Jack Wilshere: perdere l’amore

Jack Wilshere: perdere l’amore

Aprile 10, 2025 0 Di Juri Gobbini

Mercoledì 16 febbraio 2011. Una fredda serata in quel di Londra. A scaldare l’atmosfera della capitale inglese la sfida fra Arsenal e Barcelona, valevole per gli ottavi di Champions League. Da un lato i Gunners, non ancora entrati nel limbo del tardowengerismo, da un altro la corazzata blaugrana, piena zeppa di freschi campioni del Mondo, con Leo Messi come invitato d’onore nella corte catalana. Anything else?

Rispetto alla precedente stagione, poi, Pep Guardiola aveva recuperato il miglior Andrés Iniesta, e al centro dell’attacco “El Guaje” David Villa aveva preso il posto di Zlatan Ibrahimovic, eliminando qualsiasi equivoco tattico, e non, creato con la presenza in squadra dello svedese. Un Barcelona rigenerato, che aveva già battuto 5-0 il Real Madrid di José Mourinho nel Clásico e che nei precedenti cinque mesi aveva perso solamente una gara, il ritorno dei quarti di Coppa del Re contro il Betis Sevilla. Sfida peraltro irrilevante ai fini della qualificazione, visto il 5-0 dell’andata. Una squadra apparentemente perfetta a cui era impossibile togliere palla. O quasi.

A new wonderkid

Classe 1992, nativo di Stevenage, un’ora a nord di Londra, Jack Wilshere arrivò nell’Academy dell’Arsenal nel 2001 dopo una breve esperienza con il Luton. Il suo talento non passò certo inosservato, ed immediatamente divenne il giocatore chiave delle varie squadre fino a capitanare la formazione che vinse la FA Youth Cup 2008/09, l’ultimo successo dei Gunners nel più prestigioso trofeo a livello giovanile del calcio inglese.

In quegli anni l’Arsenal era già entrato in una fase di transizione. Finita l’epoca di Highbury e degli “Invincibili” – la squadra che vinse la Premier League 2003/04 senza perdere mai – il club aveva iniziato a ridimensionare le spese per fronteggiare i costi dell’Emirates Stadium, costringendo Arsene Wenger a fare di necessità virtù, cambiando la politica di scouting.

In precedenza, l’Arsenal era stato capace di attrarre campioni nei migliori anni della loro carriera – vedi i vari Thierry Henry, Dennis Bergkamp, Sol Campbell, Patrick Vieira, Robert Pires, etc.– mentre da quel momento in avanti il manager francese avrebbe dovuto giocare d’anticipo. Anche perché il mercato transalpino, dove lui aveva avuto quasi l’esclusiva negli anni precedenti, era diventato un fertile terreno di caccia per tutti. In più, a fare da concorrenza sul mercato, erano arrivate squadre come il Chelsea – più tardi toccherà al Manchester City – che sembravano contare su budget quasi illimitati. 

Wenger iniziò così a pescare in zone meno battute, abbassando l’età del reclutamento: Alex Song, Theo Walcott, Aaron Ramsey, Johan Djourou, Philippe Senderos, Nicklas Bendtner, Gael Clichy, gli italiani Vito Mannone ed Arturo Lupoli furono alcuni dei tanti giovani portati a Londra non ancora maggiorenni. Assieme a loro Cesc Fabregas, strappato al Barcelona a soli 16 anni.

Fu proprio Fabregas il poster del nuovo Arsenal: dopo aver debuttato a 16 anni e 177 giorni in una gara di League Cup, al centrocampista catalano bastarono pochi mesi per farsi largo in prima squadra, tanto che Wenger si decise a lasciar partire un mostro sacro come Vieira. Un passaggio di testimone che significò anche un profondo cambio di stile. Non più un Arsenal devastante a livello fisico come quello visto negli anni precedenti, ma una squadra più agile ed abile a giocare palla a terra. Quasi ad anticipare i tempi del tiki-taka spagnolo che si sarebbe esteso a macchia d’olio con i successi della Selección e del Barça di Guardiola.

