Matteo Fornara: 40 anni di groundhopping da Altobelli a Matondo

Matteo Fornara: 40 anni di groundhopping da Altobelli a Matondo

Marzo 28, 2025 1 Di Matteo Fornara

Da Altobelli a Matondo: potrebbe essere il titolo di un romanzo di Gabriel García Márquez e invece è il mio viaggio, magico ed errante pure lui, tra le nazionali di calcio europee.

“Spillo” Altobelli segnò il primo gol della sfida tra Italia e Cecoslovacchia sotto la pioggia di San Siro, che somigliava, in quel pomeriggio d’autunno del 1982, a quella di Macondo.

Rabbi Matondo era entrato da due minuti per mettere il sigillo sulla prima partita delle qualificazioni ai Mondiali del 2026, Galles contro Kazakistan, vittoria dei dragoni nello stadio del Cardiff City, che la nazionale di calcio preferisce al più grande Millennium, il tempio del rugby, per motivi scaramantici.

La superstizione, un rito imprescindibile del realismo magico del football.

Il fango copriva i numeri sulle magliette dei giocatori di Italia e Cecoslovacchia, quel sabato di novembre. San Siro non aveva ancora il terzo anello e nemmeno il tetto. Mi ci aveva portato mio padre Franco, a celebrare gli azzurri appena diventati campioni del mondo in Spagna, e Altobelli aveva sempre quell’espressione un po’ così, da che ci faccio io qui?, quando segnava il terzo gol della finale al Bernabeu oppure il primo quel giorno.

Cross da destra di Antognoni, il portiere Miklosko scavalcato, Spillo di testa, gol. Nessuno quel giorno a Milano, neppure i giocatori cecoslovacchi, avrebbe potuto immaginare che entro la fine di quel decennio la Cecoslovacchia non sarebbe più esistita, non solo la squadra ma proprio il Paese.

Il biglietto della partita

Il Muro di Berlino era ancora solido e in occidente giungevano poche e sfuocate immagini delle partite di Coppa, che si giocavano all’una e mezza del pomeriggio perché gli stadi non avevano le luci.

I calciatori dell’Est potevano giocare soltanto in patria ed erano piuttosto sconosciuti a noi da questa parte del muro. Nell’Italia c’erano tutti i Campioni della squadra di Enzo Bearzot, Dino Zoff, Paolo Rossi, Marco Tardelli che aveva ancora dentro l’urlo del Bernabeu.

Le partite internazionali avevano ancora un fascino quasi esotico, io non avevo mai visto un cecoslovacco in vita mia prima di quel giorno.

Non avrei immaginato neppure che quella non sarebbe stata l’ultima nazionale scomparsa che avrei visto a Milano. Meno di otto anni dopo a San Siro c’erano il tetto e il terzo anello, e la Jugoslavia più forte e più malinconica di sempre, la classe limpida di Pixie Stojkovic, del Genio Savicevic e di Robert Prosinecki sfidava con stolta superficialità la Germania, che era ancora dell’Ovest, e forse anche un futuro che non c’era più.

In quella partita dei Mondiali di Italia ’90 vidi il gol più bello del mio viaggio da groundhopper tra le Nazionali europee: il tiro da trenta metri di Lothar Matthaeus fu un esempio indimenticabile di tecnica calcistica, ce l’ho ancora davanti agli occhi come se fosse oggi, anche se sono passati 35 anni e io ero nella parte più alta del terzo anello.

Ivkovic avrebbe parato pochi giorni dopo a Firenze un rigore a Maradona, ma quel missile lo vide solo passare, Germania Ovest quattro Jugoslavia uno. Certi ricordi, certe notti ripagano di tutti gli sforzi fatti a rincorrere il pallone che rotola.

Anzi, un gol di tanta perfetta fattura, con la palla che toglie la ragnatela dal sette, come avrebbe detto Bruno Pizzul, lo fece Figo in un memorabile Portogallo tre Inghilterra due a Eindhoven, campionato europeo del primo anno del nuovo millennio. Io e il mio amico Daniele eravamo sgattaiolati tra i settori dalla curva fino alla tribuna centrale, e lo vidi commuoversi – il Manna, per la prima e ultima volta della sua vita – cantando in faccia al suo idolo Tony Adams, capitano dei Tre Leoni che ci stava dieci metri davanti, il God Save the Queen.

Gli inni, il momento che trasforma la storia di una partita in un’ordalia epica più omerica che da generazioni marqueziane: si lavora e si fatica per l’Hen Wlad Fy Nhadau verrebbe da dire, se ti capita di essere a Cardiff insieme a quarantamila gallesi a cantarlo come se dopo non ci fosse più niente, oppure con gli armeni nello stadio più bello di tutti, il Sargsyan di Erevan, il sole che tramonta dietro la tribuna, i colori più caldi sulle divise rossobrune e sulle colonne che reggono tutto, è in mezzo alle montagne del Caucaso ma potrebbe essere Corinto, Selinunte, Atene.

