Xabi Alonso e gli altri: madridisti dal campo alla panchina merengue
Giugno 11, 2025Il Real Madrid, dopo un periodo di efficiente stabilità, convertito quest’anno in una improduttiva inerzia, ha premuto finalmente il bottone di “fine ciclo”. Con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Non siamo certo ai livelli delle estati 2009 o 2010, quando la squadra venne letteralmente rivoluzionata, ma questo 2025 verrà senza dubbio ricordato come un bivio importante nella storia del club. In primis perché molte facce che eravamo abituati a vedere nel Bernabéu hanno salutato. Ci sono stati gli addii di due leggende come Carlo Ancelotti e Luka Modric. C’è stata la partenza di un uomo squadra come Lucas Vazquez, dopo dieci stagioni vestito di blanco.
Ci sono poi le novità in entrata: i fichajes già confermati di Dean Huijsen e Trent Alexander-Arnold, e quelli che arriveranno ancora. Perché a Madrid l’estate si prevede lunga e calda negli uffici del club. E, “last but not least”, c’è lui, il nuovo condottiero a cui Florentino Perez ha affidato il timone della squadra: Xabi Alonso.
Una chiamata, quella del tecnico basco, tanto logica dal punto di vista sportivo quanto fisiologica da quello emotivo. In fin dei conti, in casa Real Madrid, l’ex giocatore in panchina ha sempre funzionato. Anche quando uno meno se lo sarebbe aspettato. E perfino in occasioni in cui il cambio pareva poco sensato.
L’eterno Miguel Muñoz
Il primo ex giocatore a finire sulla panchina blanca fu ovviamente Santiago Bernabéu. Ma Don Santiago non conta, perché nel club ha fatto di tutto prima di diventare presidente nel 1943. Poi toccò a Jacinto Quincoces e Juan Antonio Ipiña, anche se le loro esperienze furono brevi e senza particolari trionfi, a parte una Coppa del Generalissimo (così era chiamata l’attuale Coppa del Re ai tempi di Franco) ottenuta da Quincoces.
Chi invece ebbe successo e durò tantissimo nell’incarico fu Miguel Muñoz. Da giocatore era stato centrocampista del Real Madrid e il capitano che aveva alzato al cielo la prima Coppa dei Campioni. Fu suo anche il primo gol del Real Madrid nelle competizioni europee. Se non bastasse tutto questo per farlo entrare nella “Hall of Fame” del club, una volta appese le scarpette al chiodo, Muñoz diventò allenatore, prendendo il mano il Plus Ultra, club madrileno che allora faceva la funzione di squadra filial del Real.
La prima chiamata da Bernabéu giunse nel 1958. Giusto un paio di mesi, il tempo necessario all’argentino Luis Carniglia per riprendersi da una operazione. Nella stagione successiva arrivò poi la promozione definitiva, quando Muñoz sostituì Manuel Fleitas Solich. Appena un mese più tardi vinse la Coppa dei Campioni, diventando anche il primo a farlo sia come tecnico che come giocatore.
I numeri di Muñoz sulla panchina del Real Madrid dicono tutto: 605 partite dirette, nove campionati di Liga, due Coppe dei Campioni, due Coppe del Generalissimo e una Coppa Intercontinentale, per un totale di 14 titoli. È secondo per numero di trofei solo dietro Ancelotti (15) ma con l’attenuante che all’epoca non si giocavano né Supercoppa Europea né Supercoppa di Spagna.
La parabola di Muñoz superò poi anche il peggiore dei “terremoti”, ovvero una lite con Alfredo Di Stefano, la stella indiscussa di quel Real Madrid. Fu un momento di crisi inaspettato, uno scontro fra titani che il presidente Bernabéu risolse con autorità, appoggiando il tecnico. La brusca decisione di Don Santiago divise l’opinione pubblica, ma il presidente non fece altro che applicare quella regola non scritta – che sembra valere anche oggi – secondo la quale nel Real Madrid nessun giocatore, per grande che sia, possa essere più importante del club. E nemmeno Di Stefano faceva eccezione.
Luis Molowni e Vicente Del Bosque: gli “uomini della casa”
A tutto però c’è una fine. Così, nel 1974, fu un altro “uomo della casa” a prendere il posto di Muñoz nel 1974: Luis Molowny.
