Laurie Cunningham, un calciatore differente
Ottobre 25, 2024La rivalità fra Real Madrid e Barcelona è sempre stata il motore che ha trascinato la Liga. Il Clásico come momento clou della stagione, un evento seguito in qualsiasi lato del mondo. La competizione fra le due grandi di Spagna ha regalato non solo emozioni ma anche momenti di estrema tensione, sia dentro che fuori dal campo. Chi non si ricorda della testa di cochinillo lanciata a Luis Figo o della infuocata rivalità ai tempi di José Mourinho e Pep Guardiola?
In un contesto del genere, rare sono state le dimostrazioni di affetto verso giocatori avversari. Al Bernabéu si tolsero il cappello di fronte a Diego Armando Maradona, Ronaldinho, Andrés Iniesta e di recente a Lamine Yamal. Anche se, in quest’ultima occasione, durante una gara della Spagna e non dopo un Clásico. Pure il Camp Nou si è arreso di fronte a una prestazione di un giocatore del Real Madrid. Accadde il 10 febbraio 1980, quando il pubblico blaugrana omaggiò Laurie Cunningham, il grande protagonista della vittoria madrilena per 2-0.
Laurie Cunningham: un dribbling al razzismo
Nato ad Archway e cresciuto nei pressi di Finsbury Park, nel nord di Londra, Laurence “Laurie” Cunningham era figlio di immigrati giamaicani, che come molti altri erano arrivati in massa in Inghilterra negli anni Cinquanta provenienti dalle Indie Occidentali Britanniche. Manodopera necessaria in tutti i settori per poter ricostruire il Paese dopo la Guerra.
Tuttavia, negli anni Settanta il panorama era cambiato. Malgrado la Commonwealth Immigrants Act (una legge del 1962 che limitava l’immigrazione), la comunità caraibica che viveva in Inghilterra era comunque aumentata grazie alla seconda generazione, i figli di quelli arrivati vent’anni prima.
Una generazione che si considerava (di fatto lo era) come “inglese”, ma che aveva visto le opportunità lavorative ridursi per colpa della crisi economica. Gli impieghi che i genitori avevano svolto non erano più disponibili, mentre il Paese nel quale erano cresciuti non si trovava per niente pronto ad accoglierli nella società.
Erano tempi in cui molti locali esponevano un cartello – “No Irish, No Blacks, No Dogs” – nel quale lasciavano intendere chiaramente le categorie di clienti che (non) desiderassero. Nel 1967 era nato poi il National Front, un partito di estrema destra, i cui adepti si macchiarono di numerosi episodi di carattere xenofobo.
Anche le forze dell’ordine e la giustizia non si trovarono affatto preparate. Le minoranze etniche, infatti, furono prese di mira grazie alla Sus Law, una legge – abolita poi nel 1981 – che dava pieni poteri alla polizia di compiere perquisizioni ed arresti sulla base del semplice “sospetto”. In questi casi quasi sempre qualche giovanotto di colore.
In tale contesto, Cunningham iniziò a sperimentare il razzismo sin da adolescente, quando giocava con l’Highgate North Hill, una squadra giovanile formata per lo più da figli di immigrati. Nei campi della periferia londinese, infatti, offese razziste e minacce erano all’ordine del giorno. Erano gli stessi genitori degli avversari i primi ad inveire contro di loro.
Di fronte agli abusi, al contrario di altri compagni, Cunningham decise però di reagire in silenzio. Non certo per vigliaccheria. La sua risposta arrivò infatti in campo, e le gesta dell’Highgate North Hill non passarono certo inosservate nel panorama calcistico londinese. Per Cunningham si aprirono le porte delle giovanili dell’Arsenal, un onore per uno cresciuto a poche centinaia di metri dal vecchio Highbury.
L’Orient Express
Il calcio inglese stava entrando, almeno a livello di club, nel suo miglior momento: fra il 1974 e 1985 le squadre inglesi vinsero ben sette Coppe dei Campioni, tre Coppe Uefa e una Coppa delle Coppe. Tuttavia, la nazionale era entrata in un punto morto, non riuscendo a qualificarsi né per il Mondiale del 1974 né per quello del 1978.
