Don Andrés Iniesta: il momento giusto per manifestarsi

Don Andrés Iniesta: il momento giusto per manifestarsi

Giugno 22, 2024 0 Di Juri Gobbini

“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore
Non è mica da questi particolari
Che si giudica un giocatore
Un giocatore lo vedi dal coraggio
Dall’altruismo e dalla fantasia”
(Francesco De Gregori – La Leva Calcistica Della Classe ’68)

27 giugno 2012, Donbass Arena di Donetsk. Vicente del Bosque, atteggiamento impassibile e sguardo fisso sul campo, iniziò ad osservare i propri giocatori. Al suo fianco, brandendo nervosamente un foglio di carta, il fido assistente José Antonio Grande.

Il Portogallo era stato un osso duro. La semifinale dell’Europeo sarebbe stata adesso decisa ai calci di rigore. In palio, non solo un posto nella finale di Kiev, ma la possibilità di conquistare qualcosa di grande. Quello che nessuna nazionale al mondo era riuscita a fare prima di allora: vincere tre tornei internazionali consecutivi.
L’ultima volta che la Spagna si era trovata a giocarsi un passaggio del turno ai rigori era stato quattro anni prima contro l’Italia.

Erano i quarti dell’Europeo 2008, il torneo dove gli spagnoli si erano messi alle spalle decenni di cocenti delusioni per avviare un periodo d’oro. Periodo che sembrava non volesse finire.

Nella lista dei rigoristi di Del Bosque c’erano già dei nomi. Due che davano garanzie assolute. Xabi Alonso, il tiratore ufficiale, che aveva già segnato dal dischetto contro la Francia nei quarti, e Cesc Fabregas, il cecchino che aveva deciso Spagna-Italia nel 2008. Il basco avrebbe tirato per primo, il catalano per ultimo.
Mancavano però gli altri tre. In queste situazioni serve la tecnica, ma è necessaria soprattutto tanta personalità. Anche nell’offrirsi volontario, facilitando il lavoro del tecnico.

A presentarsi davanti Del Bosque furono Gerard Piqué e Sergio Ramos. Due personaggi agli antipodi, ma anche due che non si tiravano indietro quando c’era da prendersi delle responsabilità pesanti. Su Ramos pesava poi l’errore di qualche settimana prima nella semifinale di Champions League fra Real Madrid e Bayern Monaco. Un tiro finito alle stelle che aveva sancito l’eliminazione dei blancos e che era diventato oggetto di burle nelle reti sociali.

Mancava un tiratore, però. Fra la sorpresa e stupore generale, ecco un altro volontario: Andrés Iniesta. Una scelta normale, negli occhi degli spettatori seduti nel divano di casa, una scelta inusuale per chi invece conosceva bene Iniesta, il quale non era certo un habitué dagli undici metri. Anzi, tutto il contrario.
Gli unici due rigori calciati da Iniesta in 10 anni di carriera con il Barcelona erano stati entrambi parati: il primo nella finale di Coppa Catalunya del 2002 contro il Terrassa, quando il suo errore aveva sancito la sconfitta blaugrana; l’ultimo nel dicembre 2004, contro lo Shaktar Donetsk.

Quell’incontro di Champions League si era giocato poi nello Stadio Olimpico di Donetsk, vecchia dimora dello Shaktar. Un impianto che distava appena poche centinaia di metri dalla Donbass Arena, costruita nel 2009 per ospitare proprio l’Europeo.
Se Iniesta fosse stato superstizioso, nemmeno per sogno si sarebbe fatto avanti. Invece, anche per Don Andrés era arrivato il momento di chiudere il cerchio e mettere da parte le vecchie paure.

