Italia – Jugoslavia: storia della monetina che forse era un cappello

Italia – Jugoslavia: storia della monetina che forse era un cappello

Aprile 3, 2025 0 Di Nicola Luperini

Immaginatevi Roma, immaginatevela nel 1960. L’Italia è in pieno miracolo economico, le Fiat 500 sfrecciano per le strade della capitale, la Dolce Vita di Fellini è appena uscito nelle sale.

Le Olimpiadi sono il biglietto da visita di un Paese che vuole tornare a respirare, lasciandosi alle spalle le macerie spirituali della guerra. Lo Stadio Olimpico (il nome non è un caso), il Flaminio, il Villaggio Olimpico: tutto brilla di novità a fianco delle rovine eterne che furono casa di imperatori e re della civiltà più gloriosa della storia. Tutto profuma di riscatto.

Quando si parla di Olimpiadi, anche nella calciocentrica Italia, il pallone non è certo il primo sport che viene da citare. Si può pensare all’atletica leggera, a Wilma Rudolph e Livio Berruti, che incendiano la pista nuova di zecca dello Stadio Olimpico. Si può pensare a Valerij Brumel, che con la sua tecnica ventrale brilla nel salto in alto.

Non ditelo agli (ex) jugoslavi, però: di quel 1960 loro si ricorderanno soprattutto di palloni di cuoio, di pali e traverse, di gol. La Jugoslavia del 1960 è un enigma per molti. Il maresciallo Tito, dopo aver voltato le spalle a Stalin in nome di una via socialista tutta sua, sta cercando di stringere nuovi contatti con la grande madre sovietica, alle prese col processo di rinnovamento dopo la morte del georgiano. Un uomo che in vita nessuno voleva contraddire e dal quale, adesso, tutti sembrano voler prendere le distanze.

La Jugoslavia di Tito è una federazione di popoli – serbi, bosniaci, croati – diversissimi tra loro, uniti soltanto da una bandiera in comune e dalla tragica autorità di Tito. L’unica area geografica che, per una magia inverosimile e innegabile, mette d’accordo tutte le anime di un mosaico così difficile da tenere insieme è il campo di calcio. I confini tracciati col gesso sono più solidi di quelli immaginari tracciati dalle scrivanie dei potenti.

Sul prato verde, infatti, la Jugoslavia è tutt’altro che un rebus: è una macchina da guerra. A luglio di quel 1960, solo poche settimane prima dell’Olimpiade, i Plavi hanno perso la finale della prima rudimentale edizione del Campionato Europeo, sconfitti proprio dall’URSS, in un drammatico supplementare al Parco dei Principi di Parigi. La selezione a cinque cerchi, guidata da Aleksandar Tirnanic, arriva a Roma con una devastante fame di vittoria e di affermazione, dopo i due argenti a Helsinki ‘52 e Melbourne ‘56 e la recentissima delusione continentale.

Se poi alla fame si aggiungono la tecnica e la fisicità, gli ingredienti del cocktail per vincere ci sono davvero tutti. Nel gironcino all’italiana, la Jugoslavia segna 13 gol in 3 partite. 5 li segna Kostic, altri 5 Galic. Questi fanno sul serio. La nazionale italiana, al contrario, è un’incognita. La selezione olimpica, guidata dal tandem Nereo Rocco-Paolo Todeschini, non è (ancora) la squadra dei titani che vincerà l’Europeo 8 anni dopo. Il DT Viani gestisce un gruppo giovanissimo, con molti ragazzi che giocano nelle serie minori, seppur con qualche nome destinato a ritagliarsi una fetta di paradiso nel gotha del calcio tricolore.

Gipo Viani, la Salernitana e l’introduzione del libero

A quella spedizione partecipano infatti Giovanni Trapattoni, Tarcisio Burgnich, Giacomo Bulgarelli e un Gianni Rivera poco più che adolescente. Pur essendo una squadra infarcita di carneadi e giovani di belle speranze, l’Italia avanza nell’Olimpiade di casa battendo nel girone il Brasile con un perentorio 3-1. Una vittoria che fa rumore, ma quel Brasile non è certo quello dello scioglilingua dolce come zucchero che finisce con Didì-Vavà-Pelè. Una squadra sperimentale, lontana anni luce dai fasti del Mondiale di ‘Svezia 58.

Ma tanto basta per accendere gli entusiasmi ed approdare in semifinale. Dove però aspetta una tigre mordace: la Jugoslavia. Un confronto tra due scuole di pensiero pallonaro radicalmente opposte: l’ordine difensivo e la prudenza degli azzurri contro il caos organizzato degli slavi, febbricitanti di tecnica e di fisicità.