La vittoria del Mondiale 1966, malgrado la presenza in squadra di alcuni campioni, era stato frutto più dell’acume tattico di Alf Ramsey che del bel gioco espresso dagli inglesi. In generale, il talento puro veniva visto con sospetto. Il singolo era considerato spesso ingestibile, e c’era la paura che affidarsi all’ispirazione di un solo giocatore avrebbe debilitato la struttura. George Best era stato l’esempio perfetto: con lui al top, il Manchester United aveva avuto una marcia in più. Mentre, quando il nordirlandese entrava in campo svogliato o ancora ubriaco della sera prima, tutta l’impalcatura crollava.
Vedere le immagini di qualche video vintage dell’epoca rende bene l’idea di cosa fosse il calcio inglese degli anni Settanta. Campi pesanti al limite del praticabile, lanci lunghissimi da un’area all’altra, ferocia nei contrasti e nel gioco aereo. Ovviamente vi erano anche giocatori di talento, ma in un contesto del genere è logico capire perché l’Arsenal non abbia insistito con un teenager come Cunningham, che per di più era di colore, sinonimo allora di indisciplina, in campo e fuori.
Il luogo comune era che i calciatori di colore fossero bravi ma poco inclini al lavoro sporco, e meno predisposti a seguire le istruzioni dei tecnici. Cunningham stesso sembrava poi prendere poco sul serio il calcio. Quasi sempre in ritardo ad allenamenti e partite, non era insolito nemmeno che si presentasse privo di scarpette da gioco. A volte, poi, spariva intere settimane senza lasciar traccia di sé.
Fu il Leyton Orient, club londinese militante allora in Seconda Divisione, a dargli una seconda chance quando aveva 18 anni. Convocato alle 9:30 di mattina per il trial, il provino, Cunningham si presentò con un’ora abbondante di ritardo, arrivando con nonchalance, quasi fischiettando. Una volta in campo, però, gli bastarono pochi scambi per far capire che fosse un calciatore differente dalla massa e convincere il tecnico George Petchey.
Tecnicamente superbo, la natura aveva dotato Cunningham di un fisico perfetto, atletico e muscoloso. A livello scolastico era stato il migliore in qualsiasi sport praticato. Se non avesse giocato a calcio avrebbe potuto tranquillamente diventare un campione dell’atletica leggera. Oppure un ballerino.
Moda e ballo: le altre passioni di Laurie Cunningham
Crescere a Londra negli anni Settanta, oltre a costringerlo a convivere con il razzismo, aveva dato la possibilità a Cunningham di stare in una delle città che più al mondo ricevevano con anticipo le mode, tendenze che poi venivano copiate negli altri angoli del pianeta.
A livello musicale, Cunningham fu attratto dal soul e dal funk. Il ragazzo aveva la musica nel sangue, passava ore in casa praticando passi per poi effettuarli nei vari locali notturni che iniziarono ad aprirsi a macchia d’olio nella capitale inglese in quegli anni.
Anche nel sociale Cunningham era una mosca bianca: mentre i compagni di squadra si fiondavano nei pub a farsi di birra, lui preferiva locali con della buona musica dove potersi un bicchiere di buon vino. Nella variopinta maniera di vestirsi, invece, Cunningham aveva trovato un altro tratto con cui definire la propria personalità.
Aiutato da una carisma naturale, ogni vestito gli calzava a pennello. Sin dai tempi della scuola Cunningham curava il proprio look alla perfezione, ma fu nel periodo adolescenziale quando iniziò a sbizzarrirsi, cercando nuovi abbinamenti.
Secondo Dermot Kavanagh, autore del libro Different Class: Football, Fashion and Funk – The Story of Laurie Cunningham, l’eccentricità di Cunningham lasciava intendere un desiderio di non conformarsi, tipica di molti adolescenti. Vestirsi in modo così distintivo ed immaginativo era infatti uno strumento per mostrare diversi aspetti della sua personalità.