Molowny era stato la stella del Real Madrid nel periodo pre-Di Stefano – i due giocarono assieme tre stagioni – ed era emerso come uno degli allenatori rivelazione degli anni Sessanta, quando riuscì a portare il Las Palmas nei piani alti della Liga, in quello che è considerato il periodo d’oro del club canario.
A Madrid il suo incarico principale fu quello di direttore sportivo, per questo solamente in due occasioni guidò i blancos da inizio a fine campionato. Era solito infatti abbandonare gli uffici solo nel caso in cui non ci fossero stati più rimedi alla crisi se non un cambio in panchina. Per questo Molowny venne soprannominato “apagafuegos”: letteralmente, colui che spenge un incendio. E quasi sempre ci riusciva, visto che portò in bacheca tre campionati di Liga, due Coppe del Re e due Coppe UEFA.
A parte alcuni esperimenti poco fortunati come lo stesso Di Stefano ed Amancio Amaro, negli anni Novanta, con il Barcelona di Johan Cruijff che stava dominando il calcio spagnolo, Ramón Mendoza affidò l’incarico a Jorge Valdano, anche lui ex giocatore. L’argentino era l’allenatore di moda in quel periodo, visto il suo straordinario lavoro svolto sulla panchina del Tenerife. Il suo arrivo coincise inoltre con una adeguata campagna acquisti, le cui ciliegine sulla torta furono Michael Laudrup e Fernando Redondo.
La scelta di Valdano diede subito i suoi frutti. Tuttavia, l’idillio durò il tempo di celebrare una Liga, perché poi il Real Madrid tornò a vivere nell’instabilità, sia in panchina che nei piani alti. Lorenzo Sanz prese il posto di Mendoza alla presidenza, mentre in panchina si alternarono Fabio Capello, Guus Hiddink, Jupp Heynckes e John Benjamin Toshack. Tutti tecnici dal pedigree internazionale, ma nessuno capace di aprire un nuovo ciclo. Malgrado una Liga e una Champions League vinte, nonostante rose ricche di campioni, il Real Madrid continuava ad essere una baraonda. In campo, negli spogliatoi e nei piani alti del club.
Il punto di non ritorno arrivò nel novembre 1999, quando Toshack venne rimpiazzato dal baffuto e taciturno Vicente del Bosque. L’ex centrocampista aveva in pratica preso il posto di Molowny e dopo alcune stagioni alla guida delle giovanili si era trasferito negli uffici per svolgere compiti dirigenziali. Non era la prima volta che scendeva in panchina – lo aveva fatto anche nel 1994 e nel 1996 – ma mentre in precedenza si era trattato di periodi brevi e limitati, questa volta la sua permanenza si prolungò fino al 2003. Questo perché il cambio prodotto dal suo arrivo fu di proporzioni bibliche.
Del Bosque calmò uno spogliatoio che fino a quel momento era una polveriera, facendo sì che tutti remassero nella stessa direzione, diede fiducia a un portiere di 18 anni – Iker Casillas, un nome che in molti si sarebbero ricordati a lungo – confermandolo titolare, ed iniziò a correggere i problemi in campo. Piano piano arrivarono anche i risultati. E che risultati! Non solo Del Bosque salvò la stagione ma in tre anni e mezzo vinse due Champions League, due campionati di Liga, oltre che una Supercoppa d’Europa, una Supercoppa di Spagna e una Coppa Intercontinentale.
Del Bosque coincise inoltre con l’inizio dell’era dei Galacticos. Un ciclo – fortemente voluto dal nuovo presidente Florentino Pérez – che però si interruppe bruscamente con l’allontanamento dello stesso Del Bosque. Senza di lui, nei successivi tre anni il Real ottenne la miseria di una Supercoppa di Spagna. Troppo poco per un club abituato a dominare in patria e in Europa.
Zizou, il traghettatore vincente
Dopo alcune scelte fallimentari – l’ex portiere Mariano García Remón e il capitano di lungo corso José Antonio Camacho – e dopo aver fatto nuovamente ricorso all’aiuto di Capello per rivincere una Liga, nell’estate 2007, l’allora presidente Ramón Calderón decise di puntare tutto su Bernd Schuster, un altro ex giocatore merengue passato dal campo alle panchine.
Il tedesco aveva fatto bene in Liga nei due anni precedenti con il Getafe, giocando una finale di Coppa del Re – persa di misura contro il Sevilla – alla quale erano arrivati dopo aver eliminato il Barcelona in semifinale con un clamoroso 4-0 al Coliseum nella gara di ritorno. Con Schuster, poi, si cercava uno stile di gioco più attrattivo rispetto a quello speculativo (ma vincente) di Capello, con l’italiano ferocemente criticato durante tutta la stagione precedente da stampa e tifosi.
