El Pocho Gomez, leggenda misteriosa di El Calafate
Novembre 25, 2024“Ehi Juri, hai visto?” disse Abel indicando una muraglia, che vista da lontano sembrava il recinto di un campo di calcio. Juri annuì, quasi scocciato. Aveva le gambe indolenzite dopo i tanti chilometri percorsi nei giorni precedenti sulle montagne attorno al El Chaltén. Fatiche a cui si erano aggiunti una levataccia mattutina, tre ore di bus e un’altra lunga camminata dal terminal all’ostello. Avrebbe decisamente preferito rimanere in camera a sgranchire la gambe. Con la scusa di fare qualche foto alla riserva naturale, invece, Abel aveva insistito per uscire,
I due amici erano arrivati a El Calafate, in piena Patagonia argentina, in tarda mattinata. Avrebbero voluto organizzare subito una escursione al ghiacciaio Perito Moreno, l’obiettivo principale del loro viaggio. La ragazza dell’agenzia che organizzava i tour glielo aveva però sconsigliato. Troppo tardi. Meglio andarci di mattina, per avere più tempo a disposizione e godere di migliore luce. Per il giorno seguente era previsto poi sole. Le temperature sarebbero arrivate a ben 25 gradi. Una rarità a quelle latitudini. Anche d’estate.
Approfittando così del pomeriggio libero, avevano lasciato l’ostello e si erano incamminati in direzione della riserva naturale della Laguna Nimez e del vicino Lago Argentino. Avevano percorso la Calle Coronel Rosales e poi svoltato a sinistra sulla Calle Almirante Brown. Una zona poco turistica e molto residenziale. Case basse, tanta polvere, qualche carcassa di auto abbandonata e diversi cani che andavano in giro sciolti. Un posto non bellissimo, ma apparentemente sicuro. Non certo una villa, che nel gergo argentino significa proprio l’opposto di quello che vuol dire in italiano. Con villa gli argentini si riferiscono infatti alle baraccopoli, soprattutto quelle che si trovano nelle grosse metropoli.
Fu percorrendo l’Almirante Brown che l’attenzione di Abel venne richiamata da quello che sembrava un piccolo stadio. Si avvicinarono incuriositi alla muraglia di recinzione, sul quale c’era una lunga scritta. Certamente fatta in due diversi periodi di tempo, visto che la prima parte era in grigio scuro, mentre la seconda – probabilmente aggiunta in seguito- di colore blu scuro.
“Estadio Municipal de Futbol Hector “Pocho” Gomez”
Si avvicinarono ai cancelli, che ovviamente erano chiusi. La recinzione era bassa e avrebbero tranquillamente potuto saltare per entrarci. Tuttavia, c’era poco da vedere. Un paio di tribune arrugginite e un campo spelacchiato e secco. Probabilmente irrigato poco o nulla durante l’estate australe.
“Pocho Gomez…Ti dice nulla?” chiese incuriosito Abel.
“Mai sentito nominare” rispose Juri, tirando fuori il telefono dal taschino.
“Dai, controlla un po’. Vedi se scopri qualcosa. Magari potresti farci un articolo dei tuoi…Di quelli che scovi calciatori o storie impossibili…Come quella del narcotrafficante gallego o del portiere argentino che era un agente dei servizi segreti. Come si chiamava?”
“Andrada. Il gatto Andrada”, rispose Juri scuotendo la testa. Internet funzionava malissimo a quelle latitudini e il segnale era talmente debole che non gli caricava la pagina di Google.
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“Guarda là, c’è una persona. Domandiamo?” fece Abel, indicando un omino che stava raccogliendo erbacce dietro allo stadio.
Mentre i due si avvicinavano, il signore, un tipo dai capelli nerissimi e dalla carnagione scura, gli si fece incontro.
“Disculpe”, prese la parola Juri, chiedendo al signore se conoscesse “El Pocho” Gomez.
Il tipo non sembrò infastidito da quell’interruzione, ma nemmeno prestò ai ragazzi troppa attenzione. Senza interrompere la propria attività di raccolta erbacce, fornì alcune risposte telegrafiche in un dialetto molto stretto e ai limiti del comprensibile. Non era di lì, era originario di Rio Gallegos, ma aveva sentito storie sul Pocho Gomez. Qualcosa che aveva a che fare col River Plate. Erano storie di diverso tempo fa, comunque. E a lui non interessava il fútbol.
