Belauste e la furia spagnola

Belauste e la furia spagnola

Luglio 24, 2024 0 Di Juri Gobbini

«¡A mí el pelotón, Sabino, que los arrollo!» (José María Belauste).

In un calendario estivo sempre più compresso, il calcio alle Olimpiadi è visto quasi come un intralcio. Da un lato la Coppa America e l’Europeo, da un altro i tour pre-stagionali dei vari club, impegnati in amichevoli di lusso in giro per il mondo.

Tuttavia, quando ancora non esistevano i Mondiali, il torneo olimpico rappresentava l’unica occasione in cui le varie nazionali potevano affrontarsi fra loro a livello globale. Il prestigio acquistato dalle Olimpiadi degli anni Venti lo dimostra, tanto che l’Uruguay si vanta di aver vinto quattro Mondiali e non due. Sullo scudo della Celeste appaiono infatti quattro stelle: i Mondiali del 1930 e del 1950, e le Olimpiadi del 1924 e del 1928, che la FIFA si è però sempre rifiutata di riconoscere.

Il debutto assoluto della Spagna

Le Olimpiadi di Anversa del 1920 furono una pietra miliare per il calcio spagnolo, visto che la Selección fece il debutto ufficiale proprio in quell’occasione. La prima partita in assoluto venne infatti disputata il 28 agosto 1920 a Bruxelles contro la Danimarca, gara valevole per il turno inaugurale del torneo olimpico. Patricio Arabolaza, il centravanti del Real Unión, fu l’autore del definitivo 1-0, e questo lo convertì anche nel primo marcatore nella storia della nazionale spagnola.

Allenata da Francisco “Paco” Bru, la Spagna si presentò con alcuni giovani destinati a rimanere nell’immaginario collettivo, come il portiere Ricardo Zamora e il centrocampista Josep Samitier – entrambi del Barcelona – più una colonia ben nutrita di giocatori baschi, dal difensore Pedro Vallana al sopracitato centravanti Patricio, passando per il capitano José María Belauste, il mitico attaccante Rafael Moreno Aranzadi “Pichichi”, gli esterni offensivi Domingo Gómez-Acedo e Francisco Pagaza, e il fantasista Félix Sesúmaga, la stella di quella Selección.

Pichichi, la storia di Rafael Moreno Aranzadi

Tuttavia, era difficile stimare il vero valore della squadra. Il cammino di avvicinamento al torneo, poi, non era stato semplice. Inizialmente a guidarla avrebbe dovuto esserci un triumvirato, ma sia Julián Ruete che José Ángel Berraondo, decisero di abbandonare, lasciando il solo Bru a dirigere le operazioni. Persino qualche giocatore rifiutò il coinvolgimento, chi per motivi di lavoro o studio – tipo il bomber del Barcelona Paulino Alcantara che si stava laureando in medicina – chi per semplice disinteresse, visto che eravamo ancora in una epoca amateur.

Alla fine, Bru riuscì in qualche modo a mettere in piedi una discreta squadra. Come previsto, le convocazioni videro la massiccia presenza di calciatori baschi, ben 13. Non fu certo una sorpresa, comunque, visto che il calcio spagnolo era dominato in quegli anni dai club del nord. Nel 1920, infatti, l’Athletic Club vantava già sette Coppe del Re nella propria bacheca, mentre nel periodo fra il 1913 e il 1925, almeno una squadra basca era arrivata in finale.

La Furia spagnola

La vittoria sulla Danimarca, che era stata medaglia d’argento nelle due precedenti Olimpiadi, caricò di entusiasmo l’ambiente. L’euforia fu però subito spenta dalla successiva sconfitta contro padroni di casa del Belgio che il giorno dopo batterono la Spagna per 3-1 nei quarti di finale.

La sconfitta con il Belgio non significò però il rientro a casa della Selección. La Spagna, infatti, venne inserita assieme a Svezia, Italia e Norvegia (le perdenti dei quarti) in un torneo di consolazione, creato con il cosiddetto “Sistema Bergvall”, un intrecciato metodo ideato da un giornalista e dirigente sportivo svedese, l’ex pallanuotista Eric Bergvall, ed usato all’epoca per stabilire i piazzamenti finali.