Schuster iniziò col piede giusto vincendo nettamente la Liga, ma le eliminazioni negli ottavi di Coppa del Re (Mallorca) e Champions League (Roma) fecero storcere la bocca a molti addetti ai lavori. La stagione seguente, il tedesco venne poi scaricato prima di un Clásico. Aveva fatto l’imperdonabile errore di mettere in guardia l’ambiente, dichiarando che “vincere contro il Barcelona di Pep Guardiola sarebbe stato impossibile”.
L’obiettivo era quello di togliere pressione ai giocatori, ma invece, con quella imprudente frase, Schuster si scavò la fossa con le proprie mani. Anche se probabilmente il suo destino era già segnato dopo la sconfitta casalinga contro il Sevilla della domenica precedente.
La corsa alla Decima, l’irruzione del Barcelona di Leo Messi, Pep Guardiola e del tiki-taka, furono un mix che crearono grossa insofferenza dalle parti di Madrid e che riportarono alla presidenza Florentino Pérez, dimessosi nel 2006.
La squadra venne quasi interamente ricostruita con un netto cambio di gerarchie: dopo anni con Raúl a tenere alta la bandiera del club, adesso la stella si chiamava Cristiano Ronaldo. Da lì in avanti tutto il Real sarebbe ruotato intorno a lui. Pure in panchina si puntò su nomi forti, con due specialisti in coppe europee come José Mourinho e Carlo Ancelotti, con quest’ultimo che riportò finalmente la Champions League in bacheca.
Tuttavia, la prima esperienza di Carletto si interruppe bruscamente alla seconda stagione, dopo un vistoso calo che aveva portato il Real Madrid a concludere l’annata con appena due titoli minori, la Supercoppa Europea e il Mondiale per Club. La squadra era sembrata poi troppo dipendente da Cristiano Ronaldo, con una certa anarchia tattica in campo che tanto assomigliava a quella vista quest’anno.
Florentino cercava poi un tecnico che sapesse dare maggior protagonismo – anche a costo di toglierlo a CR7 – a James Rodriguez e Gareth Bale, per i quali aveva sborsato ben 180 milioni di euro. Fu Rafa Benitez il prescelto.
Madrileno, Benitez non rientrava nella casistica di ex giocatori, ma era comunque anche lui un “uomo della casa”. Da ragazzino aveva giocato infatti nelle giovanili merengue – prima che un infortunio gli troncasse la carriera – e proprio nella Cantera blanca aveva iniziato la parabola di allenatore, lavorando al fianco di gente come Molowny e Del Bosque.
Il curriculum di Benitez non si discuteva. I suoi metodi utilizzati nei pochi mesi passati a Madrid invece sì. A livello tecnico, la squadra rimaneva sempre un ibrido, ancora troppo dipendente dall’ispirazione del singolo. Non essersi saputo guadagnare le simpatie né dei tifosi né di alcuni pesi massimi della rosa – su tutti Cristiano Ronaldo – risultò poi un errore imperdonabile. Così come inaccettabile risultò perdere 0-4 il Clásico del Bernabeu.
In quell’occasione accadde una cosa strana, ovvero l’utilizzo da parte di Benitez di una formazione scellerata tatticamente, il contrario del suo credo. L’assenza di Casemiro, lasciato fuori per far spazio a James Rodriguez, fu un vero e proprio suicidio tattico. Nel club premevano per vedere la stella colombiana assolutamente in campo nella vetrina del Clásico, e sembrò come se Benitez avesse ceduto alle pressioni provenienti dai piani alti.
Florentino tardò qualche settimana a licenziarlo. Senza tecnici disponibili sul mercato, la scelta ricadde su Zinedine Zidane, in quel momento alla guida del Castilla.
Come Zidane ha rilanciato il Real Madrid: la centralità di Casemiro
Secondo le malelingue, Zidane era diventato allenatore solamente per garantire minuti in campo ad Enzo, il più grande dei quattro figli, che giocava proprio con il Castilla. In molti pensavano che il francese sarebbe stato un mero traghettatore, con il suo status di leggenda del club ad evitare fischi o ulteriori contestazioni da parte dei tifosi. E che poi a fine stagione sarebbe arrivato un “vero” allenatore.