Neppure quello lo sapevo prima: se non avessi visto l’idolo delle folle, Tigran Barseghyan, centravanti di peso del Vardar di Skopje, segnare il calcio di rigore decisivo per la vittoria contro la Lettonia, qualificazioni ai Mondiali di Russia, e scatenare l’euforia collettiva, ora mi mancherebbe qualcosa. Ora lo so.

E dire che la storia degli armeni non ha bisogno di idoli fittizi, sotto al monte Ararat c’è l’arca di Noé ma gliel’hanno rubata, insieme alla montagna e all’innocenza del loro popolo un secolo fa, i turchi, e io ero in quell’estasi definitiva insieme alle mie due ragazze, la Laura e la Cristina, incredule e ignare che in uno stadio si potesse vibrare così, nel profondo est così come tremila chilometri più in là, in cima ai Pirenei.

C’erano anche loro nell’unica partita che ho visto non dentro ma dietro lo stadio, ad Andorra, posto che svetta tra quelli del mio quarantennale groundhopping come il più anonimo e triste, montagna sventrata dalle false vetrine del consumismo come la racconterebbe Cognetti.

Le avevo attirate con il miraggio delle ramblas di Barcellona ma quella sera erano salite con me tra le curve del Principato e sulle scale di un cantiere in costruzione, pieno di polacchi, di birre e di svarioni tra i parapetti traballanti.

Per qualche ragione che stava all’incrocio tra burocrazia e sicurezza, lo stadio che sembra uno chalet era mezzo vuoto, dentro c’era Robert Lewandowski ma gli ultras biancorossi in trasferta, e noi tre, fummo obbligati a vedere da lassù i quattro gol della Polonia nel suo cammino verso i Mondiali del Qatar del 2022.

L’andorrano Ricard Fernandez detto Cucu venne espulso al primo minuto di gioco e anche questo non si vede tutti i giorni nel calcio delle stelle dei mainstream.

I turchi, dicevamo. Ero stato anche uno di loro, allo stadio Roi Baudoin di Bruxelles che in Italia conosciamo di più come Heysel, anno 1996, in quell’epoca ormai quasi preistorica in cui i biglietti si dovevano andare a comprare là, allo stadio, e si collezionavano nel comodino perché non ti arrivavano sull’app.

L’impiegata della federazione, dal francese pitturato di fiammingo come un quadro di van Eyck, era stata chiara: tu vai qui, nella curva dei turchi. Ma no, Madame, io non sono turco, sono italiano e vivo, lavoro qui in Belgio, questa è una vicenda da mamma li turchi, andiamo. Monsieur, te l’ho detto: se vuoi vedere il match il tuo posto è qui, con i turchi, altrimenti a casa, à la télévision.

Due a zero per il Belgio di Enzo Scifo e Lulù Oliveira all’intervallo, io in mezzo a quindicimila ottomani a invocare intercessioni celesti in direzione sud est. Accorcia subito le distanze Sergen, due a uno, ma non basta, ai Mondiali in Francia ci va Lulù.

L’isola di Montserrat e l’esordio calcistico internazionale dell’UE

Mi sarei ampiamente rifatto sulla zelante funzionaria belga agli Europei successivi, quelli del primo anno del nuovo millennio che si giocarono proprio nel suo Paese, e in Olanda.

Il mio esordio fu a Charleroi: i tifosi inglesi e tedeschi stavano mettendo a ferro e fuoco il centro della città quando io stavo con i miei amici in una brasserie nei paraggi del piccolo stadio cittadino dove il proprietario accoglieva i suoi connazionali, italiani, offrendo polpette di carne che estraeva dalle tasche del suo vissuto grembiule: “Italiens! Amici!”.

Neppure il gol a metà del secondo tempo di un bomber della fama di Alan Shearer bastò all’Inghilterra a uscire dalle secche di quel primo turno, dato che avevano perso, pochi giorni prima, la partita contro il Portogallo, quella di Figo, di Adams e del Manna. Peggio fecero i tedeschi, che finirono ultimi.

Nello stesso stadio vallone si era giocata anche un’altra sfida memorabile, il derby tra Slovenia e Jugoslavia, che dopo il tragico decennio dei conflitti che portarono alla sua dissoluzione era ridotta soltanto a una federazione tra Serbia e Montenegro.

Non che avessi già allora bisogno di una testimonianza del genio e della sregolatezza degli Slavi del sud, ma io ero andato lì per vedere i serbi e loro scesero in campo dopo un’ora: alla fine del primo tempo la Slovenia ne aveva fatti tre, e Sinisa Mihajlovic era stato espulso per frustrazione. In dieci, sull’orlo del disastro, i serbi riuscirono a recuperare il risultato: tre a tre. Si sarebbe rivelato un fuoco di paglia ma fu davvero un incendio di calcio.