Si gioca l’8 settembre 1960: il nuovissimo Stadio del Sole, nel quartiere di Fuorigrotta, Napoli (dal 1963 San Paolo, oggi Diego Armando Maradona) – una delle strutture dedicate al calcio in quell’Olimpiade – si riempie. Non è il pienone dell’Olimpico che si esalta per Berruti o per Bikila, ma i 20mila (ufficiali, quelli reali sono sicuramente di più) che popolano le gradinate sono il conduttore giusto per accendere l’elettricità che vibra nell’aria.

Un appena 17enne Gianni Rivera, mentre si allena al Moccagatta di Alessandria. I grigi retrocessero in B nonostante l’ottimo contributo di Rivera, che dopo le Olimpiadi del 1960 sarebbe passato definitivamente al Milan (immagine tratta da Wikipedia)

Non è una partita qualsiasi, in certi casi non è mai solo calcio. Italia e Jugoslavia sono due nazioni che si guardano da vicino, separate dal Mar Adriatico e da un confine che, in quegli anni, è ancora una ferita che non cicatrizza. La guerra è finita da poco, l’Istria e la Dalmazia da terre irredente che erano son diventate ancor più jugoslave e tra Roma e Belgrado i rapporti sono freddi, nonostante timidi tentativi di disgelo dopo l’allontanamento balcanico dalle irricevibili – per l’Italia – posizioni staliniste.

L’Italia guardava ormai verso Ovest, lo spirito vicino alla spinta consumistica in arrivo dagli States ma i piedi piantati in un passato di immense pene e sacrifici devastanti. La Jugoslavia un ponte in bilico tra est e ovest, in testa il rifiuto dei rigidi blocchi della Guerra Fredda ma le budella già scosse dalle tensioni etniche e sociali che sarebbero esplose trent’anni più tardi.

Quando non è mai solo calcio, di solito, è più calcio che mai. I favoritissimi jugoslavi provano a bucare la porta di Alfieri – giovane portiere di riserva del Milan – svariate volte senza mai riuscirci. I tempi regolamentari finiscono senza che il tabellino si sporchi, ma il secondo tempo supplementare, invece, è una montagna russa.

Milutin Soskic, mitico portiere jugoslavo del Partizan, visto anche a Colonia in Bundesliga (immagine tratta da Wikipedia)

Prima segna il solito Galic – il cronometro dice minuto 107 -, ma dopo neanche due giri di orologio l’eroe della serata diventa Paride Tumburus. Dopo aver esordito in Serie A, con il Bologna, appena 8 mesi prima, il laterale destro azzurro trafigge il mitologico Milutin Soskic e rimette tutto in parità. Finché l’arbitro tedesco Kandlbinder non fischia tre volte. E qui entra in gioco il regolamento olimpico dell’epoca. Niente rigori, niente ripetizioni: in caso di parità si va al sorteggio. Il freddo lancio di una monetina decide chi va in finale.
Testa. Vince, per modo di dire, la Jugoslavia.

Le voci jugoslave: un trionfo con l’asterico

Non è facile trovare fonti jugoslave che ci parlino di quella partita nell’immediatezza dei giorni successivi, ma qualche eco riesce comunque ad arrivare. Il quotidiano belgradese Politika, in una perfetta sintesi di orgoglio patriottico e realismo, il 9 settembre titola: “La Jugoslavia in finale grazie a talento e fortuna”.

I protagonisti di campo sapevano di aver dominato e di aver conseguentemente meritato l’approdo all’ultimo atto dell’Olimpiade. Ma il fatto che l’ultima parola fosse toccata alla dea bendata sembrava quasi toglier loro parte del gusto. Milan Galic, qualche anno dopo, confiderà ad un giornalista serbo: “Meritavamo di vincere sul campo, non con una moneta. Ma il calcio è così: prima o poi ti restituisce sempre quello che ti toglie”.

Bora Kostic, ala sinistra e cervello offensivo della squadra, vira invece verso il pragmatismo: “l’Italia si è difesa bene, ma noi eravamo più forti. La finale doveva essere nostra, a tutti i costi”. E la finale, in effetti, diventa cosa loro. La Danimarca non può niente contro quella splendida e micidiale armata, soccombendo per 3-1 nella cornice romana dello Stadio Olimpico. Medaglia d’oro, la prima e unica della storia del calcio jugoslavo alle Olimpiadi.