Cinque anni dopo, nel settembre 2008 era toccato a Wilshere debuttare in Premier League e battere il record di precocità del catalano. Al contrario di Fabregas, però, il giovane inglese non venne catapultato immediatamente in prima squadra, ma fu mantenuto nelle giovanili prima di essere spedito in prestito al Bolton per sei mesi nel gennaio 2009. 

Oggi i Trotters sono in League One, ma all’epoca riuscirono a mantenersi ben undici stagioni di fila in Premier League, ottenendo in due occasioni persino dei piazzamenti europei. Insomma, un posto perfetto dove mandare un diciassettenne a farsi le ossa. E Wilshere superò a pieni voti l’esame, diventando il nuovo “wonderkid” del calcio inglese. 

Al rientro a casa, all’inizio della stagione 2010-11, Wilshere venne subito promosso titolare da Arsene Wenger in un terzetto di centrocampo che vedeva Song come vertice basso, con Fabregas nel ruolo di regista, pronto a fornire l’ultimo passaggio o finalizzare lui stesso l’azione. L’anno precedente aveva segnato ben 15 reti – di cui solo tre su rigore – e dopo il Mondiale vinto con la Spagna era finito nella lista della spesa sia del Barcelona che del Real Madrid. Trattenerlo ancora a lungo sarebbe stato impossibile, ma l’avvento di Wilshere in squadra dava tante speranze per il futuro, non solo dell’Arsenal.

L’erede di Paul Scholes

La prestazione di Wilshere contro il Barcelona è diventata col passare degli anni un classico di YouTube. Digitando il nome del calciatore inglese, infatti, i primi risultati che appaiono sono il goal segnato al Norwich, i cori contro il Tottenham durante i festeggiamenti per la FA Cup e naturalmente gli highlights della sfida di Champions con i blaugrana. 

Passaggi corti, ambiziose aperture sulla fascia, coraggiosi recuperi in scivolata, schermature di palla, il tutto con la confidenza e la personalità di un veterano. E pure con un pizzico di sfacciataggine, che non guasta mai. Wilshere tirò fuori il meglio del proprio repertorio. Instancabile, con il Barça avanti 1-0, fu proprio lui a rompere i collegamenti del centrocampo blaugrana e contemporaneamente tenere alto il ritmo di una gara che l’Arsenal riuscì a rimontare, imponendosi 2-1 grazie alle reti di Robin Van Persie e Andrey Arshavin. 

Proprio da uno scambio con il russo si produsse l’azione che simboleggiò la serata di Wilshere. Leggermente defilato sulla sinistra, l’inglesino ricevette palla una decina di metri fuori area. Spalle alla porta, venne subito pressato da Xavi, che provò a togliergli la sfera. Facendo scudo con il corpo, Wilshere fintò di tornare indietro per poi puntare la porta, infilandosi in area di rigore dopo un triangolo con Van Persie. Un movimento secco, che tagliò fuori in un colpo solo Sergi Busquets, Gerard Piqué e Dani Alves, costringendo Eric Abidal ad un provvidenziale intervento in spaccata per impedire la conclusione in porta.

L’indomani, i complimenti si sprecarono. Tutti volevano dire la loro su questo nuovo talento che si stava affacciando alla ribalta. Wenger lo descrisse come un giocatore con “cervello spagnolo e cuore inglese”. Tecnica e coraggio. Nemmeno il giornalista Paul Hayward, in un suo articolo per il Guardian, la toccò piano e parlò di Wilshere come il più dotato centrocampista inglese dai tempi di Paul Scholes. Finalmente, secondo Hayward, anche l’Inghilterra era riuscita a produrre un giocatore del calibro di Xavi o Iniesta.

