Il Diario di Euro 2024, vol. 12: preview della finale

Il Diario di Euro 2024, vol. 12: preview della finale

Luglio 14, 2024 0 Di Alfonso Esposito

Nella dodicesima parte del Diario di Euro 2024, a cura di Alfonso Esposito, riflettiamo sulla “previa” della finale degli Europei fra Spagna e Inghilterra.

Qui le altre puntate [ 1234567891011 ].

Come arriva l’Inghilterra

Su Euro 2024 spira un vento di restaurazione. Non tanto (o non solo) perché tre dei quattro Paesi rappresentati nelle semifinali hanno al vertice delle istituzioni un monarca, ma, soprattutto, perché le due finaliste sono animate dalla ferma intenzione di rinverdire fasti più o meno vicini. Quelli dell’Inghilterra sono, senza tema di smentite, addirittura risalenti al trapassato remoto.

L’aria che si respira nel campo-base di Blankenhain è, ora, più serena di quanto fosse al termine della fase a gironi, quando la nazionale dei tre leoni è stata salutata al passaggio del turno dai fischi abbondanti ed assordanti sia di pubblico che di critica e il quadro assomigliava al fosco ‘Viandante sul mare di nebbia’ di Caspar Friedrich. Southgate se l’è legata al dito, ma c’era poco da impermalosirsi, la sua nazionale giocava davvero male, che è sempre meglio che dire che un gioco vero non lo aveva affatto. In fondo, il primo tempo disputato contro l’Olanda in semifinale è, al momento, quanto di meglio abbiano espresso i sudditi di S.M. Carlo.

Il buon Gareth, dai quarti, ha rispolverato dalla naftalina la difesa a tre – peraltro abbastanza di moda in questa rassegna – e, ci si può scommettere, non si schioderà facilmente da questa convinzione contro la terribile Spagna. In effetti, il terzetto difensivo maschera meglio i limiti di tenuta di Stones, blindandolo con due ‘braccetti’ laterali, e lo stesso Walker appare più a suo agio da centrale destro, piuttosto che come terzino puro.

Le corsie esterne dovrebbero essere presidiate da Saka, reinventato cursore a tutta fascia sulla destra, e da Trippier o dal recuperato Shaw sul fronte mancino, sempre che non si opti per la scelta più prudente di dirottare Trippier a destra (nel suo ruolo naturale) o di rilanciare, sempre lì, Alexander-Arnold e di lasciare a Shaw il compito di occupare il fronte opposto, sacrificando Saka. È nella mediana che il c.t. inglese ripone le sue speranze: Mainoo, per intraprendenza e determinazione, è preferibile a Gallagher e ad Alexander-Arnold al fianco di un Rice che, diciamolo, regista non è. Ma, ridisegnando il proprio assetto tattico, Southgate ha rinunciato alle ali pure accentrando Foden (apparso rigenerato dalla variazione tattica) e Bellingham (ancora troppo in chiaroscuro) alle spalle di Kane.

Ecco, questa potrebbe essere la vera arma che, presumibilmente, il selezionatore albionico potrebbe sfruttare, ingabbiare la cabina di regia iberica del duo Rodri-Fabian Ruiz nel quadrilatero che avrebbe nelle coppie Rice-Mainoo e Foden-Bellingham, rispettivamente, i vertici bassi ed alti. Senza dimenticare che, “God willing”, Southgate può sempre contare sulle milizie ausiliarie costituite da Palmer e Watkins (o lo stesso Toney), che lo hanno salvato contro gli olandesi.

Salvato, sì, perché anche dopo l’accesso alla finale la sua panchina scotta e il povero Gareth è condannato a vincere. Altrimenti nessuno più potrà scollargli dal groppone l’etichetta (infamante) di ‘eterno secondo’ e il suo destino potrebbe essere segnato.

Che il ciel l’assista. Magari, per quanto visto dagli ottavi in poi, pure stavolta gli andrà di lusso e troverà il suo “ass (senza la ‘o’ finale) nella Manica”. Chi conosce l’Inglese ha capito a cosa alludo e perdonerà la battuta licenziosa. Ma quando ci vuole ci vuole.

Qui Spagna

Tutto un gioco di luci. Se l’Inghilterra, finora, con i suoi bagliori ad intermittenza ha ricordato un po’ un malinconico e polveroso presepe fuori stagione, la Spagna, dal canto suo, ha abbagliato tutti con una luminosità sfolgorante, a tratti accecante.

La ‘Roja’ è la favorita d’obbligo per la finale, un percorso netto da prima della classe. Anche perché de la Fuente può contare su interpreti di prim’ordine, i suoi ‘viceré’ sono di ben altra pasta rispetto ai lunatici ‘sir’ di Southgate, che confidano nel loro (datato) lignaggio e in una consistente dote di buona sorte. Il c.t. spagnolo è sicuro del fatto suo, l’undici che prevedibilmente manderà in campo per la gloria finale è più che rodato.

Il quartetto difensivo posto a presidio della porta di Unai Simon ritrova Carvajal e Le Normand – a meno che non si decida di confermare Nacho al fianco di un Laporte sempre più convinto – con Cucurella che sarà pure un Angelo Branduardi prestato al calcio, ma ha dimostrato di conoscere il mestiere di terzino sinistro sia per la fase difensiva che per quella di appoggio.

