori per riabilitare La Paternal erano in dirittura d’arrivo e l’impianto venne completato a fine 2003. Da allora porta il nome di Diego Armando Maradona.
Sei mesi più tardi, dopo essere finalmente tornata a giocare nel suo stadio, la squadra allenata dalla leggenda Batista e con un giovanissimo Lucas Biglia in campo, ottenne la promozione in Primera.
Da allora l’Argentinos Juniors è una realtà del fútbol argentino. Nel 2010 ha vinto il Torneo Clausura con Borghi come tecnico, e malgrado due ulteriori retrocessioni (2014 e 2016), negli ultimi anni si è stabilizzato, ottenendo spesso discreti piazzamenti e puntando esclusivamente sui giovani.
Dal 1979 l’Argentinos Juniors ha infatti sempre schierato titolare almeno un giocatore cresciuto nel proprio settore giovanile, che non a caso è chiamato il Semillero del Mundo.
Da qui, oltre Maradona, Batista, Borghi e Redondo, è uscita infatti gente del calibro di Juan Román Riquelme, Esteban Cambiasso, Juan Pablo Sorin, Lucas Biglia e molti altri. Una lunga lista che comprende anche Alexis Mac Allister, centrocampista in forza al Liverpool e protagonista del Mondiale vinto dall’Albiceleste in Qatar.
Lo stadio è attualmente in rimodellamento: è previsto un restyling che dovrebbe portare all’aumento della capienza fino a 30000 spettatori e la modernizzazione delle infrastrutture.
Specie dopo la morte di Maradona, La Paternal si è convertita in un luogo di pellegrinaggio. All’interno dello stadio vi è infatti un museo dedicato alla storia club. Il tour guidato, oltre che vedere tribune, campo, sala stampa e spogliatoi, comprende la visita al Santuario dedicato al “Pibe de Oro”. Una specie di…“chiesa maradoniana”, una stanza dotata persino di altare, dove vi è la possibilità di venerare l’altro Dio, quello del fútbol.
Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.
Immagine di copertina, foto e video (dal canale Youtube ) del testo sono dell’autore.