Un giocatore patagonico che vestì la maglia del River Plate. Wow. Deve essere successo veramente diversi anni fa, visto che il nome a Juri non diceva nulla. Forse negli anni Settanta. O, chissà, addirittura prima.
I due ragazzi ringraziarono il signore, anche se il tipo non proferì parola, rispondendo al saluto con un impercettibile movimento delle sopracciglia. Poi continuarono la camminata verso l’oasi naturale. Tuttavia, nella testa di Juri adesso ronzava solamente una cosa, un nome: “Pocho” Gomez. Non vedeva l’ora di rientrare in ostello per connettersi ad internet e scoprirne di più.
Camminando lungolago, dopo aver ammirato alcuni ragazzi che facevano windsurf, decisero di rifugiarsi in un bar per rinfrescarsi la gola.
Abel ordinò una Cerveza Schneider, invaghito dalla lattina celebrativa del Mondiale di Qatar. Juri invece andò sul sicuro e prese una Quilmes, evitando l’errore del pranzo, quando aveva voluto provare la Coco Lager, una birra il cui sapore di cocco la rendeva praticamente imbevibile. Notarono che all’interno del bar vi era una foto di una squadra di calcio. Juri si alzò per vederla da più vicino.
La foto era vecchia di molti anni. In bianco e nero. Sulla stessa parete era appeso un gagliardetto bianco, con una V blu e una scritta CSDDL. Dedusse, vista la quasi totale similitudine con il gagliardetto, che anche le maglie avrebbero dovuto essere bianche e blu. “Chissà se sia questa la squadra dove giocava il Pocho Gomez!?”
Ascoltando la conversazione, uno dei camerieri si avvicinò di nuovo al tavolo.
“Italianos? Io ho vissuto a Roma qualche anno” esordì il ragazzo, con un vocabolario e un marcato accento che ricordavano molto quelli dei calciatori argentini che vengono a giocare in Serie A.
Martín, così si chiamava, si presentò. Raccontò che aveva passato qualche anno a Roma prima di tornare in Argentina. Di solito viveva con la famiglia a Buenos Aires, dove stavano la moglie e il figlio, ma in estate veniva a fare la stagione in Patagonia, posto dove i suoi genitori erano originari.
Martín spiegò che la sigla CSDDL stava per “Club Social y Deportivo Lago Argentino”, la squadra della città. Juri, approfittando di tanta disponibilità, si lanciò senza freni, domandandogli se nella foto ci fosse anche il Pocho Gomez.
“Anda! Conoscete il Pocho Gomez!” rispose, chiaramente sorpreso da tale richiesta.
“Abbiamo visto che lo stadio è dedicato a lui” aggiunse Abel, che non voleva essere escluso dalla conversazione. Conosceva Juri come le sue tasche e sapeva che, quando cominciava a parlare di calcio, avrebbe potuto continuare per ore. Meglio intervenire ogni tanto, per mettergli un freno.
“Il mio vecchio mi parlava sempre di lui, – fece Martín – era il miglior giocatore uscito dal Calafate. Qui non ci sono stati molti giocatori famosi…”
“Un signore ci ha detto qualcosa riguardante il River Plate…”
“Bueno, questa è una storia molto complicata”.
Juri, nell’ascoltare le parole di Martín, iniziò a strabuzzare gli occhi. Non solo aveva scoperto un crack patagonico. Adesso gli scenari si stavano addirittura moltiplicando. Una storia “complicata” … Chissà dove lo avrebbe portato il racconto? Era arrivato il momento di tirar fuori il blocchetto degli appunti che sempre portava appresso. Una piccola deformazione professionale di mancato scrittore.
Quando lo vide, Martín gli diede un pugno scherzoso sulla spalla. “Ché, sei per caso un giornalista!?” gli chiese il cameriere.
“In un certo senso sì…” si limitò a rispondere Juri in maniera timida, quasi vergognandosi del suo hobby di scrittore freak con la passione nello scovare storie e personaggi sconosciuti.
“Te cuento… Il Pocho fu acquistato dal River Plate, questo è vero. Però lui aveva giocato in precedenza col Boca Juniors. Fu un traditore, questo hijodeputa!”
“Co…Come sarebbe…che giocò con River e con Boca?”
“E’ una storia lunga” continuò Martín, che sembrò quasi prendere fiato prima di proseguire il racconto.
