Marcell Jacobs e compagni: che notte questa notte!
Giugno 9, 2024Per capire cosa significhi questa notte per me bisogna partire da lontanissimo.
Esattamente mezzo secolo fa: settembre 1974.
Da meno di un mese Nixon si è dimesso per lo scandalo Watergate da presidente degli Stati Uniti.
Da poco più è terminata la dittatura dei colonnelli in Grecia. E in Portogallo è in corso la rivoluzione dei garofani.
Anche i Mondiali di calcio hanno riflettuto l’avanzata del nuovo, il calcio totale olandese, e la sconfitta del vecchio, la nostra nazionale anziana e logora.
Si sta concludendo l’estate di “Soleado”, ma adesso al primo posto in Hit parade c’è “…E tu” di Claudio Baglioni.
Non possiamo immaginarlo, ma dopo mezzo secolo la ascolteremo ancora.
Il bambino di nove anni che ero, nell’onnivora fame di conoscenza sportiva che già lo ha coinvolto per calcio, ciclismo, boxe e nuoto, si imbatte in una nuova disciplina: l’atletica leggera.
A Roma si svolgono i campionati europei e i miei ricordi sono flash, rigorosamente in bianco e nero.
La scoperta di nuove emozioni che mi accompagneranno per mezzo secolo.
C’è uno jugoslavo, si chiama Luciano Susanj, e io mi interrogo sul perché abbia nome italianissimo.
Compie un’impresa che due anni dopo, alle Olimpiadi di Montreal, verrà replicata, unicum nella storia, dal mio mito assoluto di quello sport.
El Caballo, il cubano, Alberto Juantorena, che vince 400 e 800 metri.
Negli 800 metri la vittoria di Susanj lascia molto amaro in bocca perché un anno prima il nostro Marcello Fiasconaro ha stabilito un record mondiale fantastico, e fino a metà dell’ultimo giro è ancora al comando. Ma finirà sesto.
E al secondo posto ci sarà un 18enne sorprendente che farà parlare a lungo di sé. Si chiama Steve Ovett.
Tra le istantanee che mi appaiono c’è la doppietta nella velocità della polacca Irene Szewinska, fresca mamma, contro la favoritissima tedesca est Renate Stecher.
Un nostro piccolo e baffuto fondista, Pippo Cindolo, bronzo nei 10.000 e piazzato anche nella maratona.
Un altro mezzofondista capellone e baffuto, il “cuore matto” Franco Fava, beffato alla fine dei 3.000 siepi piazzandosi solo quarto.
Pietro Mennea argento nei 100 dietro Borzov ma oro nei 200, dove il russo bicampione olimpico non si presentò.
La prima importante prestazione internazionale di Sara Simeoni, sorprendente bronzo nell’alto con il pubblico dello stadio Olimpico che dimostrava tutta la sua competenza in materia sportiva scambiando la gara per un derby Roma-Lazio e fischiando fastidiosamente prima dei salti la formidabile tedesca dell’est, Rosemarie Witchas, che tre anni dopo sarà la prima donna al mondo a superare i 2 metri, ma che comunque in quella occasione ritoccò il record mondiale.
Il mio fu un innamoramento in piena regola per un nuovo sport, tanto che dall’anno dopo non mi persi più un meeting (quelli che generalmente venivano trasmessi la sera dopo le 22 su “Mercoledì sport” in sintesi), né l’allora popolarissima Coppa Europa, che ci vedeva lottare regolarmente per evitare l’onta dell’ultimo posto, dietro a colossi come le due Germanie, Russia, Inghilterra, Francia e Polonia.
Per tacer delle successive Olimpiadi, Mondiali, Coppe del Mondo (manifestazione presto abortita), campionati Europei.
Proprio il salto in alto, insieme alla velocità, divenne presto la mia disciplina preferita, anche se nella pratica avevo un discreto talento solo per il mezzofondo, che mi portò a un passo dalla fase finale dei Giochi della gioventù.
Correvo dovunque. Per le strade della mia infanzia, a Balduina, salite che mi sembravano il Pordoi (con cima Coppi fissata a via Massimi, per poi riscendere fino a piazza Giovenale). Nelle ville, Pamphili, Borghese, Villa Ada.
Fino allo stop imposto dal cardiologo per qualsiasi attività sportiva a livello agonistico. Avevo 17 anni, era il mitico 1982. Fu un colpo tremendo.
Sapevo che a calcio non ce l’avrei fatta a diventare qualcuno (ero bravo ma non bravissimo, anche se poi ripenso al percorso di Ciro Ferrara e qualche domanda me le faccio). Ma sull’atletica ci contavo.
Su quella mia tattica sparagnina, mutuata dall’etiope Mirus Yifter, o volendo restare in campo nazionale, dal siepista trentino Mariano Scartezzini.
Sempre in fondo al plotone, quasi con l’idea di non reggere il ritmo, quando il traguardo si avvicinava e l’acido lattico cominciava a farsi sentire nelle gambe degli altri ragazzi, davo una brusca accelerata e li sorpassavo quasi tutti.
Sempre in quel periodo un altro connazionale cominciò, con la medesima modalità, ad accumulare successi storici.
Era il ragioniere Alberto Cova, da Inverigo, che deve buona parte della sua leggenda al contagioso entusiasmo con cui Paolo Rosi, probabilmente il più grande telecronista della storia del nostro sport (competente in rugby, atletica e boxe) narrava i suoi rettilinei finali.
Da Carl Lewis a Ben Johnson, dai maratoneti Bordin e Baldini al più recente Bolt, ho assistito alle gesta di campioni veri, semiveri, patacche assolute.
Fino alle magiche Olimpiadi in era COVID. Che in pochi minuti hanno cambiato la nostra storia.
Con il trionfo ravvicinato nei 100 metri e nel mio primo amore, il salto in alto. Marcell Jacobs, Tamberi, e successivamente la staffetta 4×100, nella leggenda.
Dopo mezzo secolo esatto, in un mondo completamente trasformato, gli Europei tornano nella mia città, in uno stadio Olimpico ora irriconoscibile.
In peggio, purtroppo, scempiato da un’architettura oscena che come tutte le opere lasciateci in sorte da Italia ’90 ha arricchito pochissimi e impoverito tanti.
La notte vissuta oggi, sia pure con le debite proporzioni (gli Europei stanno alle Olimpiadi come quelli del pallone stanno ai Mondiali), costituisce un unicum difficilmente ripetibile.
3 ori, 2 argenti.
In specialità quasi sempre ostiche per noi (da Ottoz sono passati quasi 60 anni, da Andrei una quarantina buona).
Addirittura doppietta nei 100 metri. Jacobs e Ali.
Il 90% dei trionfi ottenuti da parte di italiani cosiddetti “di seconda generazione”.
Quelli che per qualcuno non possono essere veri italiani (ricordatevene quando andrete a votare).
Abbiamo finalmente delle frecce tricolori di cui poterci vantare.
Non dei bambini che giocano a Guerre stellari in quota, mettendo a rischio l’incolumità propria e quella di chi assiste alle loro trottole. Giovani, belli, forti, laboriosi.
Una generazione che fa ben sperare nel nostro futuro.
E che ci restituisce l’orgoglio di un’appartenenza della quale mai come negli ultimi anni tendiamo a vergognarci.
Perché possiamo essere davvero molto meglio di come ci rappresentano oggi.
Leonardo Da Vinci era uno di noi.
E se il mondo adesso è al contrario, questi sono i ragazzi che lo raddrizzeranno.
Testo di Paolo Palazzo. Autore del podcast “Anni Mondiali” insieme alla moglie Dina Curione.
Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.