Per i giovani azzurri una beffa bruciante, una sfortuna crudele che frustra la resistenza mostrata in campo contro un avversario oggettivamente superiore. Quasi un tradimento divino, che però nascondeva un invisibile germoglio. Otto anni più tardi, infatti, la profezia di Galic si sarebbe avverata. Gli azzurri batteranno proprio la Jugoslavia nella finale
dell’Europeo, all’Olimpico di Roma, vincendo 2-0 la ripetizione della finale dopo il primo match finito 1-1. Ma soprattutto dopo una vittoria in semifinale ottenuta grazie al lancio di una monetina, a scapito dell’Unione Sovietica. E dove, se non negli spogliatoi del San Paolo?

Il calcio, prima o poi, ti restituisce sempre quello che ti toglie. Ma a questo punto, quando la storia sembra esser finita e pare aver rispettato un perfetto andamento circolare, arriva il colpo di scena che fa saltare il banco. Perché c’è chi dice che quella monetina, l’8 settembre del 1960, non fu mai fatta roteare.

Il testimone che non ti aspetti

Dusan Maravic, attaccante di scorta della nazionale jugoslava a quell’Olimpiade, è scomparso il 6 gennaio 2025, due mesi prima di compiere 86 anni. In una delle sue ultime interviste ha ricordato quella semifinale, svelando dei dettagli inediti che mettono in discussione tutto l’impianto narrativo che si era stratificato intorno a quella partita.

“La storia di come abbiamo vinto quella partita è intrigante. Dopo che la partita finì 1-1 ai supplementari, e dopo due interruzioni per un blackout ai riflettori dello stadio di Napoli, Fuorigrotta diventò teatro di una roulette, ma senza calci di rigore né monetine. Per determinare Il vincitore si procedette a un sorteggio”. Maravic lo dice chiaramente: “bez penala i novcica”, senza rigori né monetine.

E aggiunge un particolare inedito: a decidere la vincitrice della semifinale sarebbe stata l’estrazione di un foglietto di carta dal fondo di un cappello che apparteneva a Mihajlo Andrejevic.
Chi era mai costui? Andrejevic era un importante dirigente della federazione calcistica jugoslava, che si era dedicato allo sport dopo aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale ed esser tornato sano e salvo dopo un periodo di prigionia in terra bulgara. Era stato anche presidente della Federazione negli anni ‘40, e nel 1960 non aveva ruoli dirigenziali, ma
prese parte alla spedizione olimpica jugoslava in pura veste simbolica, come rappresentante carismatico della Nazione.

Le regole non scritte avrebbero voluto che fosse un delegato della nazione ospitante, vale a dire l’Italia, ad estrarre il bigliettino fortunato dal cappello, messo a disposizione proprio da Andrejevic. Ma Maravic racconta che Umberto Agnelli, presidente della Federazione Calcistica italiana in quegli anni, cedette cavallerescamente l’onore della pesca allo stesso Andrejevic, forse per estremo senso di ospitalità, forse come ringraziamento per aver messo a disposizione il copricapo.

La mano del delegato onorario jugoslavo fu poi benevola per la patria. Maravic racconta addirittura che, negli anni successivi, Andrejevic si sia rifiutato di donare il cappello della discordia al Museo della FIGC, asserendo che se ne fosse affezionato In maniera tale da non potersene mai più separare. Maravic racconta una parte di storia inedita e senza riscontri, se non quelli dei suoi occhi e dei suoi ricordi. Una storia che, tuttavia, potrebbe non essere affatto priva di fondamento, in quanto non contraddice in nessun modo il contesto dell’epoca e il quadro generale.

L’affascinante variante-Maravic potrebbe testimoniare un sorteggio gestito in maniera meno formale di quanto si pensi, da uomini che non pensavano di potersi trovare in una situazione del genere e che hanno dovuto improvvisare sul momento: la proverbiale “monetina” sarebbe poi diventata il simbolo semplificato di un processo più arzigogolato.
Tornate all’inizio della storia e immaginate ancora. Immaginate una notte italiana, agli inizi del primo settembre degli anni ‘60. Immaginate uomini stanchi, accaldati ma vestiti di tutto punto. E immaginate due foglietti di carta stropicciati, un cappello di un veterano della Grande Guerra, un urlo: JUGOSLAVIA!

Eccolo, allora il bello di questa storia e del dubbio che ci ha lasciato In eredità Dusan Maravic. Il pensiero che il calcio e le sue storie laterali, specie quelle di tanti anni fa, possano ancora lasciarci uno spazio piccolo, ma confortante e balsamico, per poter immaginare.

 

Testo a cura di Nicola Luperini. Pisano, cura per Football&Life storie nascoste sul calcio dalla provincia ai Mondiali. Ma non solo. Appassionato di Football Manager, racconta qui le sue avventure.

Lo trovate anche nel podcast “Catenaccio”.

Account X: @NicoLuperini

Immagine di copertina tratta da Wikipedia.