All’epoca, comunque, anche se già trentenni, c’erano ancora in giro delle leggende come Frank Lampard e Steven Gerrard, i quali rappresentavano il prototipo di centrocampista inglese: forte fisicamente, in grado di coprire quasi tutto il campo, con eccellente visione di gioco e gran senso del gol, sia con inserimenti in area che con potenti e precise conclusioni da fuori.

Ma Wilshere era diverso dai capitani di Chelsea e Liverpool. Molto più simile a Scholes, sia per fisico che per stile di gioco. Piccoletto, combattivo, Scholes era uno che legnava quando necessario ma che possedeva una tecnica fantastica e una visione di gioco impressionante. E vedeva la porta con costanza. Un centrocampista completo che non a caso era stato uno degli idoli di gioventù sia di Xavi che di Iniesta.

Durante la sua carriera Scholes aveva giocato in molte posizioni: classico ed instancabile box-to-box, trequartista, in certe occasioni aveva fatto il regista basso e quando necessario, in alcune partite, Alex Ferguson lo aveva messo persino centravanti. Col passare del tempo aveva comunque ridotto il raggio d’azione, e negli ultimi anni di carriera era stato spostato in pianta stabile in mediana al fianco di Michael Carrick. 

La sua intelligenza calcistica, l’enorme personalità e un fisico d’acciaio gli avevano consentito di superare un grave problema alla vista e un paio di infortuni al ginocchio, permettendogli di giocare fino ai 38 anni. Purtroppo, in nazionale Scholes era sempre stato poco compreso e spesso costretto a giocare fuori posizione. Come nell’Europeo 2004, quando Sven Goran Eriksson – con David Beckham a destra, Lampard e Gerrard in mezzo – lo aveva schierato largo a sinistra nel 4-4-2. Stufo, dopo il torneo aveva deciso di abbandonare l’Inghilterra.

Anche per Wilshere, sin dal suo debutto in nazionale, avvenuto nell’agosto del 2010, si erano manifestati problemi simili a quelli di Scholes. Fabio Capello, infatti, lo aveva provato come mediano davanti alla difesa, suscitando qualche brontolio. Nella sua avventura inglese, infatti, il tecnico italiano venne sempre criticato per la mancanza di fantasia della squadra: arretrare un giocatore creativo come Wilshere e dargli compiti di interdizione risultò un assist per la stampa, che manifestò dubbi sulla decisione. 

Capello, dal canto suo, oltre ad elogiare Wilshere (“un giocatore intelligente può giocare dappertutto”), difese la sua scelta fornendo l’esempio di Claude Makelele o Andrea Pirlo, che seppero entrambi arretrare la posizione durante la carriera.

In quei mesi Wilshere non si fece certo mancare nulla per arricchire il proprio curriculum e fornire ulteriore materiale ai tabloid inglesi: ad agosto era stato coinvolto in una rissa in un pub nel centro di Londra, mentre poco prima di Natale era stato arrestato per aver aggredito verbalmente un tassista. Leggenda narra che quest’ultimo, il quale si era rifiutato di far salire Wilshere e i suoi amici sul taxi, indossasse una maglietta del Tottenham. 

Ma oltre al record disciplinare fuori dal campo, a preoccupare Wenger c’era l’affaticamento fisico a cui il centrocampista era stato sottoposto. Non solo per la dispendiosa e rischiosa maniera di giocare ma anche per il sovraccarico di partite. Soprattutto per un giocatore con un fisico delicato e non ancora completamente formato a livello muscolare.

Jack Wikshere: un talento di cristallo

Nella stagione 2010/11 Wilshere arrivò a giocare una cinquantina di gare, terminando l’annata spremuto come un limone. Proprio per preservarsi fisicamente decise di non partecipare all’Europeo U21, malgrado la chiamata del tecnico Stuart Pearce. Capello, per il quale Wilshere era già diventato un intoccabile, lo convocò invece a giugno per la gara di qualificazione all’Europeo contro la Svizzera, dove il centrocampista giocò tutti i 90 minuti prima di andarsene finalmente in vacanza. Nessuno si sarebbe mai immaginato che sarebbero passati ben 17 mesi prima di rivederlo di nuovo in campo con la nazionale.

