
Da Jorge Valdano a Sergi Busquets: l’importanza di essere “Robin”
Aprile 13, 2025“Ti sei accorta anche tu che in questo mondo di eroi nessuno vuole essere Robin…”
Cesare Cremonini – 2017
Viviamo in un mondo in cui individualismo ed egocentrismo hanno preso il sopravvento. La smania di emergere e prevalere sugli altri è una delle peculiarità della società odierna nella quale tutti vogliono essere attori protagonisti. La verità è che, il protagonista, non è un ruolo alla portata di chiunque.
Dalle parole di Cesare Cremonini al mondo del calcio il passo è breve. Le squadre di club ruotano sempre più attorno al grande fenomeno, al singolo pagato a suon di milioni e sul quale convergono le aspettative generali. Nel caso in cui i fenomeni in squadra siano due, o c’è chi è talmente bravo a gestire la situazione oppure uno dei due fa le valigie per essere altrove la prima, e unica, donna.
Ma non è sempre stato così. La storia del calcio è ricca di esempi di calciatori importanti che, al servizio della stella, si sono ritagliati uno spazio importante diventando, in silenzio, imprescindibili per il successo del proprio club o della propria nazionale. Partiamo quindi da qui per ripercorrere il passato e scoprire chi, per scelta o per caso, ha deciso di essere Robin.
Gli anni ‘50 e ‘60: il calcio che fu
Prima dell’Olanda del calcio totale di Michels e Cruyff, tra le nazionali che non hanno mai vinto un mondiale ma che, senza ombra di dubbio, avrebbero meritato di vincerlo c’è di diritto la Grande Ungheria degli anni ‘50. Una “Squadra d’Oro” capace di raggiungere per due volte la finale di un Mondiale, 1938 e 1954, e di trionfare alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Una squadra rivoluzionaria sia nel modulo, la doppia M ideata dal tecnico Gusztáv Sebes, sia nei suoi interpreti, esuli all’estero dopo la Primavera di Budapest del 1956.
La stella era ovviamente Ferenc Puskás, uomo da 625 reti in 629 partite disputate in carriera. Dietro di lui, però, Nándor Hidegkuti, era la seconda punta perfetta il cui nome è quasi scomparso nel tempo. Eppure, nel 3-6 di Wembley in cui i magiari diedero agli inglesi la più importante lezione di calcio della propria storia, Hidegkuti realizzò tre reti.
In seguito alla Rivoluzione del ‘56, fu uno dei pochi a rimanere in patria. Puskas, così come tutti i calciatori dell’Honvéd, in quel momento in trasferta per una gara di Coppa dei Campioni, approfittò della situazione per non far ritorno a Budapest. Ad accoglierlo fu il Real Madrid di Bernabeu e Di Stefano, con il quale l’ungherese, formò una coppia calcisticamente devastante.
L’ala sinistra del Grande Real era però Francisco Gento, l’unico a vincere tutte e sei le Coppe dei Campioni conquistate dai Blancos nell’era Bernabeu. Di lui si parla troppo poco ma rappresenta una vera e propria leggenda di un club capace di vincere le prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni.
Le due edizioni successive ai successi madridisti videro trionfare il Benfica di Eusebio. Negli anni in cui la Pantera Nera era uno dei calciatori più importanti al mondo, José Águas era il centravanti del club in grado di arrestare l’egemonia europea del Real. Soprannominato Cabeça de Ouro per l’abilità nel colpo di testa, segnò sia nella finale del 1961 contro il Barcellona, sia in quella successiva contro il Real Madrid.
Gli anni ‘60 furono anche quelli del discusso mondiale inglese e della consacrazione di Pelé ad uno degli uomini più importanti del Novecento. Tra il 1966 e il 1968 Bobby Charlton riuscì prima a vincere il Mondiale con la propria nazionale e poi a portare il Manchester United sul tetto d’Europa. Charlton e George Best rimangono oggi i simboli di quella generazione britannica della quale però, non si può dimenticare Denis Law, scozzese e Pallone d’Oro del 1964.