Il periodo passato all’Orient risultò cruciale nella carriera di Cunningham. Con molte distrazioni in testa avrebbe potuto tranquillamente lasciar perdere il football, visto che anche lì si portò dietro le vecchie abitudini dei ritardi e delle assenze ingiustificate. Petchey, che aveva capito di avere fra le mani un diamante grezzo, iniziò pazientemente a lavorare su di lui, limitandone l’indisciplina, integrandolo nel gruppo e riuscendo a farlo concentrare maggiormente sul calcio.
Gli episodi di razzismo, comunque, non cessarono. Anzi, si elevarono a un nuovo livello. Avere in campo tre giocatori “non bianchi” – oltre Cunningham, c’erano anche Bobby Fischer e Ricky Heppolette – fece del Leyton Orient il bersaglio preferito dei tifosi rivali: ululati, fischi, lancio di oggetti, fra cui banane e persino un coltello, come riportarono i giornali dell’epoca dopo un derby contro il Millwall.
In campo, le prestazioni di Cunningham furono all’inizio irregolari. Poi, con il passare del tempo, il giocatore iniziò a macinare goal ed assist. Oltre al pubblico rivale, anche gli avversari iniziarono a prenderlo di mira, sia verbalmente che fisicamente.
Sempre che riuscissero ad acciuffarlo, comunque: il leggendario Bobby Moore, che a 35 anni era finito a giocare in Second Division con il Fulham, passò un brutto pomeriggio quando si trovò ad affrontare Cunningham, che ridicolizzò lo storico capitano inglese con la sua velocità.
Petchey, oltre ad essere il mentore di Cunningham, fu pure il primo a pubblicizzarlo. Anche in modo alquanto sfacciato. “Se tutti i giocatori avessero il suo talento non ci sarebbe bisogno degli allenatori” – dichiarò il manager dell’Orient al giornale News of the World, aggiungendo che “se [Cunningham] venisse convocato [con la nazionale] magari potrebbe ispirare i giocatori bianchi a migliorare in tecnica invece di pensare solamente a giocare in modo aggressivo.”
Malgrado la presenza di Cunningham, però, nella stagione 1976-77 l’Orient rimase invischiato nella lotta per non retrocedere dalla quale si salvò per il rotto della cuffia. Il club, inoltre, non stava bene economicamente e stella della squadra finì in vendita. La prima offerta per Cunningham arrivò dall’Amburgo, ma alla fine il giocatore rimase in Inghilterra, acquistato dal West Bromwich Albion.
The Three Degrees
Nell’Aprile 1977 Cunningham esordì con l’Under-21 inglese in un gara contro la Scozia, segnando la rete della vittoria. Qualche mese dopo, debuttò finalmente in First Division nel successo casalingo del WBA per 3-0 contro il Chelsea.
Malgrado i tre manager cambiati durante la stagione, il WBA conquistò un dignitoso quinto posto che lo portò a giocare la Coppa UEFA. Il nuovo manager, Ron Atkinson, risultò decisivo nell’ulteriore salto di qualità della squadra e di Cunningham, che divise lo spogliatoio con il centravanti scozzese Alistair Brown, una istituzione da quelle parti, con Bryan Robson, futura leggenda del Manchester United, e soprattutto con altri due giocatori di colore: Cyrille Regis, attaccante originario della Guyana Francese, e Brendon Batson, terzino nato invece nell’isola di Grenada.
Il trio formato da Cunningham, Regis e Batson venne soprannominato The Three Degrees, in onore al gruppo musicale statunitense. I tre furono visti come dei pionieri nella lotta contro il razzismo e la discriminazione, e le loro prestazioni nel rettangolo di gioco fecero da apripista ad una generazione, figli di immigrati, conosciuta comunemente come black british.
Oggigiorno è normale vedere giocatori di colore nella nazionale inglese, come Jude Bellingham o Bukayo Saka.