Tutti i timori di Wenger sull’usura di Wilshere si materializzarono durante l’Emirates Cup, il classico torneo estivo che l’Arsenal disputa nel proprio stadio come battesimo alla nuova stagione. La prima diagnosi non allarmò nessuno: lieve infortunio alla caviglia destra. Invece la lesione fu più grave del previsto e richiese un’operazione e una lunga degenza, traslando l’assenza dai campi fino ai 14 mesi.

Wilshere rientrò a fine ottobre 2012, sufficiente per essere richiamato qualche giorno dopo in nazionale per la sfida contro la Svezia, stavolta dal nuovo tecnico Roy Hodgson. Un’amichevole finita 4-2 per gli scandinavi e passata alla storia per il poker di Ibrahimovic, inclusa una rovesciata spettacolare da fuori area. Con le prestazioni con l’Arsenal in crescendo, Wilshere figurò, stavolta come titolare, anche nell’amichevole di lusso disputata a Wembley fra Inghilterra e Brasile, vinta dagli inglesi 2-1. Hodgson, con Lampard e Gerrard ormai agli sgoccioli, aveva identificato in Wilshere colui a cui affidare lo scettro del centrocampo dell’Inghilterra per i successivi anni.

Anche a livello di club molte cose erano cambiate dopo i suoi esordi: Fabregas e Song erano passati entrambi al Barcelona, e la squadra aveva perso altri pezzi chiave come Sami Nasri e Van Persie. Era iniziato il tardowengerismo, con il futuro del manager francese nell’aria e con i tifosi divisi sulla necessità o meno di un cambio in panchina. 

Malgrado le speculazioni sul suo destino, Wenger rinforzò la squadra con gli arrivi dei vari Per Mertesacker, Oliver Giroud, Mikel Arteta, Santi Cazorla, Lukas Podolski e Mesut Özil – e nel 2014 anche Alexis Sanchez.

Tuttavia, appariva chiaro che nell’Arsenal del futuro avrebbero avuto un ruolo chiave i giovani: Ramsey, Walcott, Kieran Gibbs, Alex Oxlade-Chamberlain, con Wilshere, che nel frattempo aveva ereditato la maglia n.10, come ovvio capobanda.

All’inizio della stagione 2013/14 sia l’Arsenal che Wilshere sembravano aver messo alle spalle il periodo buio: i Gunners partirono forte in campionato, mentre il centrocampista fu protagonista il 19 ottobre 2013, quando l’Arsenal segnò uno dei più spettacolari goal mai visti in Premier League, votato a fine stagione come il Goal of the Season dalla BBC.

Fu proprio Wilshere ad avviare l’azione nella propria metà campo prima di allargare sulla sinistra per Gibbs. Il terzino avanzò sulla fascia cedendo poi la sfera a Cazorla, che la passò di nuovo a Wilshere, in posizione centrale, una decina di metri fuori dall’area. Fin qui niente di eccezionale. Da lì in avanti, però, iniziò una spettacolare serie di rapidi passaggi, tutti di prima, che sembrarono prodotti direttamente dalla consolle di un videogioco: Wilshere-Cazorla-Giroud-Wilshere-Giroud-Wilshere, con l’inglesino che si ritrovò a centro area, solo davanti al portiere. Con la difesa del Norwich incapace di comprendere quello che stava succedendo, Wilshere aprì il piatto destro e al volo infilò John Ruddy.

Gioie e dolori

La rinascita di Wilshere durò però poco. E con lui anche quella dell’Arsenal. Nel marzo 2014, il centrocampista soffrì un altro brutto infortunio dopo un’entrataccia di Daniel Agger in un’amichevole fra Inghilterra e Danimarca.