La successiva squalifica della finalista Cecoslovacchia – ritiratasi per protesta durante la finale col Belgio sul punteggio di 2-0 per i padroni di casa – e il rientro anticipato a casa della semifinalista Francia, aumentarono poi l’importanza di tale torneo di consolazione. La vincente, infatti, avrebbe sfidato l’Olanda, con in palio la medaglia d’argento.

Inizialmente, anche la Svezia aveva lasciato intendere che si sarebbe ritirata dal torneo. Poi, però, gli scandinavi fecero dietro-front e si presentarono regolarmente in campo. Il primo settembre 1920 allo stadio Broodstraat di Anversa andò così in scena Spagna-Svezia, partita finita 2-1 in favore degli iberici e che sarebbe entrata nella storia del calcio spagnolo, ma non certo per la qualità delle giocate viste in campo.

Sesúmaga: il primo marcatore di Spagna-Italia ad Anversa 1920

Le due squadre, infatti, se le diedero di santa ragione, in barba allo spirito olimpico. Al termine della gara, solo sette svedesi e otto spagnoli conclusero l’incontro, mentre gli altri si trovavano a bordo campo, malandati, per farsi curare le ferite. All’epoca i contatti erano molto più permessi rispetto ad oggi, ma ciò non giustificò tale “carneficina”, che fece assomigliare la sfida a un duello rusticano.
Scandalizzate, sia la stampa belga che quella olandese non ci andarono troppo per il sottile.

Furono loro a tirar fuori la parola “Furia”, riferendosi alla prestazione offerta dalla Spagna. E non certo per lodarla. Tutto il contrario: l’espressione “Furia spagnola” è difatti storicamente legata al sanguinoso saccheggio delle Diciassette Province da parte delle truppe spagnole durante la Guerra degli Ottant’anni. Quello d’Anversa, avvenuto nel novembre del 1576, risultò poi il massacro più feroce.

Belauste e un gol mitologico

Nonostante l’importanza della vittoria, la leggenda della “Furia” non sarebbe mai passata alla storia se non fosse stata accompagnata da un gol come quello segnato da José María Belauste.

Belauste era il capitano sia della nazionale che dell’Athletic Club. Erano tempi in cui andava in voga il 2-3-5, modulo in cui il mediano aveva l’importante ruolo di fulcro e polmone della squadra. Il primo bastione da interporre davanti alla difesa, ma anche colui che, con il suo carisma, spingeva il resto della squadra in avanti. Non a caso, molto spesso, il giocatore in questione ricopriva anche la funzione di capitano.

Belauste era un maciste di 193 cm di altezza e 95 kg di peso. Un fisico erculeo, scolpito anche dalla pratica di alcuni sport rurali baschi, tipo il lancio della palanca, una barra di ferro utilizzata nelle miniere. Malgrado la descrizione preliminare possa dipingerlo come un energumeno grezzo e incolto, sarebbe sbagliato considerarlo tale, dato che Belauste era una persona istruita che di mestiere faceva l’avvocato e che nel tempo libero amava dipingere. Ma in campo era indubbiamente uno che non mollava mai, un avversario decisamente difficile da buttare giù.

Gli svedesi passarono in vantaggio nel primo tempo con Albin Dahl, ma nella ripresa gli spagnoli riuscirono a ribaltare il risultato, con Domingo Gómez-Acedo che marcò il definitivo 2-1. Nel mezzo, però, la rete di Belauste. Una delle più importanti marcature segnate con la maglia della Roja.

Dotato di un feroce colpo di testa, non era raro vedere Belauste inserirsi dalle retrovie e appoggiare l’azione d’attacco, pronto a sfruttare il proprio fisico sui palloni alti. Con la Spagna alla disperata ricerca del pari, il centrocampista basco non ci pensò due volte e si gettò in area, pronto a ricevere un passaggio dalla fascia laterale.

Quando Sabino Bilbao finalmente crossò, Belauste, usando tutta la propria stazza, si fece largo di prepotenza in mezzo alla difesa svedese e insaccò di testa la rete del pari. Un gol accompagnato da una frase attorno al quale venne creato il mito della “Furia Spagnola”: «¡A mí el pelotón, Sabino, que los arrollo!» [A me il pallone, Sabino, che li butto giù!].