“Al Pocho piaceva la bella vita. Era sempre circondato da donne. Però aveva anche problemi di soldi. Sembrerebbe che a Buenos Aires si fosse cacciato in qualche guaio. Il River gli offrì il doppio dello stipendio e lui lasciò il Boca”.
Juri e Abel si scambiarono un’occhiata. Ammazza che storia geniale.
“Però col River non giocò mai. Si fece subito male al ginocchio…Il karma, jaja… Fu così costretto a tornare al Calafate, dove terminò la carriera”, concluse Martín il proprio monologo.
Abel osservò il cameriere. Dava l’idea di essere tifoso del Boca. Su questo non vi erano dubbi, visto che sul braccio aveva un tatuaggio raffigurante Juan Roman Riquelme intento a celebrare un gol con le mani dietro le orecchie. Un’esultanza che passò alla storia come quella del “Topo Gigio”, il pupazzo televisivo la cui fama era arrivata fino in Argentina.
Juri, nel frattempo, aveva iniziato a scrivere qualche nota. L’articolo, inizialmente un fantasioso progetto campato in aria, stava iniziando a prendere forma nella sua testa. Sicuramente avrebbe trovato in rete qualche vecchio articolo del Clarin o del Grafico per arricchire la succulenta storia. Non vedeva l’ora di finirlo e mandarlo al suo caporedattore. Avrebbe sbancato. Chissà, con un pezzo del genere sarebbe finito nella lista dei migliori articoli dell’anno dell’Offside Festival. L’anno precedente, con il pezzo sul Gato Andrada era infatti arrivato nei primi venti. Con il Pocho Gomez avrebbe potuto puntare seriamente al podio.
“Ma che ruolo faceva il Pocho?”.
“Enganche. Era un numero dieci. Il regista dell’attacco. Mio papà sempre mi raccontava del famoso attacco del Deportivo: “Pocho” Gomez, ”Tano” Cosentino, “Negro” Quiroga, “Falso” Gambino e “Mono” Acuña. Vinsero molti campionati della provincia di Santa Cruz. Fu l’epoca d’oro del club. La voce poi si sparse, naturalmente. Così un giorno venne un osservatore dell’Independiente a vederlo.”
“Independiente? Ma non era andato al Boca?”
“Il Pocho era uno furbo. L’Independiente gli fece una buona offerta. All’epoca il Pocho lavorava part-time in un hotel, durante la stagione estiva. Un lavoretto, niente più. Ma gli serviva, visto che il fútbol patagonico era amateur. Qualche premio partita, alcune scommesse clandestine, tuttavia di soldi se ne vedevano pochi. In quei giorni, però, stava soggiornando nell’hotel un dirigente del Boca. Un pezzo grosso”…
“E cosa accadde?”
“Il dirigente era in vacanza, non era mica lì per il Pocho. Non sapeva nemmeno chi fosse. Però quando gli arrivò la notizia che un giovane patagonico stesse per firmare con l’Independiente rimase incuriosito. Telefonò al club per parlare con il presidente. Il Pocho gli mostrò il contratto che gli stava offrendo l’Independiente e quelli del Boca lo migliorarono. Una settimana dopo il Pocho arrivò a Buenos Aires per giocare alla Bombonera”.
“Ah davvero? Che furbone…Ma non ci sono foto di lui?”
“Qui al Calafate no. Quasi impossibile. Un incendio negli uffici del giornale locale le ha bruciate tutte. Questa – commentò Martín con un pizzico di orgoglio indicando la foto alla parete – era di mio zio Nahuel. Il Pocho è il secondo in alto a destra”.
“E dopo il River? Tornò al Calafate?”
“Sì, terminò la carriera qua. Già era vecchio e rotto. Non era più il Pocho di prima. Qualcuno arrivò persino a contestarlo e fischiarlo. Però la maggior parte della gente lo rispettava. Era un idolo. Alla fine, nessuno era arrivato così lontano, partendo dal Calafate. Per questo gli hanno dedicato lo stadio.”
Il cameriere lasciò un momento Abel e Juri soli, visto che erano appena entrati dei clienti. Una famiglia di peruviani e un paio di ragazzi alti e biondi, con dei giganteschi zaini da trekking. Dall’aspetto sembravano tedeschi.
“Bella storia, no?” fece Abel.
“Bella? Ma questa è assolutamente fantastica!” rispose entusiasta Juri, suggerendo di tornarsene in ostello. Non stava nella pelle. Aveva una voglia matta di verificare le informazioni su internet e iniziare a buttar giù qualcosa.