Ma allora la situazione era ben diversa. Regis e Cunningham furono gli idoli di gioventù di Ian Wright, attaccante famoso per aver vestito le maglie di Crystal Palace, Arsenal e nazionale inglese, ed autore della prefazione del libro di Dermot Kavanagh. Un Wright, anche lui di origini giamaicane, che arrivò al calcio professionistico solo a 22 anni, dopo una lunga gavetta nei dilettanti.
La stagione 1978-79 del WBA fu incredibile: negli ottavi di Coppa UEFA fecero fuori il Valencia di Mario Alberto Kempes, mentre a fine dicembre batterono sia l’Arsenal che il Manchester United. Quest’ultima gara, finita 5-3 e giocata in un Old Trafford ghiacciato, vide il West Bromwich rimontare e sigillare la vittoria con una rete a testa da parte dei “gemelli” Cunningham e Regis, che in campo si intendevano a meraviglia.
Con la squadra in testa alla classifica a gennaio, fu il maltempo a impedire agli uomini di Atkinson di lottare per il titolo. Molti dei campi inglesi furono resi a lungo impraticabili da una anomala e prolungata ondata di freddo, e da marzo in avanti il WBA fu costretto a giocare ogni tre giorni per recuperare le gare non disputate. La squadra accusò la fatica e i giocatori terminarono la stagione in debito di ossigeno. In Coppa UEFA furono eliminati dalla Stella Rossa nei quarti, mentre in campionato arrivarono terzi dietro Liverpool e Nottingham Forest.
Laurie Cunningham: El Negrito
Con la notorietà in forte aumento, Cunningham finì nel taccuino delle grandi, non solo d’Inghilterra. L’attuale situazione contrattuale era alquanto bizzarra, visto che dal suo arrivo – quando era solamente una giovane promessa proveniente dalla Second Division – lo stipendio era rimasto invariato. Due anni più tardi, Cunningham era invece uno dei migliori giocatori del campionato inglese e d’Europa.
Nel 1979 il Real Madrid aveva appena conquistato la sua quarta Liga in cinque stagioni. Tuttavia, i successi domestici dalle parti del Bernabéu hanno sempre contato fino a un certo punto, soprattutto se non accompagnati da trionfi in Europa. Il Real non vinceva la Coppa dei Campioni dal 1966, e nelle precedenti due apparizioni era stato eliminato negli ottavi da Bruges e Grasshoppers, non certo dei giganti del panorama internazionale.
Dopo la morte di Santiago Bernabéu il posto da presidente era stato ereditato dallo storico dirigente Luis de Carlos, il quale decise di sondare il mercato straniero con tre nomi nel taccuino: Karl-Heinz Rummenigge, René van der Kerkhof e Cunningham, in quest’ordine di preferenza.
Secondo articoli dell’epoca il Madrid prolungò fin troppo le tre trattative, e quando apparve chiaro che né Rumenigge né Van der Kerkhof avrebbero vestito di blanco, timorosi che anche Cunningham gli sarebbe sfuggito, chiusero l’affare con il West Bromwich pagando per lui 110 milioni di pesetas, quasi 1 milione di sterline, facendogli firmare un succulento contratto per i successivi cinque anni.
Un investimento pesante, che però sembrò subito dare i suoi frutti: Cunningham esordì con una doppietta contro il Valencia, nella prima giornata di campionato. “Cunningham, nuevo ídolo del Bernabéu”, titolò El Pais. Due settimane dopo Cunningham tornò in rete, stavolta nel Clásico casalingo contro il Barcelona, vinto per 3-2
Il Real Madrid – allenato da Vujadin Boskov – vinse sia la Liga che la Coppa del Re, ma tornò di nuovo a fallire l’assalto in Europa, eliminato in semifinale dall’Amburgo, con un pesante 5-1 incassato in Germania. Una serata dove Cunningham segnò il gol dell’illusione, prima che tutto andasse storto.
Prima del triste epilogo, però, c’era stato il Clásico di ritorno del Camp Nou. Una sfida che mise di fronte i tridenti delle due squadre: da un lato Allan Simonsen, Roberto Dinamite e il giovane Francisco “el Lobo” Carrasco, dall’altra il trio Juanito-Santillana-Cunningham.
