Panenka ’76

Panenka ’76

Giugno 15, 2024 0 Di Philip Supertramp

Durante il mio periodo Erasmus c’era una sera che presentava i crismi della sacralità.

Tutti pensereste al fine settimana e al famoso “botellón”, ma quella è un’altra storia. A Valencia avevo trovato un gruppo di amici spagnoli con cui ogni lunedì alle 20:00, cascasse il mondo, si giocava a calcetto. C’era sempre da portare “dos camisetas”, una blu e una rossa, per poi fare le squadre. Quando venivo schierato con i Rossi, tutto orgoglioso indossavo la numero 10 di Totti. Una di quelle sere, subii un fallo dentro l’area e “fischiammo” calcio di rigore. Con quella maglietta non potevo che rimanere fedele al mio idolo e provare il cucchiaio. Fortunatamente segnai la rete e al momento del gol ascoltai Woow, un Panenka!”. Mi girai ed esclamai “¡Qué Panenka, se llama cucchiaio!”

Nascita di un Panenka

Era il 2 dicembre del 1948 quando, nel quartiere di Vinohrady a Praga, nacque Antonin Panenka. Da pochi anni era finita la Seconda guerra mondiale e la capitale cecoslovacca, che nel 1939 era stata conquistata da Hitler, era stata l’ultimo baluardo nazista. Con la fine della guerra tutti i cecoslovacchi con origini etniche ungheresi e tedesche furono espulsi dal Paese (per gli ungheresi nel 1948 l’esilio fu revocato) e nel 1946 il KSC (partito democratico slovacco) vinse le elezioni, ma solo due anni dopo i sovietici, con l’aiuto di un golpe, presero il controllo del Paese.

In pochi anni, la città di Praga era passata dalla paura nazista al controllo sovietico. In questo ambiente di dominio straniero crebbe Antonin. Fin da piccolo il ragazzo passava l’inverno a giocare a hockey sul ghiaccio, mentre l’estate correva per tutte le strade della città dando calci al pallone. Fino a quando all’età di nove anni, grazie a un provino, venne scelto dai Bohemians Praga.

Da quel momento crebbe sotto l’ala di suo padre – ex calciatore – che aveva appeso le scarpe al chiodo precocemente a causa di un infortunio in moto. Da giovane di belle speranze si trasformò in un centrocampista dotato di un’ottima tecnica e una gran visione di gioco. A 19 anni esordì con la prima squadra. Era il 1967 e il governo comunista obbligava tutti a lavorare. Antonin si svegliava alle 4:30, andava a lavorare alla CDK, per poi nel pomeriggio presentarsi agli allenamenti. Il praghese vestì per 14 anni la maglia dei Bohemians, diventando capitano e perno della squadra, fino a quando nel 1981 decise di trasferirsi al Rapid Vienna.

Il primo, un rivoluzionario

Il trasferimento fu un vero e proprio cambio rivoluzionario per il calcio cecoslovacco: fino a quel momento era vietato a tutti i calciatori del Paese andare a giocare all’estero e Antonin rappresentò il primo di un’ondata di calciatori che, a causa delle pressioni estere, riuscì ad andare a giocare fuori.

Al Rapid Vienna rimase per quattro stagioni, in cui giocò 127 partite e segnò 63 gol, e vinse due Bundesliga e tre Coppe d’Austria.

Panenka, però, non venne ricordato per la sua carriera nei club, bensì per l’Europeo del 1976. Quell’estate in Jugoslavia si svolse l’ultima edizione del Campionato Europeo con solo quattro squadre partecipanti alla fase finale: Cecoslovacchia, Germania Ovest, Olanda e, l’organizzatrice, Jugoslavia.

La Cecoslovacchia era vista come l’outsider del torneo, mentre la Germania Ovest campione del mondo in carica favorita per la vittoria finale, insieme all’Olanda, che non era più l’Arancia Meccanica, ma rimaneva una delle migliori squadre al mondo.

Nonostante la squadra allenata da Václav Ježek fosse considerata la cenerentola del torneo, il suo cammino per la qualificazione al torneo non fu facile. Vinse il Gruppo 1 con Inghilterra, Portogallo e Cipro e poi ai quarti batté l’Unione Sovietica di Blokhin, una delle squadre più forti dell’epoca.

Questa sfida, l’ultimo scoglio per andare in Jugoslavia, si giocò su due partite, con la Cecoslovacchia che vinse 2-0 in casa e pareggiò 2-2 in trasferta.

Gli Europei del 1976: l’inizio di una leggenda

L’Europeo iniziò il 16 giugno, allo stadio Maksimir di Zagabria, con la prima semifinale Cecoslovacchia-Olanda. Mentre il giorno successivo allo stadio Rajko Mitić di Belgrado, conosciuto a tutti come il “piccolo Maracanã”, si disputò Jugoslavia-Germania Ovest. Tutti si aspettavano che la finale fosse una rivincita della finale del mondiale di due anni prima, tra tedeschi e olandesi, ma nella prima sfida ad andare in vantaggio furono i cecoslovacchi con un gol di Ondruš su una punizione di Panenka.

Sotto una pioggia battente il primo tempo finì con la squadra di Ježek in vantaggio, ma nel secondo tempo l’espulsione di Pollák (60′) e la crescita degli Orange portarono al pareggio con Ondruš (73′) che segnò ancora, tuttavia questa volta nella porta sbagliata. Cruijff e i compagni pensarono di avere la rimonta in tasca, ma quando anche Neeskens si fece espellere, negli ultimi 15 minuti si tornò a giocare in parità numerica e la Cecoslovacchia tornò a crederci. Quando a Zagabria si raggiunsero i tempi supplementari, a segnare fu proprio la Cenerentola con Zdeněk Nehoda e František Veselý.