In quel momento l’Arsenal – che era stata a lungo in testa – era ancora in lotta per la Premier League, ma gli immediati risultati videro la squadra di Wenger alzare bandiera bianca in campionato e concentrarsi sulla FA Cup. Alla fine, pur soffrendo le pene dell’inferno sia in semifinale (battuto il Wigan ai rigori) che in finale (rimonta sull’Hull City da 0-2 a 3-2 con gol di Ramsey nei supplementari), i Gunners furono in grado finalmente di celebrare un trofeo dopo nove anni di digiuno.

La partecipazione di Wilshere al trionfo fu minima. Giocò appena un quarto d’ora della finale, ma il centrocampista non si tirò certo indietro nei festeggiamenti, soprattutto quando chiese ai fan cosa pensassero del Tottenham, avviando così uno dei cori più famosi fra la tifoseria biancorossa. Dodici mesi dopo la storia si ripeté: nuova FA Cup per l’Arsenal, stavolta senza patimenti, con Wilshere in campo solamente nel finale nel 4-0 rifilato all’Aston Villa ma ugualmente su di giri durante il corteo celebrativo.

Una stagione conclusa con un nuovo Goal of the Season – quello contro il West Bromwich Albion, una sventola dal limite al volo – ma contrassegnata da un infortunio ai legamenti della caviglia sinistra che lo tenne ai box da novembre a maggio.

Malgrado gli alti e bassi, il vai e vieni dall’infermeria – nella stagione 2015/16 giocò appena tre partite – Wilshere fu comunque uno dei punti fermi dell’Inghilterra di Hodgson e questo la dice lunga sulla (mancanza di) consistenza di quella squadra, che accumulò una delusione dietro l’altra, prima eliminata nel girone del Mondiale 2014, e poi umiliata dall’Islanda agli ottavi di Euro 2016.

L’ultima presenza di Wilshere in nazionale fu proprio contro gli islandesi, quando entrò nel secondo tempo. Successivamente venne chiamato in un paio di occasioni da Gareth Southgate, ma non venne mai schierato. 

Malgrado fosse un giocatore creativo e tecnico, Wilshere era uno che non si tirava mai indietro all’ora di lanciarsi in un tackle o un contrasto, ed apparentemente aveva due velocità, zero o cento all’ora, senza una tacca intermedia.

Una maniera di giocare che aveva contribuito a metterlo in mostra, ma che certamente era stata una delle cause – assieme a un fisico fragile e una buona dose di sfortuna – dei suoi tanti infortuni.

Le continue assenze dei campi gli avevano poi impedito di riacquistare la brillantezza degli esordi e la continuità necessaria a consolidarsi in un palcoscenico sempre più esigente come quello della Premier League. 

A 24 anni Wilshere era di fatto un giocatore senza un futuro chiaro all’orizzonte. Se ne accorse, ahimè, anche Wenger, che nella stagione 2016-17 lo girò in prestito al Bournemouth con l’obiettivo di fargli recuperare minuti e fiducia. L’aria del Dorset e la mano di Eddie Howe gli permisero di effettuare una stagione tutto sommato sufficiente, anche se macchiata da un nuovo infortunio, una rottura del perone, avvenuta proprio contro l’odiato Tottenham. Lesione che lo tenne fuori negli ultimi mesi di stagione. 

Wilshere tornò così all’Arsenal, nell’ultima annata di Wenger in panchina. Fu la fine di un’era, e assieme al manager francese anche Wilshere salutò l’Emirates.

Un periodo particolarmente duro per il centrocampista: dopo non aver sofferto nessun infortunio, era arrivato a maggio nella lista dei possibili convocati per il Mondiale di Russia, ma alla fine Southgate decise di lasciarlo a casa.