Sul mito di Pelé c’è poco da aggiungere. Penso sia giusto e doveroso, però, sottolineare come il Brasile dei tre successi mondiali tra il 1958 e il 1970, era una nazionale ricca di calciatori di livello mondiale. Pelé, Garrincha, Rivelino ma anche Vavà, in gol sia nella finale del ‘58 contro la Svezia che in quella del ‘62 contro la Cecoslovacchia, e Jairzinho, miglior marcatore del Brasile in Messico nel 1970. In quell’edizione, Jairzinho andò a segno per sette volte con la particolarità di aver realizzato almeno una rete in ciascuna delle partite disputate dalla sua nazionale.
Germania Ovest e Olanda: non solo Muller e Cruijff
Pensi alla Germania Ovest degli anni ‘70 e affiorano alla mente Beckenbauer e Gerd Muller. Se il Kaiser era il leader e Muller lo spietato centravanti, Uli Hoeness era la spalla perfetta. Vinse anch’egli il Mondiale del 1974 e segnò due reti nella finale di Coppa dei Campioni del 1973/74 tra il suo Bayern Monaco e l’Atletico Madrid.
Johan Neeskens: l’apparente paradosso del ‘secondo’ universale
I tre tedeschi Campioni del Mondo ebbero la meglio sull’Olanda di Rinus Michels, con la quale Johan Cruijff stava mettendo a punto la prima delle due rivoluzioni che hanno stravolto il gioco del calcio. Prima all’Ajax poi al Barcellona, e tra i due l’Olanda del Calcio Totale. Senza Johan Neskeens, la rivoluzione Orange non si sarebbe potuta attuare. Neskeens era per doti tecniche e fisiche l’interprete perfetto del pensiero di Michels e Crujiff. In un contesto di gioco in cui le posizioni statiche non esistevano, Neskeens era capace di posizionarsi dieci metri dietro Cruijff per poi coprire, nel prosieguo dell’azione, una porzione di campo dieci metri avanti a Crujiff. Cuore, testa e tecnica al servizio del genio. Insieme disputarono 269 incontri.
L’inevitabile salto in Sudamerica: Jorge Valdano, il Robin per antonomasia a Messico 1986
Nell’immaginario collettivo, l’Argentina del mondiale messicano è sinonimo di Maradona. La verità è però che quella squadra, guidata da Bilardo, era formata da ottimi calciatori. Da Batista a Burruchaga, da Ruggeri a Valdano, Diego era il D10S ma gli altri reggevano comunque il contesto. In quell’edizione Jorge Valdano segnò 4 reti di cui, la più importante, in finale per il momentaneo raddoppio argentino.
Compagno e amico fedele sia in campo che fuori. Nel suo libro “El miedo escénico y otras hierbas” noto in Italia con il titolo “Il sogno di Futbolandia”, Valdano racconta un particolare episodio che lo lega a Maradona.
In Messico persi una scommessa. Io e Diego eravamo abituati, dopo l’allenamento, a sederci sull’erba e chiacchierare. In lontananza i giornalisti ci guardavano e aspettavano che andassimo da loro. Diego sosteneva che a nessuno di loro piaceva il calcio. Io non ero d’accordo. Si poteva discutere sulla loro reale conoscenza ma non sul fatto che gli piacesse. A quel punto mi disse:
“Io ora gli lancio la palla, se chi la prenderà ce la renderà con i piedi, avrai ragione tu, ma se ce la restituirà con le mani allora avrò vinto io”.
Si alzò in piedi e con una precisione di cui solo lui era capace mise il pallone in mezzo ai giornalisti. Uno corse, afferrò la palla e ce la rese con due mani. A quel punto io cercai di salvarmi dicendo che forse era impaurito nel calciare la palla davanti a Maradona ma Diego aveva sempre la battuta pronta:
“Jorge se io fossi in smoking, alla festa del Presidente del Paese, e mi arrivasse un pallone, lo stopperei di petto e lo renderei come Dio comanda”.
Pacho Maturana e il fiasco del “Valladolid de los colombianos”
L’Argentina del dopo Maradona, fatta eccezione per la parentesi di Diego a USA 94, subì la più importante sconfitta della sua storia in casa, il 5 settembre del 1993, al Monumental di Buenos Aires contro la Colombia. Quell’incontro rappresenta la massima espressione del calcio del Pacho Maturana. Non solo Valderrama e Asprilla ma anche Freddy Rincon autore, quel giorno, di due delle cinque reti colombiane all’Argentina ma, soprattutto, capace di realizzare forse il gol più importante della storia della nazionale colombiana. Al Mondiale italiano è proprio grazie a una rete di Rincon che la Colombia pareggia contro la Germania Ovest a tempo ormai scaduto e supera per la prima volta il primo turno di un Campionato del Mondo.