L’inglese non si fece spaventare dalla grandezza dell’evento, anzi. Cunningham ridicolizzò letteralmente il terzino destro blaugrana, l’argentino Rafael Zuviría, un tipo duro e tosto che quel giorno non riuscì mai a prenderlo. E alla fine anche il pubblico del Camp Nou si arrese, mettendo da parte la rivalità sportiva e la rabbia della sconfitta, applaudendo Cunningham.
“Todo fue negro para el Barça” , titolò il giorno seguente il Mundo Deportivo. Tali giochi di parole non erano certi rari delle cronache di allora. Usare “negrito” o “moreno” in riferimento a Cunningham era prassi comune fra i giornalisti spagnoli. Malgrado qualche espressione folkloristica, comunque, in Spagna Cunningham non soffrì il brutale razzismo vissuto in patria. La sua presenza, in campo e fuori, non si portava certo dietro i problemi sociali che stava invece attraversando l’Inghilterra in quegli anni. La sua figura stimolava più curiosità che rifiuto.
Tuttavia, il suo essere in qualche modo un outsider finì per ostacolarlo. Specialmente in un club che veniva da quarant’anni di patriarcato con Santiago Bernabéu al comando, in una società, quella spagnola, che ancora non aveva abbracciato la rivoluzione culturale portata qualche anno più tardi dalla Movida Madrileña.
L’inglese terminò la prima stagione in Spagna con 41 partite giocate e 12 reti nel proprio carniere, di cui tre in Coppa dei Campioni. Ciononostante, non tutti ritennero le sue prestazioni all’altezza del prezzo pagato. Già nell’aprile 1980 Boskov si era lamentato della sua incostanza, mentre fra gli addetti ai lavori si dubitava fortemente se il suo stile in campo (e fuori) fosse adatto al Madrid.
In un suo articolo per El País, il giornalista Julian García Candau andò diretto al punto, accusando Cunningham di essersi adagiato alla bella vita madrilena, ed aver vissuto di rendita grazie a qualche sporadica prestazione con cui aveva deliziato il pubblico. Una riflessione dura ma sincera. Secondo il giornalista, era già scritto dall’inizio che Cunningham non fosse la stella che necessitava il Real Madrid.
Un club dove, secondo lui, i “biondi” rendono di più. García Candau ci tenne a specificare che il suo non fosse un commento razzista, ma un semplice dato di fatto. Infine, il giornalista lanciò anche una frecciata al club, accusandolo di “troppo liberalismo” di fronte allo stravagante stile di vita di Cunningham.
Infortuni fatali
Le cose per Cunningham non stavano andando come pianificato. Uno degli obiettivi del giocatore era disputare il Mondiale del 1982, che si sarebbe disputato proprio in Spagna, ma in seno all’Inghilterra c’erano ancora dei dubbi sul suo talento. Cunningham aveva debuttato in nazionale nel 1979, ciò nonostante il tecnico Ron Greenwood decise di non convocarlo per l’Europeo 1980. Alla fine, saranno solo sei le sue presenze in carriera con la nazionale.
In campo, poi, i difensori spagnoli avevano iniziato a prendergli le misure, con entrate ai limiti del regolamento. Giusto per evitare la fine che aveva fatto Zuviría. La sliding door della carriera di Cunningham arrivò 16 novembre 1980, quando il difensore del Betis Sevilla Francisco Bizcocho ci andò giù pesante, pestandogli il piede. Cunningham fu costretto ad uscire dal dolore, lasciando intendere la serietà dell’infortunio.
Tuttavia, due settimane dopo si sarebbe giocato un nuovo Clásico, e i medici diedero il via libera affinché Cunningham disputasse la sfida del Camp Nou. Una cattiva decisione che vide l’inglese andare sotto i ferri qualche giorno più tardi, perché il pollice del piede era rotto e necessitava un intervento.
Cunningham fu operato un giovedì e rimase in clinica fino al sabato mattina successivo quando venne mandato a casa. La stessa sera fu notato in una discoteca madrilena.