Martín tornò al tavolo per portargli il conto. I due ragazzi lo ringraziarono, pagarono e gli lasciarono una buona mancia, prima di incamminarsi a passo rapido verso il loro alloggio.
Rientrati in ostello notarono che alla reception non c’era più la ragazza che gli aveva fatto il check-in quella mattina. Adesso c’era invece un signore sulla sessantina, con i capelli bianchi pettinati all’indietro e il collo taurino.
A Juri il signore ricordava un vecchio allenatore argentino. Quello con la voce rauca che amava il whisky e portava sempre la camicia sbottonata sul petto. Era stato pure tecnico della nazionale. In quel momento, però, non gli veniva in mente il nome. Caruso Lombardi, forse? No, era un altro.
Abel fece segno di voler andarsene in camera, mentre Juri decise invece di avvicinarsi alla reception. Aveva pensato che il tipo, per l’età, avrebbe potuto apportare nuove informazioni. Magari aveva visto persino giocare il Pocho. Attese che due ospiti appena arrivati completassero il check-in per attaccare bottone.
Alla domanda se conoscesse il Pocho Gomez, il signore della reception rispose con uno sguardo meravigliato, come se avesse appena visto un extraterrestre. Un turista italiano che gli chiedeva informazioni sul Pocho Gomez? No, non poteva essere. Doveva per forza aver capito male.
Juri lo osservò, e interpretò la diffidenza del suo interlocutore come un segnale inequivocabile di scetticismo. Ripeté allora la domanda. Al secondo tentativo, il signore afferrò, anche se ci mise qualche secondo a rispondere. Sì, lo conosceva. Però il Pocho era morto da diversi anni.
“¿Y vos, pibe, perché ti interessa tanto il Pocho Gomez?” gli chiese bruscamente, con toni al limite del maleducato. Una domanda che suonò come un rimprovero.
Juri rimase in silenzio. Per un attimo si vergognò di avergli rotto le scatole. Pensò di chiudere lì la conversazione con un “semplice curiosità”. Poi si animò e gli raccontò della passeggiata che aveva portato lui e Abel allo stadio. Della scritta sul muro di recinzione, del racconto di Martín e della storia del tradimento al Boca, del passaggio al River.
Il tipo lo osservò, squadrandolo da capo a piedi, con uno sguardo severo.
“Il Pocho Gomez al Boca e al River!? Se mai lasciò El Calafate!”
Juri rimase di sasso.
“Pibe, chi ti ha raccontato questa storia?”
“Martín, un cameriere, giù al lago, in un bar …” – non fece in tempo ad iniziare la frase che l’addetto alla reception lo incalzò di nuovo.
“Martiiiin! Martiiin! Lo sabia… Che hijodeputa…” sbraitò. “A quel pelotudo gli piace raccontare frottole ai turisti…L’altro giorno si inventò che era stato nelle giovanili dell’Argentina assieme a Messi…Dimenticati di tutto quello che ti ha detto”.
“Quindi…sono solo bugie!?”
“Ascoltami bene, pibe. Il Pocho ha sempre giocato come difensore centrale nel Deportivo Lago Argentino. Altro che enganche! Era uno tosto, però era bravo pure ad uscire con la palla al piede. Senza dubbio uno dei migliori del fútbol patagonico. Quando smise divenne segretario del club, incarico che occupò per moltissimi anni. Una leggenda. In campo e fuori. Per questo gli hanno intitolato lo stadio.”
Juri ascoltò il racconto con la stessa delusione che aveva provato all’età di otto anni, quando suo fratello gli aveva raccontato che Babbo Natale non esisteva, che i regali li piazzava suo papà sotto l’albero di Natale e quello che andava in giro vestito per il paese a distribuire regali non era altro che lo zio Marcello.
Il tipo della reception notò la sua frustrazione. Senza togliere lo sguardo sulle carte che aveva sulla scrivania, aggiunse qualcos’altro.
“Ad ogni modo, il miglior giocatore patagonico di tutti i tempi è stato il “Negro” Alvarez. Lui sì che fu sul punto di andarsene al Boca. Però il tipo rifiutò l’offerta e decise di rimanere qui… Se vuoi, pibe, se hai cinque minuti, ti potrei raccontare la sua di storia…”
Il tipo alzò la testa, ma non vide più nessuno. Juri era improvvisamente sparito, volatilizzato senza lasciar traccia.
Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.
Immagine di copertina e foto del testo a cura dell’autore.