La mano del “Sabio”

“Andrés tiene que chutar más” – Andres deve tirare di più. Parole di Luis Aragonés. Che non a caso era soprannominato il Sabio, il saggio.
Iniesta fu una delle facce nuove per i Mondiali del 2006, con il nativo di Fuentealbilla che debuttò in nazionale proprio alla vigilia del torneo, in un’amichevole contro la Russia. In Germania, Iniesta giocò solo la gara della fase di gruppo contro l’Arabia Saudita, ma a partire da lì divenne sempre più centrale al progetto di Luis Aragonés.

Malgrado le indubbie qualità, però, il tecnico madrileno aveva individuato una debolezza nel gioco di Iniesta. Il centrocampista blaugrana era bravo in tutto, ma, secondo il Sabio, mancava ancora di personalità negli ultimi metri. Iniesta stesso, in seguito, avrebbe ammesso di pensare più a servire un compagno meglio piazzato piuttosto che cercare la porta.

Luis Aragonés iniziò a insistere su quest’aspetto, soprattutto a livello mentale. Alla nona presenza in nazionale, il 7 febbraio 2007, Iniesta finalmente si sbloccò con la Selección, firmando il gol con cui la Spagna batté all’Old Trafford l’Inghilterra. Fu un diagonale velenoso, carico di potenza e precisione, quello che si infilò sotto l’incrocio dei pali. Un colpo imparabile per Ben Foster.

Da lì in avanti, Iniesta iniziò ad apparire nei momenti del bisogno. Come solo i grandi campioni sanno fare.
La Spagna concluse il girone di qualificazione a Euro 2008 con 28 punti – davanti a Svezia (26), Irlanda del Nord e Danimarca (20) – grazie a un rush finale dove furono ottenuti 12 punti in 4 partite, incluso gli scontri diretti vinti con le tre rivali principali.

Tuttavia, il cammino delle Furie Rosse era stato un vero campo minato. Senza Iniesta, poi, difficilmente la Spagna si sarebbe rilanciata. E, con ogni probabilità, anche l’avventura di Luis Aragonés si sarebbe conclusa anzitempo.

La panchina del tecnico era infatti in bilico da mesi: le cocenti sconfitte contro Svezia ed Irlanda del Nord, e soprattutto la decisione di non chiamare più Raúl in nazionale. Il Sabio era rimasto afferrato all’incarico con le unghie, ma nemmeno la sua testardaggine e la fiducia dimostratagli dalla Federazione avrebbero potuto reggere ulteriori passi falsi.

Nel doppio confronto contro l’Islanda, fu proprio Iniesta a tirare fuori le castagne del fuoco, apparendo nei minuti finali: a Palma de Mallorca, l’ex centrocampista del Barcelona segnò al minuto 81 il gol della vittoria, mentre in Islanda – dopo che Xabi Alonso aveva lasciato la Roja in 10 dopo venti minuti – realizzò quello dell’1-1, sempre al fotofinish.

“Iniesta de mi vida”

A livello di club, Iniesta ebbe un rapporto abbastanza regolare col gol: 57 reti in 674 partite col Barcelona, una media leggermente inferiore a quella del “gemello” Xavi (85 reti in 767 partite). Ma sarebbe comunque scorretto misurare il suo contributo alla causa solamente attraverso le statistiche.

Con il tempo, infatti, Iniesta, imparò a scegliere i momenti in cui ergersi a protagonista in zona gol. Come con la nazionale, anche a Barcelona lo ricordano per gol determinanti, di quelli che cambiano la storia di un club. Il suo “Iniestazo” a Stamford Bridge ne è l’esempio perfetto: dove anche cecchini come Lionel Messi o Samuel Eto’o avevano fallito, Iniesta era riuscito a trovare il diagonale per battere Petr Cech e spedire i blaugrana in finale di Champions League.

Un gol che ha sicuramente cambiato anche la carriera di Pep Guardiola, il quale ha edificato il proprio curriculum di allenatore vincente sui successi ottenuti nella sua stagione d’esordio al Camp Nou, su tutti quella Champions League.