Johan Neeskens: l’apparente paradosso del ‘secondo’ universale

Il 17 giugno, nella seconda semifinale, ad andare in vantaggio per 2-0 furono i padroni di casa, prima con un gran gol di Popivoda e poi con Džajić, complice una brutta uscita di Maier. Belgrado era in festa al 45esimo, la finale per i padroni di casa sembrava a un passo, ma mai dare per vinta la Germania. Nel secondo tempo Flohe e Müller portarono il risultato sul 2-2 e ai supplementari l’attaccante del Colonia segnò altri due gol. A fine partita, quando a Dieter Müller, autore della tripletta, venne chiesto della finale, rispose: “La finale si è giocata stasera e l’ha vinta la Germania”.

La finale Cecoslovacchia – Germania Ovest

Il 20 giugno al Maracanã di Belgrado si disputò la finale e i cecoslovacchi partirono fortissimi e segnarono due gol nella prima mezz’ora con Švehlík e Dobiaš. I tedeschi, per la seconda volta in 4 giorni, erano sotto di due gol, ma, come ogni volta, Müller mise il suo zampino e, tre minuti dopo il secondo gol slovacco, segnò il 2-1. Passarono 60 minuti e la Cecoslovacchia resistette all’assalto tedesco, fino allo scadere dei tempi regolamentari. Come in un film del regista cecoslovacco Miloš Forman, che qualche mese prima aveva vinto l’Oscar con “Qualcuno volò sul nido del cuculo” – Holzenbein freddò tutti e segnò il 2-2. Per la terza volta in tre partite si andò ai supplementari, e, dopo 30 minuti di agonia, per la prima volta nella storia si risolse una finale ai calci di rigore.

La decisione di andare ai calci di rigore fu presa la mattina stessa, tanto che alcuni calciatori non ne sapevano nulla. Fino a quel momento, quando un match di una fase finale di un torneo finiva in pareggio dopo i tempi supplementari, si doveva ripetere la partita come nella finale azzurra dell’Europeo del 1968 contro la Jugoslavia, o si decideva con il lancio di una monetina, come nello stesso torneo quando Facchetti dovette lanciare una moneta da cinque franchi svizzeri per decidere chi fosse la vincitrice della semifinale contro l’URSS.

Panenka e un modo di calciare i rigori che avrebbe preso il suo nome

A battere dagli undici metri iniziò la Cecoslovacchia e i primi sette calci di rigore andarono a segno, fino a quando Uli Hoeneß della Germania Ovest sbagliò, mandando il pallone sopra la traversa. Si era arrivati a un momento cruciale del match. Sotto gli occhi di Beckenbauer (ultimo rigorista tedesco), Panenka si presentò davanti a Sepp Maier.

Il centrocampista dal folto baffo all’ingiù, come delle corna di toro al contrario, e dalla liscia chioma nera, prese una lunga rincorsa, tanto lunga che al momento del fischio dell’arbitro non apparve nemmeno nella telecamera. Al momento del contatto del pallone, l’accarezzò da sotto e Maier, che si era tuffato a sinistra, non poté far altro che guardare questa leggera parabola entrare a mezza altezza al centro della porta. Con la stessa strafottenza con cui tre giorni prima Müller aveva dichiarato di aver già vinto la finale.

Con quel tiro, la Cecoslovacchia vinse il suo primo e unico titolo europeo, e da quel momento Panenka divenne immortale. Il rigore di Panenka ebbe un impatto duraturo sia nel calcio che nella cultura popolare. Fu visto come un simbolo di coraggio e audacia, un gesto che incarnò la fiducia di un giocatore nelle proprie capacità. Esecuzioni simili vennero tentate da molti altri calciatori nel corso degli anni.

Imitato da pochissimi: dal panenka al cucchiaio di Totti, Pirlo e Zidane

Uno dei più celebri “panenka” nella storia recente fu il “cucchiaio” di Francesco Totti contro l’Olanda nella semifinale dell’Europeo del 2000. Anche Totti, in un momento di altissima pressione, riuscì a realizzare un tiro morbido e centrale, ispirato dall’audacia di Panenka. Dopo di lui, anche Zinedine Zidane nella finale della Coppa del Mondo del 2006 e Andrea Pirlo negli Europei del 2012 eseguirono rigori simili. Tuttavia, nessuno potrà mai replicare completamente l’originale Panenka, sia per il contesto, sia per il momento storico.

Ma come venne a Panenka l’idea di calciare in questa maniera dagli undici metri? Antonin, dopo ogni allenamento, rimaneva con il suo portiere Zdeněk Hruška a esercitarsi dal dischetto e, per renderlo più entusiasmante, scommettevano. Alla fine, Hruška lo conosceva così bene che ogni volta Panenka doveva inventarsi una nuova maniera di concludere per non perdere la scommessa. Ci si giocava un bicchiere di birra o di cioccolata calda. Ma quella sera a Belgrado, un Panenka fece la storia del calcio, brevettando un modo di calciare i rigori geniale e beffardo, appannaggio di pochissimi, per i rischi di brutta figura connessi al gesto.

Ma che, da quel giorno del ’76, vivrà per sempre nella memoria degli appassionati di questo gioco.