Ovviamente, ci furono dubbi se Belauste avesse mai pronunciato tale frase. Alcuni sostennero invece che avesse chiamato semplicemente palla, urlando in basco: «¡Sabino, aurrera!» [Sabino, avanti!]. Ma la versione più romantica e mitologica fu quella che avrebbe accompagnato per sempre quel gol, visto che dava maggior enfasi al leggenda della “Furia”. In quelle parole, in quel gol, c’erano infatti tutti gli ingredienti necessari per trionfare in campo: virilità, forza di volontà, capacità di non mollare mai, energia e patriottismo.

Una storica medaglia

Nel citare la “Furia Spagnola”, l’obiettivo della stampa locale era quello di mettere evidenza quanto aggressivi, rozzi e picchiatori fossero i giocatori della Selección. Invece, quell’ignobile paragone fu recepito come una lode. La “Furia” divenne così una componente indispensabile per il raggiungimento l’obiettivo, e da quel momento sarebbe andata a braccetto per sempre con la Selección. Anche oggi ci si riferisce alla nazionale spagnola come le “Furie Rosse”.

Il torneo della Spagna proseguì infatti con un’altra vittoria epica, quella sull’Italia per 2-0. Una ulteriore partita a cui destinare una pagina di storia, visto che la Spagna giocò in dieci dal minuto 35 – fuori Pagaza per infortunio – e in nove dal minuto 79, quando Zamora fu espulso per aver dato un ceffone all’attaccante italiano che lo aveva ostacolato.

Ricardo Zamora, El Divino tra mito e realtà

Con l’attaccante Marcelino Silverio improvvisato portiere, gli spagnoli tennero duro – grazie alla “Furia” ovviamente – e si imposero grazie alla doppietta di Sesúmaga.

Paradossalmente, la finale per il secondo posto risultò più facile del previsto. Un’altra doppietta di Sesúmaga mise la sfida sui giusti binari, e, dopo il gol olandese, toccò stavolta a Pichichi chiudere l’incontro con la rete del 3-1. La Spagna portò a casa così una medaglia d’argento, e una folla festante aspettò la spedizione al rientro in treno ad Irún.

Quella contro l’Olanda fu però anche l’ultima partita di Belauste con la nazionale spagnola. Nell’Olimpiade del 1924, ad ormai 35 anni, il mediano basco fu convocato di nuovo, quasi un premio alla carriera, visto che il suo posto da titolare in squadra – così come nell’Athletic Club – era stato preso dal giovane Jesús Larraza.

Non fu comunque un’Olimpiade fortunata, quella di Parigi: la Spagna venne sconfitta dall’Italia al primo turno per colpa di una autorete di Vallana, e Belauste si congedò dalla Selección senza scendere in campo.

Belauste è stato uno dei giocatori storici dell’Athletic Club, con sette Coppe del Re e sette Campionati del Nord (all’epoca la Liga unificata non esisteva ancora) vinti, oltre alla Medaglia d’Argento conquistata alle Olimpiadi con la Spagna.

In più, una volta appesi gli scarpini al chiodo, oltre a continuare la propria professione di avvocato, divenne molto attivo in politica. Suo fratello Federico fu uno dei fondatori del PNV (Partido Nacionalista Vasco), di cui Belauste fu dirigente molto tempo. Tale militanza politica lo costrinse però all’esilio durante la dittatura di Franco, e fu in Messico dove Belauste passò gli ultimi anni di vita, lontano dalle sue terre natali.

Oltre un secolo dopo, nel 2024, la Spagna è tornata a trionfare in un torneo internazionale. Dall’epoca di Belauste n’è passata di acqua sotto i ponti, e la Selección ha con il tempo abbandonato la Furia lasciando spazio a un calcio differente, meno impulsivo e aggressivo ma più raffinato e bello a vedere.

Tuttavia, nella squadra di Luis de la Fuente –ex giocatore dell’Athletic Club – hanno trovato posto tanti giocatori baschi, navarri e persino due francesi adottati dall’Euskal Herria come Aymeric Laporte e Robin Le Normand. E basco è stato anche l’autore del gol decisivo nella finale, Mikel Oyarzabal.

Semplice casualità o segno del destino?

 

Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.

Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.