Facciamo poi un salto in avanti del tempo. Dalla generazione dorata colombiana a quella cilena. Quello di Edu Vargas è il nome che salta fuori solo dopo quelli di Sanchez, Vidal e Medel. Ma nel doppio storico successo cileno in Copa America, nel 2015 e nel 2016, c’è soprattutto la sua firma. Fu lui il capocannoniere di entrambe le edizioni.
Un po’ di Italia prima di volare in Spagna
“…da quando Baggio non gioca più..non è più domenica”
Ecco che per parlare del Bel Paese possiamo ricorrere ancora una volta ai versi di Cremonini. Che il cantautore bolognese si riferisca a Roberto Baggio non ci sono dubbi ma sono abbastanza certo che i più giovani non abbiano la minima idea di chi fosse l’altro Baggio. Quel Dino che, specialmente nei primi anni della sua carriera, condivise lo spogliatoio di Juventus e della Nazionale proprio con il compagno più famoso accettando, ovviamente, il ruolo del “secondo” Baggio.
Nel biennio 93-95, però, Dino Baggio fu protagonista proprio quanto Roberto. Segnò tre reti nella doppia finale di Coppa Uefa 92/93 tra Juventus e Borussia Dortmund. Si ripeté poi, segnando due gol, nella doppia finale del 94/95, sempre in Coppa Uefa, ma con la maglia del Parma e stavolta contro la Juventus. Nel mezzo il Mondiale statunitense nel quale realizzò due reti importanti contro Norvegia e Spagna.
Proprio in Spagna termina questo viaggio alla riscoperta di quei calciatori fondamentali per alcuni grandi campioni ma il cui ricordo si è smarrito nei meandri del tempo.
Figo, Zidane, Ronaldo e Beckham sono i quattro acquisti clamorosi che Florentino Perez regalò ai tifosi del Real Madrid nei primi anni duemila. Prese così forma il Real dei Galacticos che già poteva contare su Raul, Roberto Carlos e…Guti. Si perchè il talento di José Maria Gutiérrez Hernández non era secondo a nessuno. Basti vedere e rivedere l’assist di tacco per Benzema al Riazor contro il Deportivo La Coruña del 2010.
Rimanendo in Spagna, ho l’impressione che, se chiedessimo a dieci persone, il nome di un centravanti della nazionale degli ultimi quindici anni, almeno sei direbbero Fernando Torres. Forse un paio farebbero il nome di Morata ma nessuno, o quasi, chiamerebbe in causa David Villa. Ovviamente spero di sbagliarmi dato che l’ex attaccante di Real Saragozza, Valencia e Barcellona è, ancora oggi, il primo marcatore all time delle Furie Rosse con 59 reti, molte delle quali al servizio del vittorioso Europeo del 2008 e del trionfo Mondiale del 2010.
Siamo giunti al termine. Per l’occasione ecco la domanda finale.
Ma senza Sergio Busquets che cosa sarebbero stati Xavi e Iniesta?
La domanda è palesemente provocatoria ma ha l’obiettivo di dare lustro a un giocatore dal valore assoluto che viene citato praticamente mai ma che ha letteralmente rivoluzionato il ruolo del numero 5. Intelligenza, freddezza, tecnica e lettura del gioco fuori dal comune. Era in grado, con un semplice passaggio nei tempi e nello spazio giusto, di condizionare la giocata futura del compagno. In poche e semplici parole, Busquets era capace di mettere il compagno che riceveva la palla nella condizione di non sbagliare la giocata successiva.
Alessandro Sanna è un insegnante, tifoso del Cagliari e del Newell’s Old Boys, esperto di calcio sudamericano.
Ha scritto tre libri: “Fantasie calcistiche rioplatensi: Storie di fútbol tra fantasia e realtà
“¡Que viva el fútbol!: Storie, aneddoti e cronache delle più accese rivalità sudamericane”.
“Cagliari è celeste: storia di un amore mistico oltre il calcio”.
Fondatore della pagina, del Podcast e del canale twitch “Que Viva el Fútbol”.
Collabora con Carlo Pizzigoni a “La Fiera del Calcio”.
Immagine di copertina: Jorge Valdano a Messico 1986, tratta da Wikimedia Commons.