Invece, sappiamo tutti quello che Zizou è stato capace di fare: il primo periodo con il francese alla guida del Real Madrid fu incredibile e si concluse con tre Champions League ed una Liga vinte. A dimostrazione che quel Madrid poteva competere anche su tutto l’arco di una stagione e non solo apparire in pompa magna solo nelle notti europee. Meno redditizio fu invece il secondo periodo, nel quale Zidane ottenne un’altra Liga, terminando però la stagione 2020/21 con “zero titoli”. Cosciente di cosa significhi questo in un club come il Real Madrid, Zizou pensò bene di dimettersi a fine campionato, aprendo così le porte al ritorno di Ancelotti.
Xabi Alonso: adesso tocca a te
Mentre il Barcelona cerca sempre di mettere in evidenza la maniera in cui si “caccia” un trofeo – come se lo stile importi più del risultato stesso – a Madrid il focus è sempre stato nelle “prede” e la loro qualità. Sulla panchina dei blancos, infatti, nel corso della storia raramente c’è stato spazio per apprendisti stregoni o tecnici rivoluzionari.
Benito Floro, per esempio, arrivò nel 1992 come il “Sacchi spagnolo” dopo aver fatto benissimo con l’Albacete, ma a parte la vittoria in Coppa del Re lo si rammenta più per il colorito siparietto a base di sproloqui nello spogliatoio di Lleida, il quale, unito alla sconfitta, gli costò il posto. Il ricordo del suo 4-4-2 a zona finì rapidamente nel dimenticatoio, così come il “quadrilatero magico” del tecnico brasiliano Vanderlei Luxemburgo, un altro arrivato con l’etichetta di mago ma rispedito al mittente dopo un annetto.
Xabi Alonso arriva a Madrid forte di un successo in un posto dove nessuno era mai riuscito prima: Leverkusen. La gavetta con la Real Sociedad B gli ha fatto poi godere di un importante “periodo di cuscinetto” per formarsi, evitando di usare quella corsia preferenziale con la quale molti calciatori tendono a passare rapidamente dal campo alla panchina finendo inevitabilmente per bruciarsi.
Nella sua traiettoria come giocatore Xabi Alonso ha avuto poi maestri del calibro di Benitez, Mourinho, Guardiola, Ancelotti, Del Bosque ed Luis Aragones. Senza parlare dell’educazione calcistica imparata in casa dal padre Miguel Ángel “Periko” Alonso, ex calciatore di Real Sociedad, Barcelona, Sabadell e nazionale spagnola. Difficile trovare un’università calcistica più completa. Anche perché il gioco in questi anni si è evoluto e continua ad evolversi in continuazione.
Per questo è ancora presto per capire se Xabi Alonso sia l’allenatore giusto per riportare il Real Madrid sul tetto del Mondo. Sulla carta sembrerebbe di sì, ma sulla carta anche Zidane o Del Bosque erano dei meri traghettatori. Occorrerà infatti capire se i suoi metodi, che hanno avuto successo in Germania, possano essere interamente replicati a Madrid, con un nuovo e differente gruppo di giocatori. I recenti trionfi del PSG hanno infatti confermato che una squadra – anche se ricca di stelle – non può dipendere sempre dall’ispirazione del fenomeno di turno. Che difesa ed attacco non sono fasi separate fra loro ma che bisogna essere in grado di saperle fare (bene) entrambe. E con l’intensità giusta.
In questo, Xabi Alonso arriva nel momento migliore, visto che dopo un’annata come quella appena conclusa è più facile spazzar via i calcinacci e ricostruire qualcosa dalle fondamenta, modellandolo a proprio piacimento, piuttosto che provare a riparare una struttura i cui deficit strutturali l’avevano portata prossima al crollo.
Ci sono comunque diverse settimane prima la nuova stagione inizi, con il Mondiale per Club a fare da spartiacque. C’è ancora molto di tempo per fare ulteriori acquisti e valutare il nuovo progetto. Che, come tutti i progetti del Real Madrid, avrà un unico metro di giudizio: il numero e il prestigio dei trofei che la squadra riuscirà a mettere in bacheca.
Testo di Juri Gobbini. Autore della pagina Facebook Storia del Calcio Spagnolo, del libro “Dalla Furia al Tiki-Taka” (Urbone Publishing) e de “La Quinta del Buitre”.
Immagine di copertina tratta da Wikimedia Commons.