Le trattative per strappare un nuovo contratto con l’Arsenal si erano poi arenate, visto che il club non era pronto a sobbarcarsi ancora un ingaggio di circa 90.000 sterline a settimana per un giocatore inaffidabile a livello fisico.

A convincerlo ad andarsene anche le parole del nuovo tecnico Unai Emery, che lo aveva avvertito: nel caso fosse rimasto, avrebbe dovuto accettare un ruolo marginale nel suo progetto.

Un nuovo futuro per Jack Wilshere

Chi accettò il rischio di puntare su Wilshere fu il West Ham di Manuel Pellegrini, un allenatore che in carriera si è sempre caratterizzato nel prediligere giocatori creativi e fantasiosi, e che spesso ha saputo rilanciare carriere, come ha fatto di recente con Isco al Betis Sevilla.

Il matrimonio Wilshere-West Ham sembrava perfetto: il giocatore avrebbe guadagnato 100.000 sterline a settimana – il secondo meglio pagato della rosa – ed in più avrebbe vestito la maglia del club per cui tifava da piccolo. Wilshere ricordò in un’intervista al canale YouTube del club che la sua prima volta al vecchio Upton Park era stata un 5-0 rifilato al Coventry, con doppietta di Paolo Di Canio, uno dei suoi idoli di gioventù assieme a Joe Cole.

L’avventura con gli Hammers fu però una delusione, visto che Wilshere si infortunò già a settembre alla caviglia e, dopo essere rientrato a fine novembre, venne costretto nuovamente ad operarsi. Alla fine, giocò appena 16 gare – 6 da titolare – in due stagioni.

Nell’ottobre 2020 arrivò la rescissione del contratto. Il suo pellegrinare lo portò nuovamente a Bournemouth. Dopo essersi allenato con l’Arsenal e persino con il Como, solo nel febbraio 2022 riuscì a trovare squadra, i danesi dell’Aarhus, dove giocò qualche mese. Alla fine, anche lui si convinse che era arrivato il momento di appendere le scarpette al chiodo.

Attualmente, Wilshere fa parte dello staff tecnico di Johannes Hoff Thorup al Norwich, in Championship. La sua carriera di allenatore era iniziata però nelle giovanili dell’Arsenal con la squadra U18, che con lui in panchina nel 2023 aveva ottenuto l’accesso ad un’altra finale di FA Youth Cup. A distanza di 14 anni da quella vinta con Wilshere in campo, i giovani Gunners ebbero la possibilità di conquistare di nuovo il prestigioso titolo, ma vennero sconfitti 5-1 dal West Ham.

Di quella squadra facevano parte Ethan Nwaneri e Myles Lewis-Skelly. Mentre Nwaneri sta alternando campo e panchina, Lewis-Skelly è ormai un titolare insostituibile nei piani di Mikel Arteta ed ha già debuttato con gol nella nazionale inglese.

Giocatore multiuso, che può giocare sia in mediana che come terzino sinistro, Lewis-Skelly è stato uno dei migliori in campo nella recente sfida casalinga dei quarti di Champions League contro il Real Madrid, dove l’Arsenal si è imposto per 3-0. Una serata indimenticabile per i tifosi biancorossi, che hanno potuto rivivere le emozioni della vittoria contro il Barcelona del 2011.

Contro i blancos, l’indiscusso eroe è stato però Declan Rice, autore di due impressionanti gol su punizione, uno più bello dell’altro. Una prestazione, quella del centrocampista inglese, che rimarrà scritta per sempre nella storia della Champions League. “Ti ricordi quando Rice segnò quei due gol su punizione al Madrid?” racconteremo fra qualche anno nelle nostre chiacchiere da bar. E lo faremo probabilmente con la stessa nostalgia dei tempi passati con cui oggi ricordiamo la prestazione di Wilshere contro il Barcelona e la sua mancata carriera. Che sembra ieri, ma è accaduto 14 anni fa.

 

Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.

Immagine di copertina tratta da Wikipedia.