Ovviamente il gol per cui verrà sempre ricordato Iniesta è stato quello della finale del Mondiale 2010, la rete più importante nella storia delle Furie Rosse. Una rete che rimarrà nella memoria di tutti gli sportivi, non solo quelli spagnoli. E pensare che Iniesta aveva seriamente rischiato di non andarci in Sudafrica: durante tutta la stagione, infatti, si era portato dietro molestie fisiche che gli avevano impedito di trovare la giusta forma.

Anche a livello di morale, la perdita di un amico come Dani Jarque – il capitano dell’Espanyol scomparso prematuramente nell’estate del 2009 – era stato un colpo dal quale Iniesta aveva faticato a riprendersi.
Del Bosque aveva comunque deciso che nell’aereo per il Sudafrica ci sarebbe stato un posto per Iniesta. Questo malgrado nell’ultimo mese e mezzo di Liga il centrocampista aveva giocato appena uno spezzone di quattro minuti contro il Valladolid.

Del Bosque ci aveva visto giusto: le prestazioni di Iniesta furono in crescendo, e il centrocampista si prese la Spagna sulle spalle, guidandola nei periodi di difficoltà, e facendosi trovare pronto nei momenti decisivi. Come nella finale, dove firmò lo storico successo sull’Olanda.

Consapevolezza

Due anni dopo, a Donetsk, Iniesta non era più il fragile giocatore di qualche anno prima. Il ragazzino che aveva pianto a dirotto quando a 12 anni era stato costretto a lasciare la propria famiglia per trasferirsi a Barcelona ed entrare nella Masía. O quello che si era disperato dopo l’errore dal dischetto che era costato al Barcelona la Coppa Catalunya nel 2002.

La delicatezza esteriore, la semplicità dei gesti e l’aspetto angelico erano rimasti intatti. Al contrario di molte persone, che sviluppano un’apparenza esteriore per mascherare le proprie debolezze, la corteccia di Iniesta si era sviluppata verso l’interno: un silenzio o uno sguardo celavano la personalità dei grandi leader.

Non servivano imprese eclatanti per manifestarlo, bensì piccole azioni. Come quella di presentarsi, fra lo stupore generale, davanti a Del Bosque ed offrirsi volontario per calciare un rigore in una semifinale dell’Europeo. Una situazione delicata per qualsiasi calciatore, anche i più esperti. Momenti dove i nervi possono avere la meglio sulla testa e sulle gambe.

Iniesta era però ben consapevole che un campione del suo calibro non poteva nascondersi nel momento di massima responsabilità, soprattutto in una circostanza come quella. Don Andrés non si fece spaventare nemmeno dal precedente errore di Xabi Alonso, che si era fatto ipnotizzare da Rui Patricio.

Si presentò dal dischetto con una calma olimpica. Concentratissimo, tirò forte e deciso, spiazzando il portiere portoghese. Iniesta esultò pacatamente, agitando brevemente il pugno prima di ritornare a centrocampo. Nessun gesto eclatante. Aveva fatto il suo dovere, non solo segnando, ma mostrando agli altri il cammino da seguire.
Sergio Ramos, che calciò come quarto, prese nota: il difensore del Madrid fece tuffare Rui Patricio per poi beffarlo con un tocco morbido centrale. Non proprio un Panenka, ma quasi. Il resto è storia nota: l’errore del portoghese Bruno Alves e il rigore decisivo per gli spagnoli, messo dentro ancora una volta da Fabregas.

In finale, le Furie Rosse demolirono, con fin troppa facilità, l’Italia di Cesare Prandelli, portandosi a casa il terzo Europeo della loro storia, il secondo consecutivo. Iniesta fu votato come Best Player of the Tournament da parte dell’UEFA. Il giocatore spagnolo ottenne il prestigioso riconoscimento senza la necessità di realizzare alcun gol. Rigore contro il Portogallo a parte, naturalmente…

 

Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.

Immagine di copertina tratta da Wikipedia.