Anni dopo vidi in un bar di Novi Beograd il centravanti di quella Jugoslavia, Mateja Kezman, e gli chiesi un parere, ma lui in quel periodo aveva abbandonato il calcio per diventare monaco della chiesa ortodossa di cui è convinto devoto. Io ero in città per Serbia Galles, qualificazioni ai Mondiali di Russia, uno a uno del Mitra Mitrović e Aaron Ramsey, due ore a fingere di conoscere il repertorio folk serbo in mezzo ai cinquantamila ossessi del Marakana.

L’ultima partita di quello straordinario europeo del 2000 fu la finale, ovviamente per il torneo ma anche per me: a Rotterdam l’Italia venne sconfitta dal golden gol di Trezeguet, con Matteo eravamo schierati in quarta o quinta fila del De Kuip, la vasca, nelle nostre divise bianconere e blucerchiate. Fuori dallo stadio c’eravamo fatti la foto con Arrigo Sacchi, e una sera Matteo rimproverò Azeglio Vicini per non aver fatto giocare Mancini a Italia ’90. “Un gol in ventitré partite mi ha fatto, cosa vuoi mai”. Segnò in quella finale anche Marco Delvecchio, e chi se lo ricorda più, tranne noi due.

La vittoria dell’Italia ai Mondiali 2006: qualcosa da dimostrare

L’Italia, Kaiserslautern 2006, la curva sopra il tuffo di Fabio Grosso al minuto novantaquattro dell’ottavo contro l’Australia, il rigore di Totti quando uscire ai quarti era una delusione e infatti si vincevano i Mondiali, mentre ora vengo da quattro partite a San Siro e sono state quattro sberle: tre in Nations League, e vabbè, però tutte e tre con le altre che ci hanno giocato in testa, la Spagna di Gavi, la Francia di Rabiot e la Germania di Musiala, e la quarta, l’innominabile, la madre di tutte le tragedie, Italia Svezia, play off per i Mondiali di Russia, Ventura cittì, serve altro?

Serve sempre, andare allo stadio: in un pomeriggio ci puoi conoscere un popolo, questo l’ha già detto qualcuno e forse è un luogo comune. Di certo conosci tanta gente, l’ultimo è stato il nonno di Cardiff con il nipotino: lui era vecchio, si era dimenticato la dentiera e aveva solo i due incisivi di sopra, parlava tantissimo e io gli ho dato sempre ragione, non è facile cogliere le sfumature dell’accento gallese specie se il tuo vicino di sedia è senza denti, però aveva un sorriso bellissimo e io gli stavo simpatico.

Il suo ragazzino diventerà una persona felice, ho pensato, come me quella sera, sabato 22 marzo del 2025, che vedevo l’ultima nazionale che mi mancava.

Il Kazakistan sta quasi tutto in Asia, secondo la geografia, ma loro preferiscono giocare in Europa, e possono farlo perché un pezzettino della loro steppa sta di qua degli Urali. Forse non si qualificheranno mai ai Mondiali, e neppure agli Europei, ma quei duecento tifosi esagitati arrivati da chissà dove, da Astana, da Alma Ata, da città che stanno oltre Kabul, oltre l’India, avevano comunque una gran voglia di provocare i gallesi, che invece avevano messo già tutto loro stessi nell’Hen Wlad Fy Nhadau, niente musica, solo voce, tutta la voce, e tutti i brividi.

Matteo al Cardiff City Stadium, ultima tappa del suo quarantennale viaggio di groundhopping per gli stadi delle nazionali europee

Galles tre Kazakistan uno, qualificazioni ai Mondiali del Nord America, gol kazako di Ashat Tagybergen, mediano di spinta dell’Ordabasy, sigillo finale di Robbi Matondo, l’ultimo eroe della mia saga iniziata da Spillo Altobelli.

Due deviazioni sui cross da destra, Spillo a Milano nell’anno di grazia ’82 e Matondo 42 anni e mezzo dopo, la magia del calcio che si ripete, dai fetidi sandwich dello stadio di Oslo dove la Norvegia non era quella di oggi di Haaland, al Tà Qali della Malta del mio amico Angelo Chetcuti – Angelo, quando c’ero io mi hai fatto conoscere Mangia e Giacomazzi e avete vinto tre a zero il derby delle isole del Mediterraneo con Cipro, ricordi?, quando mi inviti ancora? -, dal burek di Zenica, tana della Bosnia Erzegovina, a Podgorica dove ho dato il mio libro al Genio Savicević, fino all’agnello alla brace di Scutari, Kosovo uno Islanda due.

L’Islanda, Hannes Thor Halldόrsson che di mestiere fa il regista di cinema ma quel giorno al Luzhniki di Mosca para il rigore a Leo Messi, Mondiali del 2018, Islanda uno Argentina uno, io ero seduto venti metri più in là dal più grande di tutti, Diego Armando Maradona.

 

Testo di Matteo Fornara. Europeista, groundhopper e autore dei libri:

“Il Genio e la Tigre” – Urbone Publishing

“Nicky, Dino, Diego: viaggio sul pianeta del football” – Urbone Publishing 

“Milla, la danza del Leone Indomabile” – Garrincha Edizioni

Immagini e foto del testo, cortesia dell’autore: in copertina Armenia – Lettonia 2023.