Sulla mediana, poi, nessun dubbio, Rodri e Fabian Ruiz dettano legge, perché il primo, un Casemiro in versione madrilena (ma non madridista), ha un radar al posto del cervello, mentre il secondo, iscrittosi a buon diritto nella legione degli ex trequartisti riscopertisi brillanti registi, è uno di quelli che il pallone non lo spreca mai, fu quello che ammirai immediatamente nel suo primo ritiro napoletano a Dimaro.

Con questi due a dettare il gioco, per Bellingham e soci c’è poco da stare allegri, se loro prendono in mano il controllo della manovra, si rischia di giocare a palla prigioniera. Anche perché le zolle della trequarti sono calpestate da Dani Olmo, partito riserva e ritrovatosi – grazie a due entratacce assassine di Toni Kroos ai danni del tanto atteso Pedri – titolare inamovibile. Un eroe per caso, un po’ Gianburrasca e un po’ poeta, che si diverte divertendo. In avanti, detto di Morata, che non segna ma crea autostrade del tipo di quelle che da bambini vedevamo solo nei telefilm americani, Nico Williams è un furente cavallo di razza che, però, contro Germania e Francia non ha ripetuto gli sfracelli di cui è capace (Di Lorenzo se lo sogna ancora di notte), mentre Yamal, senza tanti giri di parole, è semplicemente un predestinato, che proprio sabato è diventato appena diciassettenne (auguri!), ma già con questo atto finale può consacrarsi stella di valore indiscusso.

Insomma, de la Fuente, a differenza del visionario don Chisciotte di Cervantes, sa bene che di fronte non si ritroverà giganti, ma solo mulini a vento, che peraltro fanno girare le pale (con una sola ‘elle’, mi raccomando…) in modo macchinoso e macinano farina quel tanto che basta per tirare a campare. Non dovrebbe esserci storia.

Ma, forse, proprio questa è l’insidia maggiore per le ‘furie rosse’, essere troppo sicure di vincere e sottovalutare l’avversario, che potrebbe pensar bene di serrare a doppia mandata la cabina di regia spagnola – magari isolandola nel quadrilatero Rice-Mainoo-Foden-Bellingham – per inceppare l’intero meccanismo avversario. “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura” osservava Sun Tzu. Che si mestiere faceva il generale. E di battaglie, quelle vere, ne capiva.

È stato l’Europeo di…

Sarà, forse, l’Europeo dei giovani. Di sicuro non è stato quello dei centravanti veri, solo Kane, Füllkrug e Mikautadze hanno tenuto alto tale nome, tra ‘nueve’ falsi o posticci c’è stato poco spazio per i bomber veri.

Non è stato nemmeno l’Europeo delle star conclamate, ad uno ad uno son venuti giù, come effimeri astri cadenti, Mbappé, Cristiano Ronaldo, Griezmann e lo stesso Modric, che, però, ci ha almeno regalato una delle emozioni più forti quando si è visibilmente commosso davanti agli elogi del nostro Francesco Repice, gli altri due, invece, erano più preoccupati di smaniare e rivendicare privilegi di rango che il campo, giudice spietato, gli ha negato.

Neppure è stato l’Europeo delle tante stelline nascenti, fuori causa per infortunio Pedri, solo a sprazzi hanno brillato Musiala, Kvaratskhelia, Yildiz, Foden e Saka, hanno proprio deluso, all’opposto, Havertz, Tchouameni e Leão. Il belvedere lo abbiamo ammirato nelle parate di Mamardashvili, negli estri geniali o fantasiosi di Arda Güler, Dani Olmo e Nico Williams, negli scatti di Ndoye, nei ‘soliti’ Rodri, Freuler e Xhaka e nel rilancio in grande stile di Demiral e, soprattutto, Fabian Ruiz.

Ma stasera sono due talenti in erba a contendersi lo scettro di re d’Europa: Jude Bellingham, ombroso e disperatamente solitario come lo Jacopo Ortis di Foscolo, e Lamine Yamal, che sembra appena uscito dalla ‘allegra brigata’ del ‘Decameron’ di Boccaccio. ‘Hey, Jude, don’t be afraid, don’t let me down’, non aver paura, non deludermi, gli direbbero in coro i Beatles, pensa a giocare come sai. Prendi esempio da Lamine, che ha appena tagliato il traguardo dei 17 anni e sembra ancora uno di quelli che, messi zaini e giubbotti a fare da pali, gioca per strada sfidando tutti col sorriso inconfondibile si un eterno ragazzino. Vincerà chi, dei due, ricorderà che il calcio è, nonostante tutto, ancora un gioco.

E si divertirà. Come, lo confesso, ho fatto ieri in spiaggia tra formine, secchielli e onde, con Paolo e Daniele, i pargoletti dell’amico Luca Sisto. Me ne sono visto bene e, ora, ho due nipotini in più. Chi si diverte ci guadagna sempre.

 

Testo di Alfonso Esposito: Avvocato, docente di Diritto Penale alla scuola di specializzazione dell’Università Federico II di Napoli, ha appena pubblicato con la Urbone “LEGGENDAJAX: storia e storie di una svolta epocale”.

Di attaccanti che hanno fatto la storia azzurra ha scritto in “Napoli: segnare il tempo”.

A questo link trovate il suo libro “Il Mito che Insegna”, sul Napoli di Vinicio, edito sempre da Urbone Publishing, per la quale ha pubblicato anche “Alla Riscoperta dell’Est”.

Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.