Qualcuno giurò di averlo visto ballare con il piede ingessato, mentre lui si difese ammettendo di esserci andato solo per accompagnare degli amici. La notizia, vera o presunta, venne amplificata dalla stampa e causò un autentico polverone. Cunningham fu multato pesantemente dal club, mentre il recupero, che sarebbe dovuto durare solamente qualche settimana, si protrasse per sette mesi, periodo nel quale tornò di nuovo sotto i ferri.
Malgrado la lunga inattività, fu alquanto sorprendente vedere Cunningham di nuovo in campo il 27 maggio 1981, proprio per la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. La strana scelta di Boskov non pagò, data la sconfitta dei blancos e la prova incolore del giocatore.
Se Cunningham pensava che i giorni più brutti fossero solo un ricordo, il peggio doveva ancora venire: un grave infortunio al ginocchio, all’inizio della stagione 1981-82. L’inglese – operato prima ai legamenti e poi al menisco – rientrò in campo solo a febbraio, ma era chiaro che non sarebbe stato più lo stesso: aveva perso totalmente lo smalto fisico e l’accelerazione, le armi con cui aveva ridicolizzato le difese avversarie.
Cunningham fece in tempo a giocare i quarti di Coppa dei Campioni contro il Kaiserslautern: all’andata aprì le marcature nella vittoria 3-1, mentre al ritorno si fece espellere nel primo tempo per un futile fallo di reazione, una gara dove il Real perse per 5-0, terminando in campo con soli 8 giocatori.
Il sogno di giocare il Mondiale di Spagna era così sfumato, mentre anche il club, con cui aveva ancora due anni di contratto, aveva cominciato a fare terra bruciata intorno a lui, isolandolo.
In una maniera simile al trattamento riservato molti anni dopo a Gareth Bale, accusato di preferire il golf agli allenamenti, anche la reputazione di Cunningham venne rovinata dall’etichetta di “ballerino” e amante della vita notturna.
Così, nell’estate 1982 fu messo persino fuori squadra per far spazio in rosa al difensore olandese Jon Metgod, che ne prese il posto da straniero. Cunningham rimase inattivo fino alla successiva primavera, quando finì un paio di mesi in prestito al Manchester United, chiamato da Atkinson, il suo manager ai tempi del WBA.
Lo stesso Atkinson trovò Cunningham cambiato, non più il giocatore esuberante e la persona allegra che aveva conosciuto qualche anno prima.
Fu proprio il tecnico, nel libro di Dermot Kavanagh, a ricordare che per la finale di FA Cup aveva pensato perfino di schierare Cunningham dall’inizio, ma il giocatore decise di tirarsi indietro, alludendo al fatto che non fosse al 100% e che avrebbe potuto deluderlo. Due anni di infortuni, ricadute e operazioni gli avevano fatto perdere la fiducia nei propri mezzi.
Legato ancora un anno al Real Madrid, e con molti dubbi sulla sua tenuta fisica, per Cunningham fu impossibile trovare un club. Sarebbe tornato volentieri in Inghilterra, ma invece fu Boskov, nel frattempo diventato allenatore dello Sporting Gijón, a chiamarlo per averlo un anno in prestito al Molinón. Una stagione senza pena né gloria, dove però Cunningham riuscì comunque ad avere un minimo di continuità in campo.
La fine di un sogno
Nel 1986 la televisione spagnola realizzò un reportage su Cunningham, nel quale il giocatore stava allenandosi, da solo, nel Parco del Retiro di Madrid. Sembrava una scena degna della saga di Rocky, con un Cunningham sudato e intento a riguadagnare la miglior condizione atletica per rifarsi una carriera nel fútbol.
Nell’andare in giro per l’Europa ad elemosinare un contratto (giocò poi con Leicester, Rayo Vallecano, Olympique Marsiglia, Charleroi, e persino con il Wimbledon della “crazy gang”) c’era infatti la volontà di Cunningham di rimanere agganciato a un sistema che invece sembrava averlo già dimenticato.
Dopo tanti giri, comunque, a 33 anni il suo futuro era a Madrid. Cunningham si era sposato con una ragazza spagnola con cui aveva avuto un figlio, Sergio, il suo secondogenito dopo Georgina, una figlia avuta da un’altra relazione, avvenuta durante il suo passaggio a Gijón.
In campo si era dovuto adattare all’avanzare del tempo: aveva abbandonato l’attacco per arretrare il raggio d’azione e giocare come centrocampista organizzatore, anche se di solito veniva schierato a gara in corso, perché il fisico ormai non dava più garanzie.
Nella stagione 1988-89 Cunningham aveva aiutato il Rayo Vallecano ad ottenere la promozione in Liga e il desiderio del giocatore era quello di continuare ancora a Vallecas per tornare a disputare la massima categoria. Per farlo avrebbe dovuto negoziare un nuovo contratto con il club, ma le trattative stavano andando per le lunghe.
Le sue ultime ore di vita furono confusionarie: una riunione poco fruttifera nella sede del Rayo Vallecano, una misteriosa visita all’Ippodromo assieme a un altrettanto personaggio misterioso, un giovane statunitense di nome Mark Caswell Latty.
Quest’ultimo lo accompagnò anche nella notte madrilena e i due erano assieme in auto nel momento dell’incidente nel quale Cunningham perse la vita. Sinistro avvenuto alle 6 di mattina, pochi chilometri fuori Madrid, quando il giocatore perse il controllo dell’auto e andò a sbattere contro il guardrail.
Cunningham venne sbalzato fuori dal mezzo, mentre l’accompagnatore, che indossava la cintura di sicurezza, miracolosamente si salvò, malgrado numerose ferite.
La figura di Latty fu per anni oggetto di mistero. Qualcuno pensò che potesse essere addirittura implicato nella morte di Cunningham e che la disgrazia non fosse stata un banale incidente stradale. Di lui si erano immediatamente perse le tracce. Nel 2014, la Revista Panenka, dietro suggerimento di un lettore, era riuscita a saperne di più, scoprendo che – triste caso del destino – Latty era morto, 16 anni dopo Cunningham, anche lui in un incidente stradale.
L’eredità
Come ha ricordato Dermot Kavanagh nel suo libro, la notizia della morte di Cunningham in Inghilterra venne riportata con appena qualche trafiletto nei giornali. In Spagna, invece, la stampa diede invece abbastanza spazio alla notizia.
Non è comunque mai tardi per ricordare un personaggio come Cunningham, uno che ha contribuito a rompere le barriere, dribblare il razzismo e cambiare la maniera in cui la società inglese ha iniziato a vedere le gente di colore. Il razzismo non è certo sparito, ma le sue gesta in campo hanno aperto molte porte, sia nel calcio che nella vita di tutti i giorni.
Già nell’Inghilterra che partecipò all’Europeo del 1988 erano stati chiamati John Barnes e Viv Anderson, mentre al Mondiale 1990 si sarebbero aggiunti anche Paul Parker e Des Walker. Nel 1993 Paul Ince divenne il primo capitano di colore della nazionale.
Le stelle dell’Arsenal, il club che aveva scartato Cunningham, erano invece David “Rocky” Rocastle e Michael Thomas, quest’ultimo autore del gol che diede ai Gunners il titolo 1988-89, quello tanto celebrato nelle scene finali di Febbre a 90°. Rete segnata giusto poche settimane prima della morte di Cunningham.
Nel 2016, l’English Heritage ha voluto omaggiarlo con una targa, affissa sulla casa di Lancaster Road, dove Cunningham aveva vissuto da ragazzo. Solamente un altro calciatore ha avuto l’onore di ricevere tale riconoscimento: Bobby Moore, capitano dell’Inghilterra campione del mondo nel 1966.
Anche i club dove Cunningham ha giocato hanno deciso di ricordare la sua figura: nei Coronation Gardens, giardini nei pressi dello stadio del Leyton Orient, vi è una statua a lui dedicata. Mentre, di fronte al New Square Shopping Centre di West Bromwich, si può trovare una scultura raffigurante i Three Degrees.
Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.
Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.